Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

BLOW – Come un ragazzo di una piccola città ha guadagnato 100 milioni di dollari con il cartello della cocaina di Medellin e poi perso tutto
BLOW – Come un ragazzo di una piccola città ha guadagnato 100 milioni di dollari con il cartello della cocaina di Medellin e poi perso tutto
BLOW – Come un ragazzo di una piccola città ha guadagnato 100 milioni di dollari con il cartello della cocaina di Medellin e poi perso tutto
E-book456 pagine7 ore

BLOW – Come un ragazzo di una piccola città ha guadagnato 100 milioni di dollari con il cartello della cocaina di Medellin e poi perso tutto

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

«Quello che molti non sanno è che avevo già scritto una prima bozza di Blow quando ero in prigione. L'avevo intitolata "Pascolando nell'erba finché non è scesa la neve". Il problema fu che l'editore non credeva a tutto quello che avevo scritto, così assunsero il giornalista investigativo Bruce Porter per verificare se era vero tutto quello che avevo riportato su pagina. Bruce rimase con me per un anno, ci mise il suo stile, i suoi contatti e il libro non solo divenne un best seller, ma anche uno dei migliori film sul genere di tutti i tempi.»
George Jung
LinguaItaliano
Data di uscita28 ott 2020
ISBN9791280133281
BLOW – Come un ragazzo di una piccola città ha guadagnato 100 milioni di dollari con il cartello della cocaina di Medellin e poi perso tutto

Correlato a BLOW – Come un ragazzo di una piccola città ha guadagnato 100 milioni di dollari con il cartello della cocaina di Medellin e poi perso tutto

Ebook correlati

Biografie e memorie per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su BLOW – Come un ragazzo di una piccola città ha guadagnato 100 milioni di dollari con il cartello della cocaina di Medellin e poi perso tutto

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    BLOW – Come un ragazzo di una piccola città ha guadagnato 100 milioni di dollari con il cartello della cocaina di Medellin e poi perso tutto - Bruce Porter

    Nota dell’editore

    Con una breve intervista a Bruce Porter

    Di Marco Porsia

    Le corrispondenze, le concatenazioni di determinati eventi hanno sempre un certo fascino, fanno percepire una cinetica delle relazioni umane decisamente bizzarra. Nell’ottobre del 2018 avevamo appena sottoscritto l’accordo che ci consentiva di tradurre quest’opera, e di lì a poco avremmo incontrato Matteo Gracis, che di questa edizione è curatore, e che all’epoca ci proponeva il suo libro. A tutt’oggi quel libro Canapa - Una storia incredibile è uno dei migliori successi di questa casa editrice, e si fregia della postfazione scritta dal protagonista delle vicende qui raccontate, ossia George Jung, meglio noto come Boston George.

    Avevamo scelto di pubblicare questo libro perché, nonostante fosse datato, parlava di una realtà che è ancora ben presente nel nostro vissuto, dato che il mercato delle droghe, e in generale di quanto oggetto di proibizione, resta un mercato assai redditizio. E le storie come quella di Boston George si moltiplicano.

    Personalmente, penso che le responsabilità di chi vende qualunque prodotto in grado di nuocere alla salute di chi lo consuma siano alte, ma se sono responsabilità commensurabili per certi prodotti, dal tabacco al gioco d’azzardo, dalle bevande alcoliche ai farmaci, non vedo perché non lo possano essere per tutti i prodotti. Perché ad oggi l’alternativa è un mercato illegale, in cui chi vende se ne frega di chi compra, e gli vende quello che gli pare, facendoglielo pagare un prezzo aleatorio e gonfiato dal rischio di impresa illegale. Senza contare che la guerra alle droghe condotta in puri termini di azioni di polizia è un conclamato fallimento, già dai tempi di Boston George.

