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Uno strano caso per il commissario Calligaris
Uno strano caso per il commissario Calligaris
Uno strano caso per il commissario Calligaris
E-book219 pagine3 ore

Uno strano caso per il commissario Calligaris

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Info su questo ebook

Vincitore del premio Ilmioesordio

La prima geniale indagine

Il commissario Calligaris non avrebbe mai pensato di tornare a Rivorosso Umbro…

Adalgisa Calligaris ne ha fatta di strada, dopo avere lasciato il suo paese natale. Ha accumulato successi combattendo il crimine organizzato, ha sopportato minacce e pericoli. E ora il commissario ha deciso di concedersi un po’ di riposo. Quale posto migliore di Rivorosso? Al massimo dovrà acciuffare qualche ladruncolo. E lei, donna dura, brusca, per niente bella ma con un’intelligenza
imbattibile, non ne è certo spaventata. E invece, a qualche ora dal suo insediamento, la tranquilla cittadina di provincia viene scossa dal rinvenimento di un cadavere. A trovarlo è Paolo Cortelli, idraulico trentacinquenne e marito fedifrago della parrucchiera del luogo. Il corpo è quello di Margot Cambiano, cittadina americana e ospite della Rosa e l’ortica, un centro per il benessere psicofisico nella campagna umbra, frequentato da una ricca clientela internazionale. È da lì che iniziano le indagini, che però lentamente coinvolgeranno tutto il paese: prima l’idraulico, poi la moglie, l’amante, il gioielliere… Ad aiutare Adalgisa c’è Carlo Petri, il medico legale, che ai tempi della scuola era stato il grande amore del futuro commissario…

Vincitore del premio Ilmioesordio

Mai sottovalutare l’intuito femminile
È arrivato il commissario Adalgisa Calligaris

Hanno scritto del romanzo: 

«Un giallo interessante. Si nota la sensibilità femminile che dona alla storia sfumature e significati profondi, difficilmente raggiungibili. Molto brava.»
Davide Mantero

«Imprevedibile, ironico, ogni pagina un colpo di scena a volte strano, ma carico di pensieri su cui riflettere, esattamente come accade nei buoni gialli seguendo le indagini.»
Angelo Rodà

«Se fossi stata un uomo, Adalgisa l’avrei portata a ballare, per quanto questo personaggio mi è piaciuto. Giustamente premiato. Bravissima!»
Cinzia
Alessandra Carnevali
È nata a Orvieto ed è laureata in Lingue. Nel 1996 si diploma come autrice di testi presso il CET di Mogol. Ha partecipato, in veste di autrice, al Festival di Sanremo 2002 con il brano All’infinito eseguito da Andrea Febo. Scrive romanzi, racconti e poesie. Nel 2007 è la prima blogger ufficialmente accreditata al Festival di Sanremo. Dal 2005 al 2012 ha curato online il blog Festival, sulla musica italiana e Sanremo, per il network Blogosfere. Dal 2007 si occupa di promozione web per eventi e artisti emergenti.
LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2016
ISBN9788854192621
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    Anteprima del libro

    Uno strano caso per il commissario Calligaris - Alessandra Carnevali

    Indice

    Prologo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    1216

    Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento

    a fatti storici, personaggi o luoghi reali è completamente fittizio.

    Altri nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il frutto

    dell’immaginazione dell’autore, e qualunque somiglianza

    con fatti, luoghi o persone reali, viventi o defunte, è del tutto casuale

    Nato in digitale su ilmiolibro.it,

    il libro ha vinto il premio nazionale ilmioesordio

    Prima edizione ebook: maggio 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9262-1

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Progetto gra­fico: Sebastiano Barcaroli

    Immagini: © Danilo Piccioni / Arcangel Images

    Carnevali Alessandra

    Uno strano caso per il commissario Calligaris

    Ai miei figli, a mio marito e a me stessa

    Prologo

    «Calligaris Adalgisa!».

    La voce aquilina della bionda ed esile professoressa Scarpati, insegnante di Italiano nella

    III C

    della scuola media Pinturicchio di Rivorosso Umbro, rimbombò nel silenzio svaccato e intorpidito della quinta ora.

