101 storie sull'Islam che non ti hanno mai raccontato
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Dopo il crollo dei regimi in Egitto e Tunisia, la guerra civile in Libia e la sensazionale uccisione di Osama Bin Laden, in tutto il mondo si torna a parlare con insistenza di islam. Per raccontare in modo nuovo, rigoroso e appassionante, la ricchezza e la profondità della cultura musulmana, al riparo dal diffuso pregiudizio occidentale, Angelo Iacovella, esperto di lingua e letteratura araba e fine islamista, ha raccolto 101 storie vere, leggende, aneddoti bizzarri ed episodi tratti dalle fonti originali. Sono storie apprese in terra d’islam, racconti ascoltati davanti al paesaggio mozzafiato di un deserto o alle rovine di una vecchia moschea, o riscoperte negli antichi testi. Che cosa lega Romeo e Giulietta alle fiabe beduine? E i vampiri alle piramidi egizie? Esiste un filo rosso tra Dante Alighieri e il Libro della Scala di Maometto? Queste e altre curiose domande troveranno risposta tra le pagine di un libro che ha l’ambizione di «istruire dilettando», secondo un binomio che fu caro ai letterati arabi del Medioevo e al quale l’autore ha voluto ispirarsi.
Angelo Iacovella
(Roma, 1968) è docente di lingua e letteratura araba presso la Libera Università IUSPIO di Roma. Medievista di formazione, attualmente si occupa di storia della letteratura mistica arabo-musulmana. Ha insegnato presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale e negli atenei della Calabria, di Roma (la Sapienza) e della Tuscia. Autore di saggi e monografie sulla civiltà musulmana, ha pubblicato, tra l’altro, L’epistola dei settanta veli di Muhyî al-Dîn Ibn ‘Arabî, Il pettine e la brocca. Detti arabi di Gesù, Il concerto mistico e l’estasi di Abû Hâmid al-Ghazâlî. Ha inoltre curato, in collaborazione con Alberto Ventura, il volume miscellaneo Il fondamentalismo islamico.
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Anteprima del libro
101 storie sull'Islam che non ti hanno mai raccontato - Angelo Iacovella
162
Prima edizione ebook: maggio 2011
© 2011 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
Nella traslitterazione dei nomi propri
e dei vocaboli arabi e persiani ci siamo avvalsi
di un sistema semplificato. Per il turco si è seguita
un’ortografia moderna, anch’essa semplificata.
ISBN 978-88-541-3269-6
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica realizzata da Gag srl
Angelo Iacovella
101 STORIE SULL’ISLAM
CHE NON TI HANNO
MAI RACCONTATO
Newton Compton editori
Se il genio fosse uscito dalla lampada
e mi avesse detto:
«Eccomi, hai un minuto soltanto,
scegli tutto ciò che vuoi di granati
e di smeraldi!»,
io avrei scelto i suoi occhi,
senza esitazioni.
NIZÂR QABBÂNÎ
Prefazione
Il «Voscenza benedica!» con cui ci si saluta tra galantuomini è islâm. Il «Vossia», infatti, è la traduzione del «salâm ‘alaykum». E anche sedere in cerchio, sul marciapiedi di una città del Sud – accomodati davanti alla vetrata di un circolo di compagnia o su un terrazzo o sotto le verande di un bar – è islâm.
Le location scelte da Dolce&Gabbana, al netto del glamour, svelano il remoto che fa capolino nel sangue mediterraneo. E quei signori che stiamo osservando nel loro convivio stanno ripetendo gli stessi gesti dei loro antenati che avevano le stesse facce sporche di sole e di poesia. Gli stessi che, magari accovacciati, si accomodavano nei pressi di una moschea. Come oggi i loro discendenti che a un tavolo, davanti ad un bicchiere di chinotto, mettono in scena la società. Leggendo questo delizioso libro di Angelo Iacovella leggiamo noi stessi. Iacovella, forte della sua scienza di islamologo, ricercatore di lingua e letteratura araba e socio dell’IsIAO (Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente), mette a frutto la sua erudizione per accompagnarci – con le sue storie, tutte sorprendenti, tutte avvincenti nell’affabulazione – davanti allo specchio d’Oriente per meglio risplendere del nostro stesso essere d’Occidente.
C’è l’amore fatto di due amori in questo libro. E c’è la storia di quelle storie che conoscono la radice unica di sangue, spirito e limes. Gli antenati i cui nomi venivano preceduti da «ibn» o da «abû», infatti, facevano «il ragionamento» come lo fanno oggi i loro discendenti i cui nomi hanno eco di «zio» e «don». Stretti a cerchio intorno al più venerabile tra loro, avi e posteri «ragionano» di temi supremi e bagattelle.
