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Il cuore opposto
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E-book442 pagine6 ore

Il cuore opposto

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Info su questo ebook

Europa, Anno Domini 2340. Gli alieni sono ormai parte del paesaggio, ma gli abitanti della terra non hanno avuto bisogno del loro contributo per imboccare la via dell’autodistruzione. Perfino l’idea di dio è stata messa al bando. Cosa resta del mondo che conosciamo a parte città mummificate, fumo e rovine? Cosa resta dei padri, delle madri e dei figli? E dello spirito santo?
In un mondo alla deriva non rimane che l’amore a indicare la direzione, con le sue luci e il suo buio: l’amore della giovane Aurore per Léon, il figlio del capitano alieno, l’amore più adulto del padre di Aurore, Nestor, per Emilie, la madre di Léon, da sempre vivo, eppure simile a una canzone sommessa, l’amore dei genitori per i figli, capace di rinunciare alla propria felicità per dare spazio a quella degli altri.
Alle prese con un’astronauta che non si sveglia dal coma, seguendo le tracce di una ragazza che porta il nome della Bella Addormentata, Il cuore opposto si addentra in un percorso alla ricerca di se stessi e dell’altro, attraverso le zone più oscure dell’anima e del mondo.
Il romanzo si è classificato primo nella sezione narrativa della II Edizione del Premio “Andrea Torresano” 2015-2016 di Gilgamesh Edizioni.
LinguaItaliano
Data di uscita5 dic 2016
ISBN9788868672119
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    Anteprima del libro

    Il cuore opposto - Dina Ravaglia

    l'Idea

    1

    Un chiodo che s’incunea nella mascella.

    Acuto come una punta che spacca. Il dolore a tratti rende impossibile qualunque ragionamento. Poi si ritira lento come un’onda di piena, e ritirandosi lascia dietro di sé una selva di nervi scoperti, un’ipersensibilità diffusa sulla pelle che fa trasalire alla minima bava di vento.

    Non potendovi far fronte, occorre essere pronti a trattenere il respiro, sudando freddo fino al prossimo assalto.

    E a Néstor sembra di stare perfino bene. Non è che un fottuto molare, un’inezia, un punto infinitesimo se paragonato alla sua mole, più di un quintale di muscoli e ossa. Talmente piccolo da risultare, tra un assalto e l’altro, del tutto irrilevante.

    Alza lo sguardo, deciso ad accantonare in un angolo il pensiero della caverna nera e putrida che dentro il dente continua a lavorare; incurante del fatto inconfutabile che la caverna si allarga a spallate, si allarga e si allarga.

    La festa è domani. La grande Festa della Rivoluzione. L’Anniversario.

    Stasera è la vigilia. Ci saranno i fuochi d’artificio, musica e balli per le strade. È una festa antica e nuova, nuova per il significato che appartiene a questo mondo nuovo e malato, antica per come viene festeggiata. Fuochi d’artificio. Musica senza parole e balli. Vino e tamburi.

    Néstor oltre il parapetto della terrazza, oltre le mura, incontra la luce che s’infrange rosata e radente sull’acqua ferma. Morta.

    Perché quella è Aigues Mortes, la Città dell’Acqua Morta, appunto; è stata proprio quell’acqua stagnante a battezzare, millenni addietro, la città.

    A Néstor, la festa non interessa. Ha male a un dente. Finge di aver stretto quel dolore all’angolo, convince se stesso di avere avuto la meglio.

    Sul terrazzo ha messo un cavalletto, sul cavalletto una tela, davanti alla tela colori e pennelli. Ma la tela è ancora bianca. È inutile, lo sa che non riuscirà a catturare quella luce.

    Monique esce sul terrazzo, ma prima di lei gli arriva alle narici il suo profumo, troppo intenso. Sa di fiori sul punto di appassire, pensa Néstor mentre lei lo abbraccia da dietro.

    Usciamo, dai, gli dice. Gli parla dentro i capelli, e solo allora lui si gira. A parte il profumo è perfetta, e come potrebbe non esserlo? Indossa solo una tunica rossa corta sopra il ginocchio, e sandali sottili dal tacco altissimo. I capelli sono sciolti e lunghi, di un biondo oro caldo che assomiglia, quello forse sì, alla luce del mezzogiorno che lui non riesce a catturare. Non c’è un segno sul suo viso giovane, a parte il lieve trucco alle labbra e agli occhi. Non c’è un pelo fuori posto nella traccia delle sue sopracciglia. Allunga una mano e le sfiora una gamba. La pelle è liscia e morbida, velluto senza memoria né cicatrici.

    Io non vengo, le dice tuttavia. Mi fa male un dente. Cazzo, un male che non resisto.

    Monique si stacca da lui, il viso imbronciato.

    Ma quando ti decidi? Non è che ti ammazzano se ci vai. Vieni fuori che stai d’incanto, come appena rimesso al mondo, come nuovo. Lo so, è una sensazione che non hai mai provato. Ma fra un po’ ti scoppierà la testa, e allora sì che ci andrai, ci sarai costretto finalmente.