    «Calligaris…». La Scarpati ripeté nervosamente quel nome cui nessuno sembrava far corrispondere una faccia, strascicandolo malamente come uno zerbino polveroso che avesse bisogno di una sgrullata fuori dal portone.

    Dal penultimo banco a destra, quello abbastanza vicino alla finestra da buscarsi tutto il sole a giugno e tutti gli spifferi a novembre, si alzò una manozza quadrata da carpentiere nano. Da dietro il tavolo emerse una figura vestita di marrone, un parallelepipedo basso, con una capigliatura corvina, riccioluta e asimmetrica, ampiamente distribuita intorno a una facciotta rosata, trapunta di due occhietti tondi e neri, di due narici da maiale e di una boccuccia a cuore, unico particolare aggraziato e armonico in quel totale disastro di adolescente obesa che rispondeva al nome di Adalgisa Calligaris.

    «Presente!», sobbalzò il parallelepipedo riccio e timido, che si era distratto a guardare le foglie dell’oleandro fuori della finestra.

    La classe fu attraversata da risatine sommesse, come un rumore leggero d’erba smossa nel sottobosco al passaggio veloce e invisibile di una lepre.

    La povera ragazza arrossì di colpo e ricadde a sedere rumorosamente sulla sedia di legno dell’ultima fila.

    La Scarpati, insensibile all’evidente desiderio di Adalgisa di sparire dal mondo o almeno di sottrarsi alla vista di quei cialtroni screanzati dei suoi compagni, decise di stanarla definitivamente dal suo rifugio.

    Ravviandosi, con gesto studiato e felino, la folta chioma ossigenata e sistemandosi sul punto vita con entrambe le mani la giacchetta pied-de-poule taglia quarantadue in pendant con la gonna striminzita, che non le arrivava al ginocchio, disse: «Calligaris, non sederti… vieni alla cattedra. Oggi interrogo te che non ho voglia di arrabbiarmi con qualche caprone sfaticato. Su, cocchina, che con te vado sul sicuro».

    Adalgisa Calligaris, tredici anni trascorsi quasi per intero tra libri ostici e merendine ipercaloriche, si alzò ancora una volta dal suo posto e a passetti piccoli e pesanti da cucciolo d’elefante, guadagnò la corsia centrale tra le file dei banchi e si avvicinò alla cattedra nera, andandosi a piazzare in una posizione perfettamente equidistante tra la Scarpati e la lavagna.

    Con le manine grassocce frugò nel contenitore del gesso e, con la punta delle dita cosparsa di polvere candida, ne estrasse un mozzicone bianco e consumato e un cancellino di cui si era ormai perso anche il ricordo del colore originale.

    Lo faceva sempre, ogni volta che era interrogata, anche se la materia, come in quel caso, non prevedeva spiegazioni scritte, disegni, figure geometriche o conteggi sulla lavagna.

    Quei due oggetti, il gesso e il cancellino, le davano sicurezza ed erano per lei i segni del comando, in quelle rare occasioni in cui, lo sapeva, avrebbe dato il meglio di sé.

    Era infatti in quei momenti che Adalgisa, un metro e quaranta per sessanta chili buoni di disagio esistenziale, infilava le ali e volava alto, come una farfalla leggerissima sopra un campo coltivato a broccoli.

    «Calligaris, parlami della poetica del fanciullino in Pascoli…», chiese la professoressa d’italiano, certa di non rimanere delusa.

    Con tre piccoli colpi di tosse, Adalgisa si schiarì la voce e mise in moto il turbo della conoscenza o, come avrebbero detto i maligni, della secchionaggine, e a suon di nomi, dati, fatti, riferimenti, citazioni, ineccepibili agganci interdisciplinari e intere opere poetiche mandate a memoria, li stese tutti, come sempre, quei ventuno ignorantoni che le stavano davanti, capaci soltanto di sghignazzare per i suoi chili mal distribuiti e di fare scena muta persino di fronte alle domande più elementari.

    Adalgisa si prendeva così, periodicamente, piccole rivincite sui suoi simili.

