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Tutti i miracoli della mandragora
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E-book276 pagine4 ore

Tutti i miracoli della mandragora

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Donna Giuseppina non vive la perdita del marito come una disgrazia. Quando viene a sapere che non è stata la guerra ma un donnone tedesco a portargli via quell’uomo noioso e piantagrane non si dispera né piange. D’altronde Donna Giuseppina è una fattucchiera e sa come curare magicamente gli affanni del cuore e i tormenti della vita. Qualche anno dopo sarà lei, tramite le proprietà misteriose della radice di mandragora, a tentare di salvare suo fratello Pasquale o’ pellicano, caduto vittima del mal d’amore dopo aver dovuto porre fine alla sua relazione con donna Carmela, sposata con Totonno o’ poeta. Tra i due uomini scorrerà non solo sangue ma anche un profondo risentimento misto a vendetta e sensi di colpa, che metterà in crisi le certezze di entrambi legate a una vita di mare, lungo le coste di Salerno, sempre uguale a se stessa. Ma il micromondo segnato dalla magia e dalle passioni violente sta per essere travolto da un evento più grande, la guerra, che spazza via le storie dei singoli, come una “grande scopata generale”, trascinando “le anime nello zolfo infernale” perché è “la somma delle perversioni generali”. Tutti i miracoli della mandragora è un romanzo che richiama le atmosfere e le suggestioni del realismo magico, tramite uno stile di scrittura elegante e denso, poetico e al tempo stesso crudo, come le storie che vengono narrate.

Melania Milione è nata a Salerno nel 1984. Madre di uno splendido figlio di nome Renato, amante instancabile della poesia e della prosa, è al suo esordio come scrittrice di romanzi.
LinguaItaliano
Data di uscita17 set 2020
ISBN9788899706852
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    Tutti i miracoli della mandragora - Melania Milione

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    Melania Milione

    Tutti i miracoli della mandragora

    © Lastarìa Edizioni srls, 2020

    Tutti i diritti riservati

    Lastarìa Edizioni

    Viale Libia 167 - 00199 Roma

    info@lastaria.it

    www.lastaria.it

    I Edizione: settembre 2020

    Isbn: 978-88-99706-83-8

    Published by arrangement with Delia Agenzia Letteraria

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri

    I Edizione digitale: settembre 2020

    Isbn: 978-88-99706-85-2

    Donna Giuseppina non vive la perdita del marito come una disgrazia. Quando viene a sapere che non è stata la guerra ma un donnone tedesco a portargli via quell’uomo noioso e piantagrane non si dispera né piange. D’altronde Donna Giuseppina è una fattucchiera e sa come curare magicamente gli affanni del cuore e i tormenti della vita. Qualche anno dopo sarà lei, tramite le proprietà misteriose della radice di mandragora, a tentare di salvare suo fratello Pasquale o’ pellicano, caduto vittima del mal d’amore dopo aver dovuto porre fine alla sua relazione con donna Carmela, sposata con Totonno o’ poeta. Tra i due uomini scorrerà non solo sangue ma anche un profondo risentimento misto a vendetta e sensi di colpa, che metterà in crisi le certezze di entrambi legate a una vita di mare, lungo le coste di Salerno, sempre uguale a se stessa. Ma il micromondo segnato dalla magia e dalle passioni violente sta per essere travolto da un evento più grande, la guerra, che spazza via le storie dei singoli, come una grande scopata generale, trascinando le anime nello zolfo infernale perché è la somma delle perversioni generali. Tutti i miracoli della mandragora è un romanzo che richiama le atmosfere e le suggestioni del realismo magico, tramite uno stile di scrittura elegante e denso, poetico e al tempo stesso crudo, come le storie che vengono narrate.

    Melania Milione è nata a Salerno nel 1984. Madre di uno splendido figlio di nome Renato, amante instancabile della poesia e della prosa, è al suo esordio come scrittrice di romanzi.

    Agli amori della mia vita:

    a mio padre Lucio,

    a mio figlio Renato,

    ad Akira.

    E a Pasquale, senza dubbio.

    Nella solitudine della sua anima era convinto di aver amato molto più di chiunque altro in questo mondo.

    Gabriel García Márquez,

    L’amore ai tempi del colera

    Delle luci di Salerno,

    degli scogli, degli agrumi

    dei tombini forgiati nel tuo nome,

    porto soltanto l’amore disperato verso le tue cose.