    La proibizione dello stato, rivolta a determinate sostanze, è un’attività decisamente rischiosa dal punto di vista etico, dato che pone in discussione diversi valori fondamentali. Se la proibizione nasce per spirito di protezione, allora si ritiene il cittadino incapace di valutare le conseguenze del suo agire, e questo non è un bel modo di considerare i membri della propria comunità. Se la proibizione è legata agli effetti immorali dell’uso di una determinata sostanza, il livello di giudizio dello stato nei confronti del cittadino è ancora più rischioso, perché in questo caso gli si dà del moralmente indegno, senza accertarsi neppure se la morale in questione sia realmente condivisa. Proibire, in una democrazia adulta, dovrebbe essere proibito.

    Questo libro deve moltissimo al lavoro di chi lo ha costruito, che ha raccolto la testimonianza di questo furfante geniale ed ingenuo al tempo stesso, e che ha evidenziato con implacabile puntiglio le contraddizioni in cui il sistema cade quando si confronta con questo tipo di crimini, la cui caratteristica principale è data dall’illegalità di determinati prodotti, e dal mercato illegale che di conseguenza si genera. Porter non giudica, ci racconta come solo un giornalista vero sa fare, racconta come uno che ama raccontare.

    Nell’occasione della pubblicazione dell’edizione italiana, ho voluto rivolgere all’autore alcune domande, e di seguito le riporto con le sue graditissime risposte.

    Grazie a lui, e a tutti quelli che amano raccontare, e a chi ascolta i racconti.

    Marco Porsia: Perché questo libro? Voglio dire, quale è stata la ragione, al tempo del suo concepimento e della sua realizzazione, che l’ha spinta a scrivere la storia di quest’uomo, di questo tipo d’uomo?

    Bruce Porter: Ciò che rendeva irresistibile il dover scrivere su George era la sua memoria rigogliosa unita all’impeccabile senso dell’umorismo. Poteva rievocare eventi minuziosamente e in technicolor così da coprire tutti i cinquant’anni di cui ho scritto, da quando era un ragazzino a Weymouth, Massachussets, fino al suo crollo a Fort Lauderdale. Ci vollero due anni per scrivere il libro, e viaggiammo insieme, dal Messico alla Florida, dalla California a Cape Cod, mangiando, dormendo, bevendo, ogni tanto litigando, mentre vivevamo la sua vita a ritroso. Dapprima ero scettico, perché la maggior parte di queste storie-verità sul mondo della droga sono piene di buoni propositi al contrario e di bugie autoincensanti. Come ogni narratore affascinante, George non si sottraeva a queste dinamiche. Io, da reporter, ho cercato di verificare al meglio ogni racconto da lui riferito con i partecipanti originali, e noi due siamo spesso tornati sui luoghi in cui le cose sono accadute, sebbene, a scanso di rischi, egli abbia rifiutato di tornare con me in Colombia. Se la fonte confermava i suoi racconti io li usavo, altrimenti li gettavo via.

    MP: Sono decisamente contro ogni tipo di proibizione, e da questo punto di vista ho inteso che uno degli argomenti principali che risultano dal suo libro è il fatto che gli spacciatori di droga, come Boston George, scelgono questo mercato rischioso e pericoloso perché i profitti sono incredibilmente alti, più alti di qualunque altro tipo profitti in qualunque altro mercato. Ed è una chiara conseguenza della natura proibita dei beni coinvolti nel mercato, vale a dire le droghe. Perché lo stato, sia l’apparato legale che i politici, sembravano, almeno per un lunghissimo periodo, non in grado di comprendere questa semplice evidenza?