Ogni volta che gli uomini si prendono una pausa per parlamentare, si cercano – quasi per istinto – il più vecchio e questi, sazio di carisma, parla loro con un filo di voce costringendoli a piegarsi, quasi inchinarsi. E fu grazie a questo codice che Francis Ford Coppola ebbe l’idea di far sussurrare il suo Vito Corleone, «il Padrino». E anche quello è islâm. Chiunque faccia esperienza delle processioni di memoria della Passione di Cristo in terra già toccata dall’islâm – sia essa l’Andalusia, la Sicilia e gran parte del Meridione d’Italia – nei segni del Martirio e nella sequela dei flagellati riconoscerà più di una somiglianza con il Martirio di ‘Ashûrah e «il profumo dei candidi fiori caduti con Husayn». E non è blasfemia accorgersene. Neppure tornando ancora più indietro nel tempo. Con il mistero di Dioniso.
L’antico che, insomma, torna sotto le vestigia di cerimonie, ospitalità, cassata, rete idrica, giardini di agrumi, filosofia, canti, silenzi e intarsi è islâm. E nel non conoscere l’islâm disconosciamo noi stessi. Noi che siamo figli di Roma e di Atene, figli del Reno e del Gange – noi che siamo incamminati verso le steppe e i ghiacci – siamo a maggior ragione eredi di Aristotele e della Volontà di Potenza grazie a quei guerrieri venuti dal deserto che nelle biblioteche di Andalusia e di Damasco seppero farsi lievito con le pagine della Metafisica per riaffiorare poi, secoli dopo secoli, perfino tra le righe di Friedrich Nietzsche. Il filosofo dello Zarathustra fece proprio un hadîth del profeta: «Il Paradiso è all’ombra della spada». E questo stesso viatico ancora oggi è scolpito sulla lapide che, a Roma, nel quartiere Prati, ricorda i caduti della Guerra. Il traffico di automobili scorre inconsapevole e quando i picchetti d’onore vanno a depositare gli allori non sanno di svegliare la possente e sublime voce di Muhammad. E sempre sia lode a lui e alla sua famiglia.
Tra le tante cose che non conosciamo dell’islâm ignoriamo la cosa più evidente: l’islâm è la nostra identità segreta nell’epoca della Rivelazione compiuta se si pensa che il più grande tra gli imperatori d’Europa, Federico II, da tedesco volle farsi arabo per vivere l’universalità della conoscenza in Sicilia; se non dimentichiamo, poi, come tutta la scienza dell’uomo, quella fatica della civilizzazione che fu romana, è proseguita con i saraceni quando, giungendo in Africa, liberarono le genti dall’ignoranza, estirpando l’abominio del cannibalismo e della superstizione. Ma se si considera, infine, che Dante Alighieri, pur essotericamente condannando il profeta tra gli eretici, nella sua Divina Commedia esotericamente dissemina le tracce di un illuminato cammino sapienziale, capiremo come il più grande dei poeti stia tributando omaggio alla fonte primigenia del suo viaggio nell’aldilà, ovvero, il Libro della Scala di Maometto. L’islâm è una regione del cuore. Ci appartiene. Anche inconsapevolmente. Ci riguarda nella sfera interiore. Perfino quando ci sembra ostile.
La religione cui siamo abituati è quella dove gli uomini stanno (stavano) fuori dalla chiesa nel frattempo che le femmine si battono (si battevano) il petto davanti al prete. Ed è per questo che ci riesce difficile sentire affinità a un racconto virile e totale al punto di essere il romanzo corale di una destinazione storica, la nostra, dove pensavamo di aver chiuso tutti i conti con il trascendente mentre giusto stamattina, sintonizzando i nostri televisori su ciò che ci accade intorno – a poche miglia di mare, a poche ore di volo – abbiamo visto autocarri pieni di giovinezze e mitragliatrici, veicoli sulle cui fiancate le scritte inneggiano a Dio e alla Religione.