    Rimarranno questi vicoli sospesi,

    i sanpietrini tortuosi, i lampioni di piazza Flavio Gioia.

    Rimarranno i panni stesi nella sera,

    in bocca un bacio putrefatto,

    la mia voglia stretta alla tua.

    Capitolo 1

    Donna Giuseppina, la fattucchiera

    La cura per le escoriazioni alle ginocchia, che non avevano il tempo di disfarsi della crosta e che ne facevano un’altra più doppia era la trementina e donna Giuseppina lo sapeva meglio di chiunque altro. Lei preparava intrugli miracolosi, mischiando la resina dei pini marittimi alla saliva dei suoi maiali, meglio ancora se femmine e incinte, come quella volta che ne fece un po’ per Salvatore, il figlio del fratello Pasquale, venuto di corsa alla sua porta con il pus infetto delle cadute a picco dagli alberi della villa comunale. Don Pasquale lo mandava sempre da lei, quando si trattava di mangiare, di epistassi infantile o di cose e femmene, perché la moglie era morta di un male incurabile il 4 marzo del 1915, otto anni prima, e il figlio oramai adolescente era rimasto senza una figura femminile di riferimento. Poi donna Giuseppina era già madre di un figlio maschio di nome Matteo, che allevava da sola senza l’aiuto del marito, perciò era abituata all’odore di solvente sulla bicicletta, alla pasta asciutta cinque volte a settimana, allo zabaione con chiara d’uovo a neve, melassa di due tuorli e caffè, alle lucertole dissezionate vive sul tavolo della veranda, alle mosche soffocate dal monossido di carbonio e al tormento del pallone sul muro del cortile a tarda sera. Suo marito si alleò con il nemico durante la prima guerra mondiale, sposandosi in fretta e furia nel sudiciume della vita militare con un’infermiera tedesca dalle natiche proverbiali e la fica di cloro della guerra chimica, che conobbe sul fronte di Caporetto, quando era ancora caporal maggiore e sapeva comandare qualche anima del purgatorio, prima di sbandierare ai quattro venti la virilità negata dal monorchidismo dei suoi stivali, per la guerra ci vogliono due coglioni, ma uno l’aveva perso durante l’assalto all’ultima trincea, e ancora lo cercava nella notte, con la mano ignorante sulla palla che non aveva più, ma che gli faceva così male, da costringerlo ad alzarsi dal letto e farsi lunghi bidet di cloroformio sotto l’acqua fredda per non sentire più i coglioni vivi sbattergli nelle vene fantasma della notte. Lasciò donna Giuseppina nel suo talamo della miseria agricola con una lettera dalla ceralacca rossa sul sigillo di spedizione, che non aveva neanche scritto lui, poiché era un analfabeta di prima categoria, e che la prima moglie conservava nel cassetto delle cose immonde assieme ai riti voodoo che gli lanciava nei tuoni delle buriane estive: scappo con Irina, tieniti pure i maiali e le galline. Tuo, Mast’Andrea. Donna Giuseppina era di larghe vedute e pensava che gli uomini in generale fossero indispensabili solo a fare figli, per chi li desiderasse, e che si poteva vivere benissimo senza di loro, poiché scarseggiavano in astuzia e lungimiranza, e pe nu pil e fess erano capaci di gettare giù il mondo, perdere il cognuro, tanto somigliavano alle bestie.

    «A tene pure a vacca», ripeteva sempre donna Giuseppina, riferendosi all’organo tanto osannato e venerato, ma che poi nella realtà delle cose era comune a tutto il genere femminile, persino alle vacche, perciò come poteva essere tanto importante da aver distrutto intere generazioni di famiglie e provocato guerre leggendarie nella storia, acquistando addirittura valore in denaro, se l’uomo non fosse stato così irrimediabilmente stupido? E se le fischiava l’orecchio destro, segnale che qualcuno stava di certo parlando male di lei, diceva «A chi parla areto, o culo risponne», perché le inciucesse c’erano sempre in ogni paese e non valevano chiu e nu pirito. Donna Giuseppina era la donna della saggezza dei vicoli e i suoi proverbi erano più famosi dei suoi incantesimi, arrivavano come boati sulle coscienze, diretti, senza fronzoli perché lei parlava sempre poco e ficcava bene, a gallina fa l’uovo e al gallo c’abbrucia, mentre il fratello prendeva a mani nude il parto dell’ennesimo maialino nel porcile, sudava e imprecava per la testina rosa storta nella vagina della scrofa, lasciando intendere che era solo l’animale ad avere diritto a soffrire per il travaglio e non Pasquale, è meglio che ta cus con il fierro filato, cuciti la fessa col filo spinato rivolto alle donne del paese che negli amori trovavano solo disgrazia, perché non valeva mai la pena soffrire per un uomo, tanto la vita era soltanto n’apertura e cosce e na chiusura e cascia, e bisognava viversela al meglio perché l’accummannà era sempre meglio del fottere.