    Istintivamente solleva il palmo della mano e se lo appoggia sulla guancia dolorante. Non ci vado, pensa. No, io non ci vado.

    Monique gli gira le spalle e lo lascia lì, sul terrazzo.

    Io esco, gli dice, tu fai un po’ come vuoi.

    Quello che fa Néstor è sospirare di sollievo. Ecco, se n’è andata, meno male. Ma perché non ci siamo ancora lasciati? Si domanda abbattendo i suoi cento chili sulla poltrona rivestita di vecchia stoffa a fiori. Con la mano aperta si massaggia la faccia. Che male dell’accidente, cazzo. Ancora con questa storia del Centro. Io, al Centro di Salute, non ci vado, l’hai capito Monique? Non ci vado. In quei posti sai come entri ma non sai come esci, o meglio lo sai: perfetto. Tutti i denti a posto, bianchi e splendenti. Tutte le rughe cancellate. Tutti i capelli folti e scuri sulla testa, non uno di meno, non uno bianco. Se sei disposto a stare dentro tre o quattro giorni, poi, vieni fuori che non hai più un etto di grasso a cercarlo, in nessunissima parte del corpo; restano solo muscoli scolpiti e addominali a tartaruga. Io non la voglio una tartaruga sul petto, pensa Néstor, io sono questo e non un altro, non uno perfetto. Io sono Néstor Chimère, ho cinquantadue anni ma a causa dei viaggi che ho fatto non ne dimostro nemmeno quaranta; se andassi al Centro potrei dimostrarne dieci di meno, ma non è quello che voglio. Dimostrarne di meno. Io sono questo, un quintale abbondante di muscoli e ciccia per un metro e ottantacinque di altezza; quando giocavo a rugby facevo il pilone, certo, avevo proprio il fisico adatto. Mi guardo nel vetro della porta finestra e vedo la mia faccia, la mascella forte, la guancia gonfia da una parte, ci appoggio sopra il palmo della mano – che potessi incenerirlo con un semplice gesto, questo molare del cazzo. E mi guardo i capelli, mossi e spettinati, lunghi, forse ne dimostro anche quarantacinque di anni a pensarci bene, se sollevo i capelli dalla fronte si notano le cuspidi di una stempiatura sempre più consistente, e poi con questa luce non si vede, ma quando mi guardo allo specchio del bagno li riesco a vedere senza sforzo, i capelli bianchi sulle tempie. Ma io sono questo, Néstor Chimère, cinquantadue anni; e non voglio sembrare un ragazzo, non voglio essere perfetto. La perfezione non è di questo mondo, pensa Néstor, anche se quella apparente sì, lo è, è stata raggiunta davvero e guarda caso proprio in questo vecchio mondo malato.

    Néstor non vuole sembrare un ragazzo. Ha una figlia di diciotto anni, Aurore. Non riesce a essere un padre autorevole, questo lo sa; ma non vuole nemmeno sembrare un ragazzo.

    Ecco Aurore, la sente gridare in strada una parola sguaiata. Quella pazza andrà a finire male, e io non ci posso fare niente. Non riesco a farci niente, pensa, e faticosamente si alza e si sporge oltre la balconata. Aurore è giù in strada, un punto fermo davanti alla porta immerso in un flusso di gente vociante. Avvinghiati a lei, sbandano senza direzione due ragazzi.

    Devo salire, la sente dire, ma le ci vuole un po’ per staccarseli di dosso. Saranno già ubriachi, pensa Néstor lasciandosi cadere nuovamente sulla poltrona, saranno nati così, fuori di testa, e la festa deve ancora cominciare.

    A Néstor non importa niente della festa. Lui vuole cucinare la bouillabaisse, è questo il suo proposito per la serata. Se ci vorranno delle ore, meglio, non penserà al dolore. E poi vuole mangiarla. Bere del buon vino. Restarsene in casa, a pensare ai fatti suoi. Andarsene a letto, sperando che Monique non torni prima dell’alba con le sue pretese.

    Il dolore alla mascella pulsa come un martello. Non lo lascerà cucinare in pace, Néstor lo sa. Ha bisogno di antidolorifici, un bisogno disperato. In casa non c’è più niente, la sua scorta è finita.

    Si alza ed entra in casa. Il sole cala. L’atmosfera densa e fosca da rosa è passata attraverso il violetto, e adesso sta diventando di un azzurro intenso. L’aria è satura di grida e di sale, con un retrogusto di musica spezzata non vicina e non lontana.