    BP: Legalizzare o non legalizzare, questa questione è stata masticata dai riformatori per così tanti anni che, francamente, mi è venuta a noia. Non vi sono argomenti, da entrambe le parti, che non abbiamo ascoltato almeno un migliaio di volte. Ci è voluto talmente tanto tempo per ammorbidire l’opinione pubblica così che accettasse la parziale legalizzazione della marijuana, figurarsi per fare lo stesso per la roba pesante. Questo non accadrà mai, perché nessun politico vede l’opportunità di muoversi su di un terreno generalmente impopolare. La gente negli Stati Uniti associa le droghe con i criminali e i farabutti, che alla gente non piacciono. Così, perché i politici dovrebbero sprecare il loro tempo per cercare di legalizzare l’eroina, la cocaina, le metamfetamine e tutti gli antidolorifici quando la gente potrebbe ringraziarli votando per qualcun altro? Un’altra ragione è la risposta cinica che la legalizzazione non è negli interessi della struttura di polizia, che trae una considerevole porzione del proprio bilancio operativo dal perseguimento della guerra alle droghe. Una risposta anche più cinica, che non è politicamente corretta ma che ho il piacere di propagare, è che lo spaccio di droga, almeno quello fatto per strada, è un modo per garantire un reddito a elementi criminali di bassa lega che altrimenti sarebbero dediti alla rapina e all’aggressione dei cittadini rispettosi della legge, cosa che rappresenta una vera piaga nelle città degli Stati Uniti. E rigetto l’obiezione secondo cui il fornire un piccolo reddito a questi ragazzi di strada causi un qualche danno ai loro clienti tossicodipendenti, giacché se certe categorie di droghe non fossero disponibili, essi si rivolgerebbero ad altre attività autodistruttive. Come dice la battuta è nella loro natura.

    MP: Le piace il film Blow? Personalmente, dopo aver letto il suo libro, ho trovato la pellicola un poco superficiale a quanto risulta dal libro stesso. Chiaramente un film non può mostrare tutti gli aspetti di una ricerca approfondita e di una analisi significativa, ma alla fine lo considero un buon prodotto da botteghino, e tuttavia sembra una buona occasione parzialmente persa.

    BP: Mi è piaciuto il film, ma mi è piaciuto per quello che era; non si trattava di moralizzare circa il problema della droga, ma piuttosto di raccontare una storia. Ho scritto il libro come una sorta di Tom Sawyer entra nel mercato della cocaina. Se vuoi un film serio sulla droga ti raccomando Traffic, con Michael Douglas come protagonista. Quello è per adulti, mentre Blow è per ragazzi, ed è difficile che entrambe le visioni siano comprese nello stesso film.

    MP: Quale è a suo avviso il ruolo dei mezzi di comunicazione oggi, e il ruolo dei giornalisti, degli scrittori, degli editori in questo secolo? La comunicazione è breve, rapida, e svanisce al solo sguardo. Ha ancora senso scrivere libri, pubblicare, leggere? Ritengo personalmente che abbia senso, ma sento anche che troppa informazione possa essere equivalente a nessuna informazione. In nessuna epoca della nostra storia abbiamo avuto a disposizione una tale quantità di informazioni, dati e documenti, pronti per l’uso. A dispetto di tutto ciò, sembra che la gente abbia perduto la sua sete di conoscenza.

    BP: Sono completamente d’accordo con te. Troppa informazione è come nessuna informazione, e mette le menti semplici nelle grinfie dei ciarlatani e dei sociopatici della comunicazione.

    MP: Oggi, su quale argomento lei può pensare che debba essere scritto un libro?

    BP: Sono troppo vecchio per fare ancora del giornalismo serio. Libri come Blow, e quello successivo Snatched, la storia di un rapimento che è stata trasposta in film dalla produzione di Leonardo DiCaprio, con il titolo di Going back to Cali, hanno avuto bisogno di un’incredibile quantità di tempo, energia e perseveranza, tutte cose che sembrano scorrere via come parte del processo di invecchiamento. Più facile è scrivere di qualcosa che non richiede vero giornalismo, ossia qualcosa su di me, e quattro eventi della mia vita che sono convinto otterranno l’interesse dei lettori così come ha fatto Blow. Il titolo provvisorio è B-b-bombs Away!

    PREFAZIONE

    Se avessimo preso il miglior romanziere del mondo e gli avessimo chiesto di inventarsi la storia più incredibile e avvincente che la sua immaginazione fosse in grado di concepire nel contesto della contro-cultura e delle droghe, non si sarebbe neppure minimamente avvicinato alla vita inverosimile e pazzesca di Boston George.