    Erano quelli i suoi trionfi e bisognava vederla quando, piantata a gambe larghe davanti alla cattedra, forniva prova di tutto il suo sapere, compensando, con la bravura e i voti altissimi in tutte le materie, la grave insufficienza nell’unica qualità che avrebbe più d’ogni altra desiderato possedere e che la natura le aveva negato: la bellezza.

    Ventuno somari attoniti tacevano e la guardavano sbalorditi e lei li sorvolava con lo sguardo sicuro di chi sa e compatisce chi ignora.

    I suoi occhietti svegli e rotondi incrociavano quelli bistrati di sonno e di rimmel di Cannavò Isa, la brunetta agile del primo banco, quelli semichiusi di Rotili Giulio, il campione di zonetta nell’ora di buco, quelli cerulei di Sollievi Cristiano, il sosia umbro di Robert Redford, e quelli ruspanti e impertinenti di Canterini Mario, spacciatore di pizza con le cipolle e di torta al testo preparata ogni mattina all’alba da sua madre.

    Si posavano con superiorità sui kilt scozzesi originali di Magliocchi Patrizia, la ragazzina più ricca di Rivorosso, figlia dell’unico notaio della zona e sui jeans impataccati e maleodoranti di Frittomisto, al secolo Gallettini Luigi, che si lavava solo a Natale, e siccome a Natale non c’era scuola, nessuno sapeva che odore e che aspetto avesse quando era pulito.

    Infine lo sguardo di Adalgisa fissava, stavolta con un certo sdegno, le forme proporzionate e allungate della più bella della classe, tale Spatafora Giovanna, figlia dell’avvocato Spatafora, penalista assai noto in paese e in tutta la provincia, per aver difeso e fatto assolvere qualche anno prima il marchese Rospignosi, accusato di aver ucciso a colpi d’ascia, in un raptus di folle gelosia, l’amante della moglie.

    Rossa e fin troppo appariscente per quella che era la sua età anagrafica, Giovanna rappresentava il desiderio segreto di tutti i suoi compagni maschi e di qualche malaccorto professore dalla libido malsana.

    La ricognizione visiva della classe avveniva senza che Adalgisa smettesse per un solo istante di parlare e di rispondere esattamente, punto su punto, alle domande dell’insegnante.

    Quella cicciona li umiliava, metaforicamente li trafiggeva e li uccideva tutti.

    Soltanto quando il suo sguardo arrivava alla penultima fila, la sua voce tradiva un impercettibile cedimento, un graffio stridulo come quello che fa il gesso quando scivola sulla lavagna.

    Gli occhi di Adalgisa allora si abbassavano a terra, disegnando un’unica dolorosa parabola discendente per evitare quelli verdi, belli e arroganti di Petri Carlo, il ripetente più affascinante del centro Italia. Il ragazzo del suo cuore e dei suoi sogni.

    L’amore senza speranza di Adalgisa Calligaris.

    Capitolo 1

    Alle 7:12 del 7 gennaio 2006, la piccola guardiola del commissariato di polizia di Rivorosso Umbro era vuota.

    Rossano Briganti, un poliziotto in sovrappeso, miope e alle soglie della pensione, incaricato di smistare all’ingresso persone, chiamate e segnalazioni di servizio, indirizzandole con ordine ai rispettivi uffici di competenza, in quel momento era chiuso in bagno.

    Briganti trascorreva gran parte della sua giornata al lavoro, accettando anche turni massacranti, offrendosi sempre più spesso di sostituire colleghi più giovani, perché di certo loro, diceva, «sapevano bene come goderselo, il tempo libero».

    Lui no. Lui del tempo libero non sapeva proprio che farsene. Da quando sua moglie Agostina, cinque anni prima, se n’era andata per colpa di un male fulminante al pancreas, Rossano Briganti aveva perso ogni gusto per la vita fuori da quella centrale di polizia.

    Preferiva lavorare, guardiola e centralino, centralino e guardiola, di notte e di giorno, con la pioggia o con il sole, d’estate e d’inverno.