    Il suo stato di cornuta e mazziata non le causava grossi problemi, anzi gliene aveva tolti molti da quando o scem l’aveva abbandonata al suo focolare domestico per quella ‘nzevata straniera, perché non doveva prendersi più cura di lui, dargli da mangiare ogni tre ore come un eterno bambino da latte, stirargli la patta delle mutande, incollargli la suola delle scarpe col mastice e la molletta del bucato e non doveva più lustrargli tutta l’invereconda collezione di cose inutili che conservava come un perfetto mastro don Gesualdo nella cantina delle cianfrusaglie e che cresceva a dismisura, nemmeno fosse una miniera d’oro dalla quale si potesse ricavare guadagno. Bastava una sola ferraglia arrugginita lasciata a marcire sulle rive del fiume Irno ad infervorargli il principio vitale delle guerre, delle sue budella insanguinate al fronte, della stella vetusta al valore sul fiato dei morti uccisi, ed era rimasto lì in embrione a poppare linfa dalle arterie belliche delle sue macerie evocative, saldo sulla roccia che lo salvasse dal precipizio delle cose normali di questo mondo, che non gli piacevano per niente, perché la gente non sapeva le cose come stavano veramente, a’ gente magn e sgruttea sulamente senza conoscere le torture che i soldati erano costretti a patire per l’equilibrio dei Paesi e per l’equilibrio vostro, così ingoiava brocche intere di acqua e citrosodina, per sedarsi le ulcere ardenti allo stomaco e l’ernia dello iato secolare, chissà si Pepp è sfugliat, chiedeva alla moglie dal divano delle riflessioni solitarie, interrogandosi sulle sorti del granoturco del fratello morto di iperuricemia, poi usciva fuori di casa e imprecava aiscialloc in scioglilingua misteriosi, allontanando con i calci all’aria i gatti neri sul cucuzzo del camino, perché erano iettatori e lui era un grande superstizioso, anche se non ci credeva, anche se non usciva mai senza un cornetto rosso nella tasca della giacca. Poi andava sgolandosi per i vicoli del centro con la coppola nera e la sentenza del giudizio universale nella bocca, che l’amore non bastava a sostenere la vita, cretini, riferendosi ai giovanotti aggrovigliati nei loro essudati primordiali, anzi ne irradiava la bruttezza, come certi raggi ultravioletti sparati sulle ustioni del cancro alla trachea. Ma lui stesso era caduto nell’inganno dell’amore, si era fatto illanguidire l’animo primitivo dalla visione di due belle tette e un culo crucco, come qualsiasi altro fesso, e non ebbe più il coraggio di tornare da quelle parti per quattro anni perché sapeva che donna Giuseppina l’avrebbe preso con la scopa e gliene avrebbe date tante sull’organo genitale, tante da farlo pisciare seduto come pisciavano le femmine, e lui che era già monocoglione avrebbe passato la vita a dover chiedere scusa, con la mazza in culo delle sottomissioni ancestrali. E la mazza forse fu meglio del suo ultimo matrimonio, perché dio era grande, o come qualcuno diceva dio era un gran paraculo, discepolo ferreo del detto più vero di questo mondo ‘sputa all’aria ca ‘nfaccia te torna’, e Mast’Andrea tornò e di palle ne aveva zero, tornò perché Margareta l’aveva lasciato per un altro che i coglioni ce li aveva d’oro zecchino, anche i denti erano d’oro, la cintura sulla giubba era d’oro, cacava oro quell’uomo per dio, giurò Mast’Andrea sui paramenti liturgici della iastemme di donna Giuseppina, che gli aprì la porta senza dire niente, e fu già un miracolo, gli preparò l’espresso delle grandi occasioni, sempre senza dire niente, predisponendosi a miracoli più grandi, gli fece il letto come piaceva a lui, con le lenzuola celesti come la carta da zucchero e l’orchidea liquida tra le trame del cotone, gli fece gli ndunderi e scese a comprare il rubino di Gragnano, che fa int a cap e muorto, e forse ci andò veramente all’obitorio Mast’Andrea, o forse gli era capitato qualcosa di sinistro, perché dopo quel bicchiere di vino nell’aia della mezzanotte, lui era scomparso dalla circolazione, ma nel fango del porcile di donna Giuseppina grugniva beato un maiale in più, da cui penzolava un coglione solo. La janara della costiera aveva reso giustizia a tutte le donne del mondo e anche a tutti gli uomini, perché quale donna non avrebbe voluto avere un maiale nel suo porcile e quale uomo non era veramente un suino, erano interrogativi dilanianti, di pregnanza esistenziale, perché non si parlava d’altro in paese, non si parlava che di Mast’Andrea nelle sembianze del porco di sventura nell’isola di Eea. Anche Don Pasquale ogni tanto chiedeva alla sorella se l’animale fosse in realtà il marito, ma lei non rispondeva, guardava il suino e rideva della beffa, marito e porco con globo di carne viva sul suo destino di cartomante.