    Una vita estrema, furiosa, così intensa e fluttuante da rendere monotona qualsiasi biografia del più impavido domatore di leoni mai esistito.

    George ha vissuto ogni secondo della sua esistenza col cuore in gola, guidando al limite, senza mai mollare il piede dall’acceleratore, coi fari spenti nella notte. È come se si fosse lanciato da un aereo senza paracadute o avesse scalato una parete di roccia completamente slegato, uscendone non illeso ma comunque vivo.

    In questo libro al cardiopalma, il suo volo libero viene raccontato nei particolari, dandogli una credibilità che solo lui avrebbe potuto erigere, grazie alla quantità di dettagli, testimonianze e meticolose ricostruzioni raccolte e messe insieme in maniera esemplare da Bruce Porter.

    E a noi comuni mortali non resta che perderci in superficiali considerazioni tra ciò che è giusto e sbagliato, tra i limiti dell’etica e della morale o peggio, della legge.

    Oppure in alternativa, possiamo provare a sederci al suo fianco, a bordo di quell’auto lanciata a massima velocità, lasciandoci travolgere dall’energia, l’entusiasmo e la splendida follia di un uomo che è stato tanto avventato quanto talentuoso.

    Ho parlato con George una volta sola, al telefono, alcuni anni fa. Ci siamo scambiati un paio battute veloci, ricordo bene la sua voce roca e graffiata, con la quale mi disse so che anche in Italia state combattendo per la legalizzazione della Cannabis: bravi non mollate, resistiamo, un giorno vinceremo noi.

    George Jung è stato, è e sempre sarà un indomito ribelle, un cavallo pazzo, uno spirito libero. Questo è ciò che traspare dalle pagine che leggerete, pagine pregne di sangue, sudore e lacrime. Pagine rock!

    Fanculo i perbenisti, i bigotti e tutti coloro che sentono costantemente il bisogno di giudicare: in un sistema che ci vuole sempre più omologati e timorosi, Boston George è una botta di vita, pura come la migliore bamba colombiana.

    Matteo Gracis

    Una nota sulle fonti

    Questa è una storia vera. Ho ricostruito gli eventi e le conversazioni attraverso interviste con i testimoni e i protagonisti, i cui nomi compaiono nella sezione ringraziamenti in fondo al libro. Ho anche attinto alla grande mole di materiale delle fonti giudiziarie, incluse le indagini della polizia, i rinvii a giudizio, i patteggiamenti e i processi di George Jung, Carlos Lehder, Barry Kane e Richard Barile.

    In molti punti ho cambiato i nomi dei protagonisti, se il loro coinvolgimento in qualche aspetto del traffico di stupefacenti era sfuggito all’attenzione delle autorità e dei media. In quei casi, mi riferisco a loro solo con il nome proprio.

    Non è facile come pensate, amici… Con cinquemila dollari siete contenti. Ma fidatevi: se poi trovate qualcos’altro non vi tirate indietro; nemmeno la minaccia di una morte atroce è in grado di dissuadervi dal voler farne altri diecimila. E se arrivate a cinquanta volete che siano cento, per sistemarvi a vita. Quando finalmente ne avete centocinquanta ne volete duecento, proprio per essere sicuri, assolutamente sicuri, che qualsiasi cosa accada sarete a posto.

    B. Traven, The treasure of Sierra Madre

    Prologo

    1974

    Se siete da poco in carcere o se siete stati appena condannati, probabilmente questa per voi sarà un’esperienza del tutto nuova.