    Al commissariato, almeno, non si sentiva solo. Scambiava due chiacchiere con i colleghi che ormai erano diventati la sua famiglia e si sentiva meno infelice che a casa sua, dove ogni oggetto, ogni mobile, ogni spigolo tornava insistentemente a ricordargli la dolorosa assenza della sua amata Agostina.

    Rossano e Agostina erano stati sposati per trent’anni. Un matrimonio d’amore al quale era mancato solo l’arrivo di un figlio perché risultasse perfetto. Agostina veniva dal paese d’origine dei genitori di Rossano. Nemmeno un comune, piuttosto quattro case sperdute vicino al mare nella provincia di Lecce, in Puglia. Rossano l’aveva conosciuta durante una torrida estate in cui era andato a far visita ai parenti che, data la grande distanza, vedeva ogni due o tre anni, in soggiorni di un paio di settimane da cui tornava ogni volta più frastornato e più in carne di quando era partito. I manicaretti della zia Adelina, il vino di suo nonno Nicola erano assaggi obbligati, così come l’impepata di cozze in quantità industriale che suo cugino Vito preparava la sera del suo arrivo, così che la prima notte in Puglia il povero Rossano la trascorreva immancabilmente a rigirarsi nel letto per la faticosa digestione dei piccantissimi mitili.

    Quella volta, il giorno dopo il suo arrivo e dopo la nottataccia di rito, Rossano si era alzato molto presto e se ne era andato a camminare verso il mare. Albeggiava e non circolava anima viva. Aveva attraversato orti e campi, era passato tra case diroccate e stalle in disuso, fino a sbucare su un viottolo sabbioso che, dopo una piccola salita, ridiscendeva verso una spiaggia di sabbia fina e bianca, lambita da un’acqua color cristallo.

    Quel mare, così trasparente nella calma del mattino, era un invito irresistibile, soprattutto per chi, come Rossano, viveva da quando era ragazzo in Umbria, regione bellissima, rigogliosa e verde, ma del tutto priva di mare.

    Fissando quella distesa che ogni volta lo stupiva e lo conquistava come un paesaggio d’altri mondi, il giovane si era accorto di una figura esile che nuotava in lontananza.

    Le braccia sottili non potevano essere che di una ragazza. Si alzavano ritmicamente una alla volta sopra il pelo dell’acqua e sospingevano verso la riva la giovane donna distesa in superficie. Rossano se ne stava fermo, immobile poco oltre il bagnasciuga con il mare a metà polpaccio.

    La ragazza, che nuotava con lo sguardo fisso al cielo, non si era accorta di lui finché, una volta arrivata nel punto in cui le era stato possibile appoggiare i piedi sul fondo, non aveva riconquistato la posizione eretta, voltandosi a guardare la spiaggia.

    «Buongiorno, signorina!», l’aveva salutata con timida gentilezza Briganti, sorpreso a osservare con un po’ troppa insistenza le forme della giovane donna, coperte soltanto da un due pezzi azzurro non troppo castigato.

    «Buongiorno!», aveva risposto la giovane, strizzando con le mani i lunghi capelli neri. «Mi avete quasi spaventato, non pensavo ci fosse qualcuno qui a quest’ora!».

    «Deve essere bellissimo fare il bagno così presto, ci venite spesso?», le aveva chiesto Rossano, temendo di essere troppo intraprendente.

    «Quasi tutti i giorni d’estate e a volte anche d’inverno, se il clima è mite!», spiegò Agostina, tremando un po’ nel suo costume da bagno gocciolante.

    Rossano era corso a raccogliere l’asciugamano che la ragazza aveva lasciato sulla sabbia e glielo aveva passato.

    «Grazie…».

    «Mi chiamo Rossano, e voi?»

    «Piacere, Agostina! Ah, voi siete il figlio di Briganti quello che si è trasferito al Nord».

    «Be’, proprio Nord non direi, più verso Roma che verso Milano, comunque sì, sono il figlio di Briganti, l’emigrato!», rise Rossano.

    Restarono a parlare, seduti vicini in riva al mare, finché il sole di quell’estate pugliese non diventò cocente.