Tra le tante cose mai raccontate dell’islâm c’è, innanzitutto, il non aver raccontato a noi stessi la contraddizione della modernità: quanto di Marx ci siamo lasciati alle spalle, quanto di materialismo scientifico abbiamo dimenticato nella polvere del modernariato, tanto di Heidegger ce n’è venuto in soccorso, con quel suo Dio che, da solo, potrà salvarci, nell’ascolto dell’Essere. Credevamo di aver cancellato per sempre il Sacro con un cristianesimo d’Occidente ridotto sempre di più ad un’agenzia di assistenza sociale. Ce la siamo cavata tra i buoni propositi dell’etica, abbiamo messo le mutande ai cani e fatta la permanente alle gatte negando loro i calori perché, infine, la sessuofobia ottenebra i nostri giorni di freudiani attardati (abbiamo buttato Marx ma il mammozzone Freud ce lo teniamo ancora caro). Procuriamoci piuttosto tre peperoni. E recitiamo un versetto dalla sura «del pentimento». Leggiamo e leggete, tra le turqueries suggerite da Angelo Iacovella, la numero 47 delle 101 storie sull’islâm. Una tra quelle che non ci hanno mai raccontato. E non guardiamoci mai alle nostre spalle. Il futuro, infatti, è ancora tutto da preparare. E il meglio, inshallâh, è davanti a noi.
Post scriptum
E poi, certo, tra le tante storie c’è quella del fondamentalismo. L’uccisione di Osama Bin Laden mette il tappo alla bottiglia effervescente delle supposizioni e dei retroscena intorno alla strategia dell’islamismo radicale. Ne verremo a sapere di questa uccisione più di quante ne sono state raccontate sulla morte di John Lennon, su quella del presidente Kennedy e sul bandito Salvatore Giuliano. Sarà un racconto infinito perché alimentato secondo regola del terrore. E del pop. Detto questo, il fondamentalismo è parte integrante della post-modernità, fratello gemello di quella angoscia altrimenti conosciuta come nichilismo. Ma è una storia più che raccontata di cui l’islâm è la prima vittima.
PIETRANGELO BUTTAFUOCO
Preambolo dell’autore
Scrivere un libro senza un eccessivo corredo di note a piè di pagina è sempre stato, devo ammetterlo, un mio segreto desiderio, almeno sin dai tempi in cui – islamista in erba – mi capitava, non di rado, di bazzicare angiporti e bassifondi delle città arabe (e turche). Da quei lunghi e ripetuti soggiorni giovanili in terra d’islâm, così come dalle amicizie cementate e dai racconti raccolti on the road, davanti – magari – al paesaggio mozzafiato di un deserto o alle rovine di una vecchia moschea, mi sono derivati un entusiasmo e un amore, per quel mondo, mai venuti meno. Difficilmente, in caso contrario, data la mia natura tendente al «mercuriale», avrei sopportato le troppe giornate trascorse in biblioteca a consultare manipoli di dizionari ammuffiti.
Ora, il caso (ma esiste davvero?) ha voluto che mi si largisse, su un piatto d’argento, la possibilità di realizzare quel sogno a lungo covato. Ne ho dunque approfittato per scrivere a ruota libera (e in uno stile più «spregiudicato» di quanto non abbia mai fatto in precedenza) su argomenti e personaggi, reali e immaginari, che – presumibilmente – mi sarebbe stato assai difficile evocare in altra sede. Ancorché non accademiche in senso stretto, le 101 storie che sfoglierete qui, però, un’ambizione ce l’hanno, ed è quella di «istruire dilettando», secondo un binomio che fu caro ai letterati arabi del Medioevo e al quale lo scrivente – si parva licet componere magnis – ha cercato, in cuor suo, di uniformarsi.
Con la riposta speranza di essere riuscito nell’intento di trasmettere da queste pagine – se non altro – un’immagine dell’universo musulmano più eclettica, meno scontata, meno convenzionale.
ANGELO IACOVELLA
Storie vere
1. Mai dire «casbah» a cuor leggero
Casbah mia, casbah mia, per piccina che tu sia,
tu mi sembri una badia!
ANTONIO DE CURTIS, in Totò le Mokò, 1949
Casbah. Una parola che, al solo nominarla, richiama alla mente gli scuri e profumati dedali di vicoli e viuzze della vecchia Algeri.
Pochi – forse nessuno – sono gli scrittori e i viaggiatori europei che, vagando a zigzag in un’area che l’UNESCO ha incluso nel patrimonio mondiale dell’umanità, dal fascino arcano della casbah non si siano lasciati incatenare. Per non parlare delle pellicole cinematografiche a cui essa ha fatto da cornice, dal classico Pépé le Moko del 1937 (con uno straordinario Jean Gabin nel ruolo di un gangster rubacuori) alla Battaglia di Algeri (1966) del nostro Gillo Pontecorvo.