    Dal libretto di informazioni per i carcerati

    dell’Istituto Federale di detenzione di Danbury, Connecticut

    I quattrocento metri che portano alla prigione di Danbury sembrano più il viale d’ingresso di un resort esclusivo per intellettuali che l’accesso a una struttura federale per detenuti. Abeti rossi imponenti e olmi ombreggiano la strada a partire dall’incrocio con la Statale. In lontananza, un uomo sul trattore falcia il prato, mettendo in evidenza il dolce profilo scosceso della collina. Anche quando fanno capolino il serbatoio idrico e l’edificio di cemento bianco, l’aspetto di quel luogo ha ben poco di sinistro. Progettata in stile Art Deco fine anni ’30, con angoli arrotondati e linee verticali forti al centro, la prigione non ha torri di guardia o fari puntati dall’alto, non ha muri o filo spinato intorno al perimetro. All’interno, gli uomini non vivono dietro a sbarre d’acciaio, nelle cellette impilate una sull’altra che conoscete dai film carcerari, ma in stanze private di due metri per tre, ognuna adiacente a una sala comune o al balcone del secondo piano. Invece delle sbarre hanno porte vere, e vera privacy. Ogni stanza ha una scrivania proprio sotto alla finestra, così il carcerato può scrivere le sue lettere mentre ammira la campagna del Connecticut. Se consideriamo che è un posto in cui si trascorrono molti anni, le camere possono sembrare opprimenti, ma qualsiasi matricola di un collegio del New England non le troverebbe particolarmente spartane.

    George Jung venne mandato da New York a Danbury dal Federal Bureau of Prisons nell’aprile del 1974, insieme a una dozzina di altri carcerati provenienti da tutto il Nordest. Contemporaneamente, quella primavera, Saigon era assediata dai Viet Cong. Patty Hearst si era alleata con i suoi rapitori, i membri dell’Esercito di Liberazione Simbionese, e li aveva aiutati a rapinare una banca. Il presidente Nixon si rifiutava di dimettersi, perché avrebbe indebolito la posizione dei presidenti futuri. Quando George arrivò a Danbury aveva trentun anni. Aveva disordinati capelli biondo miele ed era alto un metro e ottanta, le spalle larghe e muscolose e il petto ampio. Aveva lavorato molto sul fisico fin da adolescente, sollevando pesi nella sua cameretta per poter entrare nella squadra di football una volta iscritto alle superiori. Il cognome Jung non veniva da qualche antenato cinese, come la maggior parte della gente dava per scontato prima di incontrarlo di persona: era olandese, e da pronunciare con la J dura. E in effetti, con quei capelli cinque centimetri più lunghi del taglio reso celebre dai Beatles, somigliava molto al famoso ragazzo olandese con la latta di vernice. Suo nonno, Frederick Jung, un fabbricante di sigari, era emigrato da Amsterdam nel 1903 e aveva lavorato per la J. A. Cigar Company di Boston. Suo padre – che anche lui si chiamava Frederick ma che veniva soprannominato Fritz dai suoi tantissimi amici – per molti anni aveva avuto un’impresa indipendente, con contratti di fornitura per diversi condomini di Boston. George era cresciuto nella cittadina costiera di Weymouth, Massachusetts, circa trenta chilometri a sud di Boston, in una casa appena dietro l’angolo e poco più in alto rispetto alla Abigail Adams Homestead, luogo di nascita della donna che divenne la prima moglie del secondo presidente degli Stati Uniti, e madre del sesto.

    Gli eventi che avevano portato George a Danbury avevano avuto luogo un anno e mezzo prima, alla fine del settembre 1972, in un bar del Playboy Club di Chicago. In quel giorno fatale, George era stato stregato da una biondissima prostituta svedese che secondo lui era la sosia perfetta dell’attrice Britt Ekland. Mentre definiva gli ultimi dettagli dell’accordo che avrebbe portato quel succulento bocconcino in camera sua, gli si erano avvicinati due uomini in giacca e cravatta chiedendogli di uscire un momento. Venne fuori che erano agenti del Bureau dei Narcotici e delle Droghe Pericolose.