    «Pascà, è nu puorc. E u puorc adda fa».

    Capitolo 2

    Me chiamo Pasquale o’ pellicano e faccio o pescatore

    L’agnizione delle risposte evasive di donna Giuseppina, conduceva il fratello nella catarsi del dubbio irrisolto, nella perplessità sul prodigio, ma non nell’impossibilità che fosse davvero accaduto, poiché la vita a volte si nutriva di misteri incredibili e la linea invisibile fra magia e realtà si assottigliava in modo tale che i due elementi si sfiorassero, si toccassero, senza tuttavia comprendersi, ognuno con le proprie buone ragioni, finissero per mescolarsi inevitabilmente nel mare sconfinato della verità. Lui nel mare ci navigava da sempre e ne aveva fatto un mestiere che amava a tal punto, da esordire direttamente così «Buonasera, mi chiamo Pasquale o’ pellican e faccio o’ pescatore» nelle presentazioni agli sconosciuti, come quella volta che vide in darsena donna Carmela, intenta a sbattere la testa di un polpo nello slargo di roccia calcarea tra le sue cosce nude con la gonna nera a fiori lillà e i piedi di rana sul filo delle acque, sbatteva l’animale continuamente, lo sbatteva con una rabbia antica, fino a fargli stremare i tre cuori all’unisono e schiumarsi d’inchiostro l’interno coscia, le tibie, le dita affusolate, liquide lungo i tentacoli, poi strette al cranio, in una morsa di erotismo mortale che gli spappolò il sistema nervoso, poi gli rigirò il cappuccio, gli cavò gli occhi, il becco e la sacca con le interiora, sfilettandolo con un coltellino, e lo strofinò nel mare lungo la falesia muschiosa, ritirandolo dalle acque nel suo corallo originario, brillante e traslucido, che si rianimò nel riverbero del sole, si spostò poi la pece sinuosa dei capelli dal profilo del viso per l’improvvisa profezia del grecale, sentì l’impercezione eterea di una presenza al suo fianco con la parte destra del corpo e vide Pasquale in visibilio sulla livrea scogliera con il secchio delle triglie e la barba rasata di primo mattino, gli offrì la carne del mollusco in polpa viva dalle sue mani e lui la prese direttamente con la bocca. Si mangiò il mare dai suoi palmi quella volta, dalla conca di una dea marina riemersa dai liquami portuali, che gli stremò il suo unico cuore senza sbatacchiarlo sulla roccia, gli incendiò gli anni di vedovanza in un cumulo di polveri sottili. Donna Carmela abitava a Vietri, era la moglie di Totonno o’ poeta e Pasquale fino a quel momento non l’aveva mai vista a Salerno, né immaginava che il proprietario della tonnara avesse una donna così bella al suo fianco, ma da quel giorno non passò settimana che lui non andasse a bordo di un piccolo gozzo a remi verso la Crestarella con un mazzo di fiori rossi accesi nella notte, e Carmela lo aspettava lì, sulla sabbia degli eterni arrivi, nel vestito nero e lo scialle fatto a mano, soltanto per sentirne la mano ruvida e calda e sussurrargli il grazie delicato dei germogli alla rugiada magnanina dell’aurora, poi s’allontanava sulla scalinata con l’andatura da faina nei giardini di strelitzie lungo la salita e lanciava solo un bacio da lontano che gli sfiorasse la bocca con le labbra spettrali, in attesa della settimana successiva, in una danza d’amore clandestino, che più si prolungava, più si nutriva di bellezze del pensiero, più diventava forte, fino a quando non si fece il passo avanti, ed era donna Carmela ad andare da lui alla stesa del pesce nel centro storico, a chiedere un polpo vivo, una seppia viva nei trastulli dell’acquaio, una razza viva nel brodo elettrico, le canocchie vive sul letto di ghiaccio, chiedeva solo roba viva quella femmina da poterne sentire il respiro sfinirle nella bocca spietata, chiedeva roba viva per immaginare un Pasquale implorante che mettesse fine al corteggiamento dei fiori della mezzanotte e cominciasse con l’amore vero, che le mancava dappertutto, e che cercava come una falena avida di pozze di luce dove incantarsi a succhiare la notte.