    Ecco sua figlia, quella dall’abbraccio facile, Aurore. Ha addosso quell’ebbrezza tipica dell’età e della vita, e non solo, forse ha bevuto, forse ha già preso qualcosa. Lui, con questa figlia che si è tirato su da solo, è del tutto impotente. Viene ad abbracciarlo e lui ricambia, travolto come sempre dal suo calore. È quel calore a renderla quello che è, in apparenza simile ma per essenza irrimediabilmente diversa da sua madre. Respira il profumo di sua figlia, incenso cannella e sudore ma buono, buono perfino il sudore, e gli torna in mente l’odore che aveva addosso da piccola, quando la stringeva fra le braccia: zucchero e latte. Zucchero, latte e vaniglia.

    Che hai, sei arrabbiato? gli chiede, senza smettere di abbracciarlo, allontanandosi quel tanto che basta per guardargli la faccia.

    È bella la faccia di sua figlia, pensa Néstor guardandola e raccontandole del dente: è scura e selvaggia, occhi neri che mandano lampi, pelle liscia e abbronzata, lustra, capelli neri spessi e vivi come serpenti, scomposti. È tutta lei ad essere scomposta, fuori e dentro, Néstor lo sa, eppure lei riesce ad abbracciare così bene, è questo il problema, è questo il vero pericolo, e lui si gode quell’abbraccio con pieno diritto e sente con la faccia il palmo della mano di lei, Aurore, fresco e caldo, posato di piatto sulla guancia, e chiude gli occhi e smette di respirare come se quel tocco, da solo, potesse guarirlo.

    La ragazza si stacca e lui la guarda da qualche metro di distanza. È sempre vestita allo stesso modo, pantaloni scuri infilati negli stivali, la vita strizzata nell’alta cintura di cuoio nero, casacca marrone di lino con i lacci sul seno più o meno stretti, lasciano vedere o non vedere quello che c’è sotto. La casacca è larga e sudata, stazzonata, ce l’ha addosso da almeno tre giorni.

    Ho fame, dice Aurore buttandosi lunga e distesa sul divano, gli stivali sul bracciolo. Cosa mangiamo stasera?

    "Bouillabaisse, risponde lui, con una sottile soddisfazione al pensiero che la ragazza resterà a casa almeno per la cena, ma devo ancora prepararla. Qua se non mi sbrigo viene notte," dice Néstor, e va in cucina a guardare negli sportelli della credenza. Aurore viene ad aprire il frigo che trabocca di pesce già pulito. Scorfano, scampi, coda di rospo, triglie, polpi, calamari fissano con occhi vitrei la ragazza che cerca da bere.

    Lo zafferano, impreca silenziosamente Néstor. Manca lo zafferano. Come pensavo di preparare la zuppa, senza zafferano? Questo dannato mal di denti mi manda fuori di testa.

    Aveva sperato che immergersi nei preparativi in cucina gli avrebbe fatto dimenticare il dolore, e forse sarebbe accaduto davvero.

    Ma lo zafferano batte gli antidolorifici dieci a zero: non si può fare senza.

    Devo andare da Alì, dice Néstor, manca lo zafferano.

    Intanto io mi faccio un aperitivo, dice la ragazza versandosi del vino rosso da una bottiglia già aperta. La guarda per un attimo; vorrebbe dire qualcosa, ma tace. Esce dalla porta e scende le scale.

    L’aria è gravida di promesse che non verranno mantenute, musica e luci. Néstor si muove in direzione contraria al flusso, allontanandosi dal centro. Avanza spingendo con le spalle come in una partita di rugby. La gente sembra felice. A lui della festa non importa niente.

    L’emporio di Alì è vicino alle mura. Una vecchia bottega di spezie. Aglio e lavanda a mazzi appesi fuori dalla porta. Un antro buio. Un odore celestiale che dà alla testa – spezie e profumi, dev’essere questo l’odore del paradiso.

    Alì fuma il narghilè alla mela appena dentro, seduto sulla sua poltrona di bambù.

    Gli fa segno di sedere sulla poltrona gemella. Gli passa un bocchino di osso.

    "Grazie, Alì, devo andare. Bouillabaisse, stasera. E devo ancora cominciare."

    C’è tempo, dice il marocchino, barba affilata e baffi sottili, in testa una sciarpa chiara arrotolata come un turbante.

    Ho un molare che mi dà il tormento, Alì.

    Il marocchino gli posa la mano sul mento e lo fa voltare. Gli guarda la faccia, studiando il gonfiore con aria critica. I suoi polpastrelli raspano come carta vetrata.

    Se vuoi te lo tolgo. Faccio in un attimo.

    Istintivamente, Néstor si porta la mano alla faccia, come per ripararsi.

    No, no… Non hai qualcosa da darmi? Qualcosa di forte. Per il dolore.

    Io ho tutto, lo sai, dice Alì, con un’improvvisa mezzaluna di sorriso. Tutto quello che vuoi.

    Rassegnato, Néstor si concede un tiro di narghilè, poi un altro. La notte sboccia anche per lui luminosa e piena di cose. Il dolore sembra subito allentarsi.

    Rientra con due scatole miracolose di pastiglie dentro la tasca e cinque bustine di zafferano in mano. Non sente più alcun dolore, nemmeno dentro al petto.