    Il motivo del loro interesse era che tre giorni prima George era arrivato alla Union Station da Los Angeles con due bauli, ciascuno contenente 150 chili di marijuana. George doveva consegnare la merce a un volenteroso giovanotto di Chicago motivato a dedicarsi a un’attività più lucrativa dell’impresa di riciclo di rottami di suo padre. L’uomo aveva acconsentito a pagare la merce 150 dollari al chilo, per un totale di 45 mila dollari: una somma non indifferente all’epoca, quando una Porsche nuova di zecca, che oggi costa circa 100 mila dollari, veniva venduta a 8-10 mila. Dal deposito bagagli della stazione George era riuscito, con due limousine, a far trasferire i bauli nel seminterrato del Playboy Club facendo intendere al proprietario che contenessero una grande quantità di attrezzature professionali, millantando di essere una figura di spicco nell’ambiente della fotografia di moda. Due giorni dopo il cliente si era presentato con un furgone e un aiutante, e i due avevano portato via l’erba. George a quel punto stava aspettando di ricevere i soldi al bar.

    Il cuore del lavoro di George nel business della droga consisteva nell’acquistare tre o quattrocento chili d’erba ogni mese circa da piccoli coltivatori della Sierra Madre, in Messico, trasportarli in volo fino al deserto della California del Sud, e poi caricarli su un furgone Winnebago preso a nolo per portarli a Est e venderli ai distributori di Amherst, Massachusetts, sede di quattro università private e di un’importante università pubblica che, complessivamente, contavano su un esercito di circa trentamila studenti affamati di erba. Dal 1968 George si era guadagnato da vivere discretamente bene, in questo modo, e aveva anche imparato a conoscere una buona fetta di America. Sperava di aggiungere la piazza calda di Chicago al suo giro.

    L’accordo sarebbe andato liscio se solo il potenziale cliente di George tre settimane prima non avesse provato a vendere dell’eroina a un poliziotto sotto copertura. Spinto da immagini poco allettanti di se stesso dietro le sbarre, aveva accettato di tenere informate le autorità su quell’acquisto in cambio di un occhio di riguardo in tribunale. Da qui l’apparizione dei due agenti federali in quella che per George si sarebbe rivelata una notte importantissima. In realtà quasi si scusarono, mentre lo arrestavano. Erano i trafficanti di eroina che volevano prendere, non gli spacciatori d’erba. La marijuana, all’epoca, era così diffusa da essere quasi al livello dell’alcol e del tabacco – tra le droghe d’elezione degli Stati Uniti – e qualcuno nel governo federale cominciava a insistere perché fosse combattuta in modo un po’ meno isterico. Un’indagine del presidente della task force per l’abuso di droghe del Consiglio di Politica Interna stimava che tra i 25 e i 30 milioni di americani maggiori di 12 anni – circa il 20% della popolazione – avessero fumato erba. E se si discuteva su come impiegare il tempo degli agenti di polizia, l’erba aveva una priorità molto bassa: quinta dietro all’eroina, le amfetamine, i barbiturici e la cocaina. Se è per questo, nemmeno la cocaina creava chissà quale fermento. Mentre le prime tre erano considerate pericolose perché portavano a una forte dipendenza sia psicologica che fisica e perché avevano gravi effetti collaterali, l’erba e la coca rispetto a questi parametri si piazzavano molto più in basso.

    Il dibattito in corso, ovviamente, non ebbe grande influenza sulla situazione di George; ma lui in soli quattro anni come fuorilegge professionista nel settore della droga si era già reso conto che nel sistema giudiziario raramente si rimane in difficoltà a lungo, se si rispettano le regole base del gioco.

    Regola numero uno: sii scettico in generale nei confronti di qualsiasi consiglio dell’avvocato, del tipo difenderti strenuamente durante la causa e presentarti davanti agli uomini e alle donne della giuria. Gli avvocati in quel modo prendono soldi e tu prendi anni di galera, specialmente se ti hanno beccato con le mani nel sacco come nel caso di George. Perché non solo la giuria, senza dubbi o indugi, a quel punto ti taglierà le palle con una lama arrugginita e te le restituirà su un vassoio, ma il tutto ti costerà un sacco di soldi mal spesi.