Peccato, però, che il termine (il cui etimo arabo rimanda a una «fortezza», a un «quartiere protetto da mura»), abbia subìto – nell’uso più recente – un notevole degrado semantico, per cui, quando in TV o sui giornali si sente parlare di casbah, si può star sicuri che non a esotiche o assolate mete turistiche si alluda, ma a certi nostrani e… malfamati rioni!
Va da sé che, in quanto sfegatati difensori del modus vivendi mediterraneo, ci ribelliamo a questa accezione negativa del vocabolo, e non certo perché ci stia a cuore una riforma del lessico in senso politically correct, ma soltanto perché la casbah, quella «vera», è qualcosa di molto distante dalla rappresentazione negativa che noi occidentali, affezionati (chissà poi perché?) alle nostre cementizie megalopoli, ci siamo venuti costruendo.
A ben vedere, infatti, nella funzionalità che la sottende, come nella varietà di soluzioni che ne caratterizzano l’impianto, si incarnano non tanto un’idea o un progetto urbanistico (che pure esistono), quanto una concezione dell’abitare improntata a un ordine più alto, che va ben al di là delle apparenze, del chiasso esteriore: un ordine tipicamente tradizionale, al cui interno le attività artigiane e commerciali finiscono armoniosamente per ripartirsi secondo la corporazione di appartenenza: venditori di spezie e profumi, barbitonsori, macellai… e chi più ne ha, più ne metta.
Le case della casbah, dai muri imbiancati di calce, si distendono lungo il crinale di una collina che sovrasta la parte settentrionale del porto.
Anche se i raggi del sole faticano a infilarsi, vi si respira, come nei bassi di Napoli, un’aria tra il fastoso e il decadente, che ci riporta all’epoca in cui – tra il XVII e il XVIII secolo – Algeri era un covo brulicante di pirati e di marinai.
Il più famoso dei quali fu ‘Alî Bitchîn, alias Piccini o Piccinino: un «rinnegato» (così si bollava in Europa un cristiano convertitosi all’islâm) di origine veneziana, che da corsaro divenne prima ammiraglio della flotta locale e poi governatore di Algeri, finendo avvelenato nel 1645, su indicazione del sultano di Costantinopoli, a cui egli aveva avuto la cattiva idea di ribellarsi. In suo onore, quand’era ancora in auge, fu edificata, nei dintorni della casbah, la jâmi‘ah ‘Alî Bitchîn: una moschea dallo stile bizzarro, sormontata da una cupola la cui foggia ricorda – e nemmeno tanto alla lontana – le chiese bizantine di Venezia.
La casbah, insomma, ha i suoi suoni, le sue voci, la sua – in una parola – «atmosfera» unica, e vi si potrà sempre, se Dio vuole, sorbire un tè bollente alle foglie di menta o un gustoso caffè al cardamomo. Per poi scoprire che, alla fin fine, i tanto vituperati bazar, colmi di vociante umanità, non sono così malaccio.
2. Roghi d’Egitto
Mettetevi, per un istante, nei panni di un povero arabista. Una sfilata di diplomi alle pareti, articoli, lezioni, convegni, seminari, centinaia di ore trascorse sulle sudate carte, intento a decifrare codici acefali, per poi sentirsela ripetere, ogni volta, la Grande Fandonia, propinata in tutte le salse, mentre saltella di labbro in labbro. Mi riferisco al presunto incendio della biblioteca di Alessandria, appiccato dagli arabi – secondo una consolidata versione dei fatti – all’indomani della conquista musulmana dell’Egitto (nell’anno 642).
Tutta colpa, in ultima analisi, di Giovanni il Filopono, un (giustamente dimenticato) grammatico alessandrino. Fu lui a indicare ai barbari invasori, smaniosi di prede e di bottini, l’ubicazione dell’antica biblioteca, i cui fondi non avevano eguali nel mondo allora conosciuto. Il generale ‘Amr, comandante in capo delle truppe di occupazione, comunicò la scoperta al pio califfo ‘Omar, chiedendo a quest’ultimo istruzioni sul da farsi. «Delle due l’una», avrebbe a quel punto risposto ‘Omar, con una lettera sulla cui veridicità è lecito nutrire qualche dubbio e il cui testo (da cui estrapolo liberamente alcuni passi) non ci è stato trasmesso che da uno storico egiziano vissuto a oltre sei secoli di distanza dagli eventi: Ibn al-Qiftî. «Anche ammesso e non concesso che le mura di questa biblioteca racchiudano opere di contenuto affine a quello della nostra religione, che giovamento potremmo mai ricavarne noi musulmani, visto che il santo Corano ne sa, sempre e comunque, di più? Se, invece, i suoi scaffali pullulano di libri blasfemi e di trattati di filosofi pagani, come temo, lasciarla in piedi equivarrebbe ad autorizzare il libero accesso a un luogo di sicura perdizione. Nell’un caso o nell’altro, dalle fuoco!».