    Così alla spiaggia della Crestarella, Pasquale la vide con i suoi occhi gloriosi da femmina e un ibiscus vermiglio tra i capelli neri, scomposti come le onde sotto la luna delle buriane maledette dai pescatori, ed era lei a sfavillare di tormalina nella sera, la vide in attesa impaziente, con un vestito più succinto, uno scialle più languido sulla spalla scoperta, la sigaretta molle tra le dita e fu in un attimo che si prosciolsero l’anatema matrimoniale e il rigore del lutto, perché si strapparono tutto, anche la fede nuziale, e fecero l’amore nelle vaschette d’acqua fra gli anemoni di mare, fino a sentirsi male, fino a sentire l’urlo dei languori schiantarsi sulla volta dell’empireo, e lui le riempì la bocca di tutti i piaceri della terra, strofinò la faccia sulle stelle marine del petto, sulla conchiglia ombelicale, sulla medusa nera che gli agitava il sonno con le sue labbra di magnete, si spinse dentro di lei con la stessa furia delle acque in tempesta negli anfratti vuoti della costa, la spogliò di tutti i peccati originali, sino a donarle un corpo nuovo di zecca riemerso dagli umori vaginali, le arrivò dentro con tutta la sua vita, il mare, il gozzo, la moglie morta, il figlioletto Salvatore, lasciandola aggrappata alle falde rocciose del Cannocchiale nello stordimento di chi possedeva il talento della morte e della resurrezione. E Carmela lo volle tutte le sere, vieni a casa mia che ti faccio vedere l’anima tua davanti lo specchio nel salotto, vieni alla vigna che ti levo le foglie di vite dal cuore, e vieni in cucina che mi si è rotto il lavello e perdo acqua battesimale, vieni, t’ho detto vieni, che ti voglio dentro, vieni che ho perso la ragione sotto al Cannocchiale. E continuarono così per diversi mesi, abbandonati al loro amore, che sembrava la cosa più bella di questo mondo, perché ne aveva ravvivato il senso e disegnato occhi nuovi da cui guardare il mondo. La vedovanza di Pasquale gli sembrò un tributo necessario a cui rimase fedele sino a quel momento, anche se la moglie ancora gli compariva nella sottoveste azzurra, la candela accesa nelle sere di interruzione elettrica, le scarpe coi lacci alla caviglia che avevano comprato a Positano, ma col tempo, il vuoto dei ricordi si colmò delle grazie di Carmela, a poco a poco scomparve anche l’ombra della sua defunta che s’allungava sulla spiaggia con il secchio di alici in mano, e rimase solo l’amore originario. Pasquale amava Carmela, Carmela che mangia il polpo a morsi con le cosce aperte sulla darsena, che mi cucina gli spaghetti con le telline indossando solo i reggicalze, che mi salta addosso nella notte quando sono stanco, che me lo prende in bocca sotto la barca rovesciata sul molo, Carmela, che mi stringe i capelli e appoggia l’orecchio sul mio petto, Carmela che mi piange il diluvio universale dopo avermi fatto l’amore sul letto, Carmela, solo Carmela nelle mie carni, che possa vivere per sempre perché se no muoio di nuovo.