    Trova Aurore addormentata sul divano a piedi scalzi, gli stivali buttati di qua e di là, la bottiglia di vino quasi vuota. L’aria della sera adesso è blu chiaro e dolce, muove appena le tende, accarezza piano il viso di Aurore. È rimasta a cena perché Monique non è in casa, dice a se stesso Néstor, ecco perché è rimasta; le due non si sopportano, non si possono vedere, è colpa mia che le costringo a vivere nella stessa casa, ma non sarà per molto, devo decidermi, devo lasciare Monique. E tuttavia l’idea del posto vuoto nel letto accanto a lui è difficile da sopportare.

    Si decide ad andare in cucina e si mette al lavoro, buccia di arancia secca e zafferano.

    Era un piatto povero, da pescatori, la bouillabaisse, nata mettendo insieme gli avanzi, il pescato rimasto invenduto.

    Estrae i pesci dal frigo salutandoli uno a uno, quelli grossi li taglia a pezzi, i piccoli li lava e cosparge tutto di sale. Aurore si leccherà i baffi, pensa, non farà la doccia nemmeno stasera e quando uscirà di casa, perché di sicuro uscirà, non saprà solo di incenso cannella e sudore, ma anche di pesce e di vino. Ogni ben di dio, insomma, e gli uomini impazziranno. Povero me, che non riesco a tenerla al sicuro, si compiange Néstor. Povero me, che non so cosa farci.

    Ecco, un trito di cipolle e porri ad appassire nel tegame più grande di tutti, dentro deve starci la zuppa intera. Aggiunge alloro, aglio, prezzemolo, timo, finocchio selvatico. In cucina, lui, ha tutto. Gli piace avere tutto quello che serve, gli dà l’illusione di avere la situazione sotto controllo, ed è un’illusione che fa bene al cuore. Ecco, l’aglio è quasi dorato, è il momento di aggiungere i pomodori. Gli piace rimestare nella pentola, annusare l’aroma che sale, guardare il pomodoro che si disfa unendosi armoniosamente con gli altri ingredienti. Un po’ di vino bianco nella pentola, ecco, un goccio di pastis, non troppo perché poi diventa stomachevole.

    Cosa ne faccio di questa ragazza che dorme sul divano? Povero me, meglio chiedermi che ne farà questa ragazza di se stessa. Sono suo padre e basta, eppure non ho mai avuto alcun potere su di lei. Non ha che diciott’anni, ma ha sempre vissuto come voleva. E io l’ho amata, pensa Néstor, l’ho amata infinitamente ma l’ho amata e basta, non ho mai saputo indicarle una strada: non ci sono riuscito. E adesso ho paura.

    Controlla la pentola, è ora di aggiungere l’acqua bollente. Riempie il tegame fino a metà. Aspetta, aspetta, aspetta. Attraverso la porta che dà sulla sala guarda la ragazza che dorme. Ha paura delle mani che la toccheranno e di quelle che l’hanno già toccata. Il cuore gli trema, ma non sa cosa farci. Aurore è adulta. È libera. Lui non sa fermarla, non ha le parole, i gesti adatti. Se solo sua madre fosse qui, pensa. Forse lei ci riuscirebbe. Forse lo saprebbe, lei, come fare.

    Ma sono pensieri inutili. Agathe, sua moglie, è scomparsa quando la bambina aveva poco più di un anno. Dispersa nello spazio durante una missione, e nemmeno una tomba. Ricorda che già a quel tempo non avevano più molto da dirsi, eppure si erano amati. L’aveva conosciuta all’Accademia di Scienze. Entrambi avevano scelto la carriera operativa nel campo delle scienze applicate. A nessuno dei due andava l’idea di restare chiusi in un’aula dell’università.

    Avevano presentato la domanda per avere un figlio, era stata accettata. Si erano sottoposti ai controlli previsti per legge. L’embrione più forte era stato selezionato, e dopo nove mesi la bambina era nata, gli occhi color carbone della madre, intensi, la pelle olivastra e un ciuffo di capelli neri arricciati sopra la fronte.

    Tra Néstor e sua moglie, però, era finita. La bambina era nata, e loro due non avevano più niente da dirsi. Era convinto che non sarebbe accaduto, se lui per una volta avesse potuto semplicemente stringere Agathe fra le braccia evitando ogni protezione, se lui avesse potuto semplicemente metterla incinta. Ma questo non era possibile, la legge lo vietava. Agathe era quella rigida e ligia al dovere, lui era lo scapestrato, il folle. Lei seguiva le regole, tutte, senza protestare. Lui litigava sempre con i suoi superiori, aveva idee anche troppo geniali che non lo portavano da nessuna parte; ogni volta che usciva dai binari prestabiliti qualcuno o qualcosa gli segava le gambe facendolo deragliare come un treno impazzito.

    Da quando Aurore era nata, avevano chiesto e ottenuto di partire a turno per le missioni. Agathe partiva sempre senza tentennamenti, era lui quello che dubitava. Alcune missioni non rispettavano le minime condizioni di sicurezza. Si spingevano oltre il limite dell’umano.