    Si frequentarono per tutta la durata della vacanza di Rossano e tra una cena di famiglia e un bagno mattutino nel mare di cristallo, si innamorarono.

    A settembre il giovane chiese Agostina in moglie e lei accettò.

    Si sposarono in Puglia, poi partirono per l’Umbria certi che soltanto una cosa gli sarebbe mancata: il mare. Quello trasparente e deserto del loro primo incontro.

    Rossano entrò in polizia, lei prese un diploma da dattilografa e insieme si stabilirono a Rivorosso, dove vissero e lavorarono felici fino al sopraggiungere della malattia di Agostina e della sua morte.

    Dopo quel tristissimo evento, l’avvicinarsi della pensione terrorizzava Briganti, che sarebbe stato persino disposto a falsificare i documenti, pur di poter restare in servizio all’infinito al commissariato di Rivorosso.

    Di mattina, quando era di turno, Briganti arrivava sempre con largo anticipo, mandava a casa qualche minuto prima l’agente del turno di notte, poi si accomodava nella guardiola, sospirando di piacere nel sedersi in quel piccolo stanzino che considerava il suo angolo di paradiso.

    D’estate apriva la finestra all’aria fresca del nuovo giorno, ma era in inverno che il suo rituale di insediamento diventava più complesso e metodico. Rossano Briganti accendeva la piccola stufa alogena all’interno della guardiola e con le mani ancora fredde per aver attraversato l’alba andava a prendersi il caffè caldo al distributore automatico nel corridoio. Quando il suo cubicolo cominciava a diventare tiepido e accogliente, rientrava nella sua postazione.

    Prendeva dalla tasca della giacca un sacchetto di carta bianca, ne apriva i lembi superiori e ne estraeva una croccante brioche appena sfornata, acquistata al forno sotto casa.

    Dopo la frugale prima colazione, a meno di qualche urgenza o contrattempo, si concedeva il quarto d’ora al pensatoio, come lo definiva lui. Andava al gabinetto. Lì seduto risolveva sei definizioni, giuste giuste, non una di più, non una di meno, sulla «Settimana Enigmistica», poi tornava al suo posto.

    Questo ogni mattina che il Signore aveva creato, con la pioggia o con il sole, d’estate e d’inverno.

    Quando il nuovo dirigente, proveniente dal commissariato di Acerra e pronto a prendere servizio a Rivorosso, entrò per la prima volta in quella caserma, Briganti stava affrontando la sua sesta definizione, l’ultima di quella mattina, il venticinque orizzontale del Ghilardi.

    «Lo restituisce il ladro pentito», lesse a voce alta. «Mal-lop-po!», sillabò scrivendo la soluzione. «Sì, e quando mai…», commentò tra sé e sé.

    Nel frattempo non c’era anima viva dentro la guardiola ad attendere il nuovo arrivato. Anzi, la nuova arrivata.

    Perché, a ben guardare, si trattava di una donna. Non molto femminile, a dir la verità. Ma pur sempre una donna.

    Di statura piccola e di corporatura grossa, la buffa sagoma si stagliò in controluce nello specchio del portone d’ingresso, paludata in un cappotto grigio piombo, tipo loden, stretto sulle spalle e svasato in fondo.

    Se non fosse stato per due stivaletti neri a punta che uscivano dal bordo inferiore del paltò, avrebbe fatto pensare proprio a una di quelle campane basse di pietra, in paese più comunemente dette borberi, che su certe strade strette del centro di Rivorosso rappresentavano l’ultima ratio per riuscire a dissuadere impenitenti parcheggiatori selvaggi a sostare dove era tassativamente vietato.

    I capelli corti, ricci e scuri fuoriuscivano ai lati della testa da un berretto di spessa lana nera fatto a mano, senza disegni o ghirigori, quattro scanalature larghe di cannolè e un bordo rigirato alla marinara, che lasciava scoperto un pezzetto di fronte pallida, digradante verso due archi di sopracciglia folte, siepi incolte e scure a ispida difesa di palpebre bianche e senza un filo di trucco.

    Le guance erano rosse per il

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