    Nessuno sapeva della relazione segreta, tranne donna Giuseppina, che conosceva Pasquale come le sue tasche, e non dovette chiedergli nulla quando lo vide al mercato del pesce, con i suoi bei merluzzi da squamare e la folgore degli amori spietati negli occhi azzurri, le pupille perennemente dilatate, la pelle lucente d’anguilla come solo certe grazie sanno fare, le camicie con l’impronta di animale da fratta in calore, le escursioni serali a bordo del gozzo quando nessuno lo poteva vedere, e poi cantava, cantava sempre come se c’avesse un incardellato incastrato nell’ugola, improvvisava walzer nell’aia fra i maiali e i pavoni, dicendo «Giuseppì, te piace stu giovanotto?» e la sorella lo scrutava dalla punta dei capelli sino alle unghie dei piedi, convincendosi che il fratello teneva un inciucio potente, che c’era di mezzo una sirena ammaliatrice che veniva dal mare e che gli aveva cambiato i connotati, gli aveva fatto il lavaggio del cervello, come solo le grandi troie sapevano fare.

    Ed era un miracolo, perché Pasquale si consumava nel lutto da troppi anni ed era ancora un adone, con i suoi capelli ricci e scuri, gli occhi chiari, il sapore perpetuo del sale sulla pelle e i dorsali olimpionici del nuoto in alto mare e ogni donna lo voleva per sé, andavano tutte da donna Giuseppina a farsi leggere le carte, a chiedere intrugli d’amore, legature, penitenze, pur di avere Pasquale o’pellican, ma lui pensava solo a Gigliola, la defunta moglie, e passava i pomeriggi a pulire la sua tomba, a cambiare l’acqua ai crisantemi, ad accendere i lumini sull’altare e dire cento requiem aeternam, prima di tornare a casa e preparare la pasta asciutta al figlio e gli arnesi per la pesca notturna sul suo adorato gozzo. E ora a donna Giuseppina non le sembrava vero, che lui fosse così raggiante d’amore, anche se temeva si trattasse di una relazione clandestina visto che non le aveva ancora presentato la donna, né detto chi fosse, ma quando Pasquale le portò il vasetto di alici sotto sale prima di sparire nella notte ed andare chissà dove, lei gli disse: «O’lassat è perdut, addivierteti», il lasciato è perso, carpe diem, cogli l’attimo che qua se more, divertiti, ama, fotti, chi era lei per giudicare, tanto nessuno pisciava acqua santa dall’ombelico e le amanti erano necessarie come le puttane. Non immaginava che l’oggetto del suo desiderio fosse Carmela, che lei stessa aveva conosciuto in occasione della festa del Crocifisso l’anno prima e le aveva letto le carte sulle sorti del suo matrimonio, perché la ragazza pativa molto l’assenza del marito e le sembrava di marcire da sola come una muffa vecchia in quella maledetta casa di fronte alla Crestarella che somigliava all’inferno in persona. Lei che era così giovane e aveva il fuoco dentro, sentiva il peso immenso dell’abbandono, delle sue grazie che si sprecavano nel nulla in attesa di qualcuno che l’amasse e la toccasse tutti i giorni senza tregua, perché quello di bello era rimasto nella vita dopo che s’era fatto tutto, e il fidanzamento, e il matrimonio, e i viaggi a Venezia, e i figli, e i soldi della tonnara, e i vestiti di alta sartoria dei Durso, e i gioielli di pietre preziose, e la maledetta vigna, tutto aveva Carmela, senza avere un uomo da succhiare come un cannolicchio, senza poterlo incenerire nel cratere ardente della sua misericordia. E poi sapeva benissimo che il marito andava a puttane nel bordello al centro di Salerno, si sbatteva una certa Teresa Proserpina, gliel’avevano detto le vedove di Vietri, che spesso andavano in città col ciuccio per fare rifornimento alimentare e lo trovavano sempre a limonare negli anfratti del porto o al vicolo di Santa Lucia con quella sgualdrina, che gli faceva le marchette gratis e lui la ripagava con sciocchezzuole di poco conto, Carmela lo sapeva, perché gli trovava gli orecchini nei pantaloni, lingotti di

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