    Erano venuti a casa ad avvisarlo: Agathe non sarebbe tornata. Si era verificato un problema. Erano dolenti di informarlo che sua moglie era stata data ufficialmente per dispersa. Avrà freddo, aveva pensato soltanto, lo spazio è buio e freddo là fuori, e immenso. Agathe avrà freddo, aveva pensato, e non aveva ascoltato le loro spiegazioni, non voleva sapere né quando né come né perché era accaduto, lui non voleva sapere niente, non gli importava, il dato da registrare era solo uno: Agathe non sarebbe tornata. Ricorda che non li aveva fatti entrare. Li aveva spinti fuori dalla porta al più presto ed era rimasto lì, gli occhi asciutti, la bambina di un anno fra le braccia. E adesso che cosa faccio? – si era chiesto allora annusandole la testa, respirando con l’affanno chiuso nel petto.

    E adesso che cosa faccio? – si chiede ora. Diciassette anni sono passati, ma lui quella risposta non l’ha ancora trovata.

    Adesso, se resto qui con gli occhi lucidi e non guardo dentro la pentola, finisce che va tutto a puttane.

    Unisce svelto lo zafferano, la scorza di arancia secca e i pesci, quelli a carne ferma sotto, sopra i più morbidi e i crostacei. Copre tutto il pesce con l’acqua bollente, alza il calore della piastra, aggiunge il pepe. Il brodo ha ripreso a bollire. Dieci minuti ed è fatta.

    Certo, manca la salsa rouille, una componente essenziale del piatto. Deve sbrigarsi.

    Peperone, patata, pomodoro, rosso d’uovo. Aglio, sale, peperoncino. Un bel po’ d’olio. Tutto nella centrifuga, ecco, la consistenza è quella giusta. Assaggia, aggiusta di sale. È pronta.

    Mette a tostare il pane a fette e va a svegliare Aurore. È seduto accanto a lei, sul divano. Le sposta i capelli dal viso sudato. La ragazza allunga le gambe e le braccia, sbadiglia forte. Ho dormito benissimo, dice, e resta lì sdraiata, la testa sul bracciolo, a guardare suo padre che apparecchia in fretta la tavola del terrazzo, ad annusare il profumo spettacolare che si spande dalla cucina.

    Suo padre accende la candela dentro la lanterna e la mette sul tavolo. Aurore pensa all’altra sera, quando lui aveva cucinato per Monique: la lanterna sul tavolo non c’era. Soddisfatta, a piedi scalzi, esce sulla terrazza. Arriva Néstor con la zuppa, il pane, la salsa. E infine ecco il vino, è perfetto, un Riesling alsaziano di dieci anni.

    Aurore gira verso di sé l’etichetta della bottiglia.

    2330? Ci trattiamo bene!

    Certo che sì, risponde Néstor. Per chi mi hai preso? Quanto a bere e mangiare, io mi tratto sempre bene, lo sai.

    Anche quanto al resto, direi, sorride Aurore, e non è chiaro se si riferisca alla casa che abita, alla donna a cui si è accompagnato, o a tutt’e due.

    Sublime. Fantastica. La zuppa di suo padre parla da sola. Mangiano e bevono senza aggiungere nulla, godendosi quel momento di festa dei sensi e quella pace, ignari delle musiche e delle grida, ignari dei rumori e di tutto, lo sguardo che spazia sull’ampiezza lucida e piatta dell’Etang de la Ville oltre il profilo delle mura. Ed ecco, improvvisi, i fuochi d’artificio, botti da pelle d’oca sulle loro teste, fiori rossi e viola, guizzi bianchi, esplosioni di tutti i colori.

    È domani la cena della Gente Importante? gli chiede sarcastica sua figlia, quando l’ultimo fuoco si è spento annegando nell’acqua morta i suoi colori.

    È domani, sospira il padre, e tu, se ti ricordi, mi hai promesso che saresti venuta.

    Se te l’ho promesso, ci verrò, acconsente lei malvolentieri, agitandosi sulla sedia. Ma non pensare che mi metterò un vestito. Questo non lo farò: quindi non chiedermelo. Era buonissima, papà! gli dice. Si alza. Lo abbraccia. Lo bacia su una guancia.

    Néstor sente la testa pesante. Il dente non gli fa più male, il cuore un po’ sì. Dentro di noi abbiamo sempre una mancanza che grida, dice a se stesso, non importa se facciamo finta di niente. Sente la testa pesante. Ormai è notte fonda, le voci si sono spostate in centro, sulla piazza.

    Tira fuori dalla tasca altre tre pastiglie e le inghiotte tutte insieme con l’ultimo sorso della seconda bottiglia di Riesling. Esausto, lascia la terrazza e va ad occupare il posto di sua figlia, sul divano. Il sonno lo prende prima ancora di avere appoggiato la testa.