Ricevuta la risposta, il generale ‘Amr – stando sempre a quel che si racconta – diede ordine di bruciarne tutti i volumi, onde meglio alimentare i bagni pubblici o hammâm della città, per un periodo – scrive ancora Ibn al-Qiftî – pari a «sei mesi». Orbene, fermo restando che la biblioteca di Alessandria, a quell’epoca, era già decaduta, e pur consentendo che gli arabi abbiano sciaguratamente deciso di distruggere montagne di preziosissimi codici pergamenacei al solo scopo di «sfamare» dei prosaici scaldabagni, vi è una circostanza che rende questa storia dell’incendio, dal mio modestissimo punto di vista, poco plausibile.
Da altre e più attendibili fonti di prima mano (tra le quali, l’opera del geografo e cronista mamelucco al-Maqrîzî), apprendiamo, infatti, che intorno alla metà del VII secolo dell’era cristiana la città fondata da Alessandro Magno contava non meno di quattromila hammâm.
Poiché un cosiddetto (impropriamente) «bagno turco» non può funzionare se non in presenza di una vasca d’acqua calda a 60 gradi centigradi, e supposto che per raggiungere questa temperatura bastino, in media, venti volumi al giorno (pagina più, pagina meno), se ne dovrebbe dedurre che siano stati inceneriti, nell’arco di sei mesi, esattamente quattordici milioni e quattrocentomila manoscritti…
Post scriptum
Aggiungasi, a quanto sopra, che poche civiltà hanno amato i libri come quella arabo-islamica, la cui letteratura è infarcita di versi in cui si inneggia al piacere della lettura, tra i quali spiccano quelli, indimenticabili, del grande poeta al-Mutanabbî (m. 965): «Il più onorevole posto in questo mondo è la sella di un corsiero, e il miglior compagno sarà sempre un libro!».
3. «Geni» o «gnomi», per me pari sono…
Correva l’agosto del 2001 quando sui giornali apparve la notizia, accolta ovviamente da molti opinionisti con mal repressa ironia e divertito scetticismo, dell’avvistamento di uno gnomo, vestito di tutto punto, con tanto di cappello frigio, stivaloni e barbetta brizzolata, a opera di un serio professionista di Bagno di Romagna; una località amena, questa, dove sembra che tali entità amino scorrazzare libere e gioconde, per la gioia di grandi e piccini.
Ci guarderemo bene dall’entrare, in questa sede, nella vexata quaestio (e nel dibattito che ne è seguito) circa l’esistenza di elfi, coboldi, silfidi e ondine. Quel che ci preme sottolineare è, piuttosto, come – nel folklore di tutti i paesi musulmani – abbondino saghe e leggende nelle quali compaiono figure sostanzialmente analoghe a quelle dei nostri nani (da bosco o, peggio ancora, da giardino).
Non per nulla, tanto nel Corano quanto nelle raccolte degli insegnamenti (hadîth)del profeta Muhammad, è data per assodata la presenza, sulla terra e altrove, dei jinn (quelli che l’Occidente conosce come i «geni»); i quali altro non sono, secondo la credenza popolare, che delle mere (si fa per dire) creature di fuoco, invisibili ai più, a metà strada tra gli angeli e gli uomini.
I geni di islamica memoria (che la fanno da padroni nelle mirabolanti storie de Le mille e una notte) si dividono in esseri di sesso maschile e di sesso femminile ma, diversamente dalla razza umana, sono dotati di un’ampia gamma di poteri straordinari, per cui appaiono e spariscono, ad esempio, a loro piacimento.
E può capitare – come ci insegna la favolistica araba – che uno spiritello arrivi addirittura a intrufolarsi tra le lenzuola della malcapitata fanciulla di turno, la quale (e qui sta il bello) potrà sempre giustificarsi con la famiglia gettando la colpa della perduta verginità sulle spalle di un genio insolente e malignetto…
Di simili esserini è contessuta la vita quotidiana delle popolazioni islamiche, specie di quelle nord-africane, dove la superstizione regna indisturbata, e anche