    Aurore gli passa davanti, gli sorride, gli fa una carezza che lui non sente. Poi, senza essersi cambiata né pettinata, prende la porta e scende le scale, precipitandosi incontro alla notte.

    2

    Sua figlia sbuffa e misura la strada a passi lunghi e pesanti.

    Néstor la segue arrancando, preso tra due fuochi.

    Perché Monique, invece, traballa sui tacchi a spillo e si affretta per stargli dietro, indulgendo nel tipico passo che suggerisce ‘sto per cadere’, e che dovrebbe suscitare nell’uomo un’inevitabile istinto di protezione. Se non fosse che l’uomo, tre passi avanti, camicia bianca passata di moda e pantaloni grigi troppo stretti, nemmeno la guarda, cerca piuttosto senza successo di tener dietro alla figlia.

    Il taxi li ha lasciati appena fuori dall’area pedonale, giusto davanti alla fila per i controlli. La fila è stata lunga. Alla perquisizione Monique ammiccava, Aurore sbuffava. Néstor ha avuto paura che l’arrestassero.

    Fuori dal palazzo non c’è più nessuno, ormai sono entrati tutti.

    Sono le diciotto. La cerimonia inizia alle diciotto.

    Per favore, Aurore, dice la voce di Néstor, supplichevole, per favore, aspetta.

    La cerimonia, papà. Non me l’hai detto che c’era la cerimonia. Passi la cena. Ma la cerimonia, questo no!… Io non ho mai detto che ci venivo!

    Almeno ha cambiato casacca, pensa Néstor senza riuscire a raggiungerla, sono sicuro che l’ha cambiata perché questa è blu. Pantaloni, cintura e stivali sono sempre gli stessi. Almeno la casacca è pulita, pensa cercando conforto in quel pensiero, e non ha bisogno di girarsi per immaginare il contrasto, Monique con il suo vestito avorio corto e svolazzante, la spalla scoperta, i sandali dorati, i capelli raccolti ad arte, niente fuori posto, niente che non sia perfetto. Lo sa già, le due donne che l’accompagnano susciteranno scalpore al loro ingresso nella sala perché sono entrambe fuori luogo, una troppo in tiro, l’altra troppo poco. Sospira, inseguendo e precedendo l’ineluttabilità del suo destino e sono quasi arrivati, ecco il palazzo bianco, ecco il portone dorato spalancato sull’interno pieno di luce, ecco le guardie armate ai lati dell’ingresso nelle loro corazze antracite, formiche troppo cresciute che brandiscono fucili corti e potentissimi.

    Improvvisamente Aurore si blocca e si gira di scatto, puntando un indice altrettanto micidiale contro il petto largo del padre.

    Tu non me l’hai detto che dovevo venire alla cerimonia. Due ore di discorso, una mazzata da suicidio!… Passi la cena, ma questo… gli occhi della ragazza mandano lampi.

    Te l’ho spiegato, non potevo dire di no. Mi ha invitato Emilie, una vecchia amica. C’è l’investitura di suo figlio, diventa Comandante. Non potevo dire di no. Non la vedo da molti anni. Mi ha chiamato stamattina.

    Aurore sbuffa, stringe i pugni, poi gli gira le spalle e si appresta a passare attraverso il portone dorato. Si scorda di tirare fuori il pass di identificazione che hanno assegnato loro ai controlli, uno a testa, e così le due guardie scattano in avanti incrociando i fucili, e le sbarrano il passo. Néstor si fa avanti a mani aperte, il pass di invito bene in vista nella destra. Monique avanza timidamente dietro di lui, rumore fitto e impreciso di tacchi.

    Professore, s’inchina la voce metallica e impersonale di una guardia mentre i fucili si ritraggono. Aurore ha trovato in tasca il suo pass e soltanto ora lo mostra alle guardie, ma ormai li hanno fatti passare, hanno identificato Néstor, professore ordinario di neuropsicologia al Politecnico del Midi, nonché direttore del centro di Mont de Marsan per la riabilitazione psichiatrica di astronauti con disturbi, un’istituzione il cui prestigio è universalmente riconosciuto.

    Monique sembra aver guadagnato qualche centimetro in altezza, affrettandosi per restare accanto al prestigio del suo uomo, mentre lei, Aurore, dopo l’incontro ravvicinato con le guardie è stata presa da un grave senso di impotenza, e ha perso ogni interesse per ciò che le sta intorno. Arriva subito una hostess sorridente in divisa gialla, li saluta, chiede loro di seguirli.

    La sala è già affollata, piena d’oro e di luce. Aurore stringe gli occhi, tutta quella pompa barocca è un pugno nello stomaco.

    I posti sono numerati. Seguono la divisa gialla fino alle prime file.

    Cazzo, se sei importante, sussurra Aurore a suo padre.

    Seconda fila. Vengono accompagnati in seconda fila, al centro. Ecco i loro tre posti.

    Accanto ai sedili vuoti, una donna li aspetta in piedi. Tende le mani verso Néstor. Indossa un abito nero accollato, sobrio. Ha i capelli raccolti alla nuca, un nodo chiaro, sono biondi e sono bianchi, fini, luminosi. Néstor si fa avanti; Aurore si accorge che è senza parole, si è scordato di chiudere la bocca. Però le prende le mani, le stringe per un lungo momento senza distogliere lo sguardo dagli occhi di lei. Infine si abbracciano.

    Amica. Aveva detto che doveva rivedere un’amica, tutto qui. Finalmente si staccano, a fatica si ricompongono. Néstor improvvisamente si ricorda che esiste un mondo intorno, si gira verso di loro, si degna di fare le presentazioni. Emilie, questa è mia figlia Aurore, e questa è Monique, la mia compagna. Ragazze, la dottoressa Emilie Lapoussière, coordinatrice del Centro Ricerche di Lossiemouth, nelle Highlands, presso la base militare.

    Si stringono la mano. Emilie ha una mano solida e stringe forte, unghie corte e senza smalto. Qualcosa nel suo aspetto la rende unica, diversa dal resto omologato del mondo, e guardandola in faccia Aurore vede che i suoi occhi, il suo viso raccontano infinite storie, gioie e dolori e amore e sofferenze e lotta, e improvvisamente Aurore ha un’illuminazione, la stessa che pochi istanti prima deve aver colpito anche Néstor, suo padre, e resta anche lei a bocca aperta: Emilie negli ultimi vent’anni non ha mai messo piede in un Centro di Salute.

    Proprio come suo padre. Eppure è una donna. Quindi è possibile. Il viso di Aurore si distende e si apre, le viene voglia di sorridere e di conoscere meglio questa donna sobria ed elegante, il viso bello segnato da rughe e lentiggini, i capelli striati di bianco; le viene voglia di conoscerla meglio perché sarà anche un’eccentrica arrogante, una scienziata che vive nel suo mondo, ma con quell’aspetto che dimostra tutti i suoi anni senza sconti le sta dicendo che sì, è possibile essere semplicemente se stessi. Chissà come ci si sente, pensa Aurore, a camminare in mezzo a tutta questa gente che appare giovane e perfetta.

    Con elegante noncuranza, Emilie fa passare Monique, quindi Néstor, e prende il posto fra il padre e la figlia in modo da restargli accanto senza offendere la sua compagna, che in questo modo gli siede all’altro fianco. Aurore la guarda di traverso, semplicemente attratta dal suo aspetto. Emilie le sorride.

    Non ti dispiace, vero, se prendo il posto accanto a tuo padre?

    No, sorride Aurore, visto che non vi vedete da anni, non ho argomenti per protestare…

    Appare più vecchia di mio padre, pensa Aurore, eppure hanno la stessa età, si sono conosciuti a scuola. Dev’essere perché lei non ha mai viaggiato.

    Emilie ricambia con un breve sorriso dei suoi, aperto e sincero, senza eccessi. È una presenza tranquilla e calda, rassicurante. Aurore si rilassa mentre la cerimonia ha inizio. Si accomoda più giù sul sedile. Appoggia la nuca. Chiude gli occhi.

    Applausi. Parte la musica solenne, l’inno senza parole della Rivoluzione. Riapre gli occhi per un attimo. Sul palco, la solita sfilata di mummie in divisa dall’aspetto giovanile e riposato, abbronzato quanto basta.

    La musica tace. Prende la parola il più importante, l’Attendente alla Sicurezza in persona. È l’uomo che conta più di tutti, anche se ufficialmente non dovrebbe essere così. È suo il compito di mantenere lo status quo. Sovrintende all’Esercito e alla Polizia, esercita il suo controllo sull’educazione, sulle arti e sulla cultura. Controlla anche l’Agenzia per la Censura, che si occupa di cancellare dalla Rete i contributi giudicati non opportuni dalla Commissione di Vigilanza: praticamente tutti.

    Lei, dal vivo, non l’ha mai visto; fasciato nella divisa verde scura ostenta un fisico perfetto, viso liscio e abbronzato, capelli pettinati all’indietro e un’apparente età di quarantacinque anni. Ne avrà almeno ottanta, pensa Aurore. Il giorno che lei è venuta al mondo, quest’uomo era già l’Attendente alla Sicurezza da dieci anni, e il suo aspetto era del tutto identico a quello dell’uomo che ora riceve l’applauso. Da dietro il leggìo inizia il suo discorso, la voce potente irrobustita e amplificata da cento altoparlanti invisibili. Ineludibile. Per gli altri forse, ma non per lei.

    Aurore tira fuori dalla tasca gli auricolari, minuscoli e senza fili, se li infila con il gesto di un secondo nelle orecchie e sfiorando l’interno della tasca attacca la musica, alzando il volume al massimo. Sospira di sollievo, si rilassa. La musica martella. Il discorso dell’Attendente non è che un fruscio di disturbo, in sottofondo. La musica riempie la testa, fa navigare via lontano, batte un ritmo uguale a quello del cuore. Aurore chiude gli occhi. Poi li riapre e riceve l’occhiata indulgente di Emilie, evidentemente si è accorta di tutto – gli auricolari, la musica, i suoi occhi chiusi. Sebbene la musica sia solo strumentale, l’unica ammessa nei Siti Preservati, ascoltarla durante la cerimonia dell’Investitura è una gravissima mancanza di rispetto. Aurore potrebbe venire arrestata su due piedi per questo, entrambe lo sanno. Ma Emilie con un accenno triste di sorriso sulle labbra non si cura di lei, torna a mostrarle il profilo. Ha ripreso ad ascoltare il discorso e ad applaudire quando è richiesto. L’Investitura dei nuovi Comandanti ha inizio.

    Sono molto giovani. Entrano e si schierano davanti all’Attendente dando le spalle al pubblico, perfetti nelle loro divise azzurro polvere, i fregi platino, niente berretto, i capelli pettinati nell’identico modo, nuche rasate e riga a sinistra.

    Pronunciano tutti insieme il giuramento. Poi uno a uno vengono chiamati per nome. Viene avanti il primo.

    Con la musica che pompa nelle orecchie, Aurore lo guarda ricevere sul petto la decorazione: è una mano aperta che manda bagliori sinistri, l’insegna del comando; poi lo guarda ricevere le armi, una pistola bianca e un pugnale alla cintura, e infine il ragazzo china il capo e riceve sulla testa, dalle mani dell’Attendente in persona, il berretto della divisa, un piccolo basco azzurro che riporta da un lato la stessa insegna in platino con la mano aperta.

    Aurore chiude gli occhi e ascolta la musica, mentre la stessa trafila viene ripetuta per ognuno dei ragazzi schierati sul palco per un numero di volte che a lei sembra infinito. Armati e decorati, i nuovi Comandanti si schierano alle spalle dell’Attendente alla Sicurezza, rivolti finalmente verso il pubblico.

    Ma adesso sta accadendo qualcosa di diverso, un movimento profondo la sveglia dal torpore. Spalanca gli occhi scuri. Spegne la musica. Emilie Lapoussière sta piangendo. I suoi occhi chiari sono inondati di lacrime. Nel momento esatto in cui Aurore spalanca gli occhi gira la testa e la guarda, la lacrima che si è formata nell’occhio destro di Emilie è pronta per mollare gli ormeggi e un istante dopo eccola, grossa e tonda come una perla, solcare a metà la guancia lentigginosa della donna e perdersi nelle profondità del vestito nero.

    Perché il ragazzo che è stato chiamato, e che ora riceve le insegne del comando, è suo figlio.

    Léon Lapoussière. Léon Lapoussière, è questo il nome del ragazzo, o così le è sembrato di capire mentre spegneva la sua musica dentro la tasca.

    Le armi. L’insegna. Il berretto. Il ragazzo è molto alto e fa uno sforzo per chinarsi abbastanza senza sembrare ridicolo, e tuttavia l’Attendente è costretto ad allungare le braccia oltre l’angolatura prevista dalla sua stessa regia, malgrado le pieghe antiestetiche che prenderà la divisa.

    Ecco, è fatta. Emilie ha il viso rigato di lacrime, le mani strette l’una nell’altra, un sorriso struggente sulle labbra, lo sguardo traboccante di cose. Néstor, suo padre, in quel momento si gira a guardare Emilie e subito le prende entrambe le mani nella sua. Monique getta un’occhiata velenosa sulle loro mani unite e sul grembo di Emilie – ma chi è questa donna, e cosa vuole? sembra pensare.

    E adesso Aurore guarda di nuovo verso il palco. Il ragazzo armato e decorato e con tanto di berretto azzurro si volta e mostra se stesso al pubblico in sala, sollevando un brusio neanche troppo sommesso.

    Aurore lo guarda, e lo vede cos’è: un bianco.

    Sulle prime le era sembrato un bianco. Aveva sentito un colpo dentro, strano, come se il cuore avesse smesso di battere.

    I bianchi. L’unica popolazione aliena ad avere un DNA compatibile con la razza umana. Popolano i pianeti chiamati Colonie del Sud. Aurore ne ha conosciuti diversi da bambina, quando Néstor, suo padre, faceva lo psichiatra di bordo sulle navi mercantili. Li ricorda come esseri alti e gentili, la pelle tanto chiara da sembrare trasparente. I loro occhi erano sempre chiarissimi, talvolta privi di pigmento fino ad apparire rossi o rosati. I loro capelli sempre lisci, sempre bianchi dalla nascita alla morte. Si diceva in giro che i bianchi fossero esseri incapaci di malvagità. Incapaci di tradire. Per questo, pur appartenendo a una civiltà di grado più evoluto, avevano avuto la peggio nel confronto con la razza umana, e ormai nelle Colonie del Sud da cui avevano tratto

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