    Regola numero due: dichiarati non colpevole alla citazione in giudizio e fatti tirare fuori su cauzione. Se necessario, puoi sempre cambiare la deposizione in seguito, se il tuo avvocato trova un punto d’incontro con l’accusa. Il procuratore distrettuale è un uomo impegnato e ti offrirà un accordo migliore rispetto a quello che otterrai andando a processo.

    Ma non devi preoccuparti minimamente di tutto questo perché, attenendoti alla regola numero tre, subito dopo la citazione in giudizio devi alzare i tacchi.

    Motivo per cui, due giorni dopo essersi dichiarato non colpevole del possesso di trecento chili di marijuana ai fini di spaccio, George si fece tirare fuori dalla galera di Cook County, salutò per sempre Chicago, si imbarcò su un volo per Los Angeles e tornò al lavoro, trasportando altri carichi oltre il confine. Decise, almeno per il momento, di abbandonare i sogni di espansione nel Centro-Ovest e di tornare a occuparsi dei vecchi clienti, che erano solidi e affidabili.

    Visto che però si era dato alla macchia dopo essere stato accusato di un reato federale, adesso aveva l’FBI alle calcagna, il che voleva dire che sarebbero state impiegate più risorse nella sua cattura rispetto a un reato di competenza statale, dal momento che gli Stati hanno meno mezzi per rintracciare le persone oltre il confine. Ma persino l’FBI doveva attenersi alle priorità imposte dal budget. Un latitante uscito su cauzione non è considerato una minaccia quanto, per dire, criminali evasi dalle prigioni federali o individui armati e pericolosi. Quindi lo sforzo per rintracciare George si limitava al mandare la sua scheda all’ufficio dell’FBI più vicino alla sua città natale e chiedere all’agente locale di tenere gli occhi aperti in caso si facesse vedere.

    "Di solito quando c’è un latitante si cerca di rintracciare la sua fidanzata; come si suol dire, Cherchez la femme, dice James J. Trout, che all’epoca era un giovane agente dell’FBI della Fugitive Squad di Boston. Trout lavorava per il Bureau da appena un anno e in quel momento aveva altri quaranta casi di latitanti da rintracciare. Trova la fidanzata e la maggior parte delle volte ti condurrà direttamente a lui. George non aveva una fidanzata; aveva una sorella, Marie, di quattro anni più grande, ma lei si era sposata un dottorando in Chimica di nome Otis Godfrey e si era trasferita in Indiana, dove Otis era diventato un astro nascente del comparto di ricerca della Eli Lilly & Co. La coppia viveva alla periferia di Greenwood, fuori da Indianapolis, in una casetta ordinata con gli alberi e il giardino. È ragionevole affermare che l’ultima cosa che desideravano fosse una visita di George il galeotto; non è qualcosa di cui andare fieri con i vicini. A Trout quindi non restava che raccogliere informazioni dai genitori di George, Ermine e Fred, che vivevano ancora nel Circolo", come veniva chiamata la zona di Weymouth intorno al luogo di nascita di Abigail Adams. Quindi di tanto in tanto faceva un salto da loro per sentire cosa avevano da dire, che di solito non era molto. Mentre Marie telefonava alla madre quasi ogni giorno, George non era un granché nel mantenere i contatti. In effetti i genitori non lo vedevano da quasi due anni, da prima del suo arresto a Chicago. Quindi quando Trout si fermava da loro per indagare sulla posizione del figlio, Fred ed Ermine lo trattavano con gentilezza, ci chiacchieravano e tutto, ma non erano di grande aiuto.

    Mi dispiaceva per loro, ed è quasi sempre così, ricorda Trout. Erano persone gentili. Sono sempre i genitori a pagare, sul lungo periodo. Finisce sui giornali, i vicini lo sanno, è un imbarazzo terribile.

    In realtà, ricorda Trout, la più loquace era la madre di George. Fred non aveva molto da dire, almeno non a lui. Quelle visite in effetti lo infastidivano e una volta chiamò persino un avvocato per cercare di impedire all’agente di fermarsi da loro, ma poi lasciò cadere la questione. Le litigate su loro figlio erano all’ordine del giorno per il signore e la signora Jung. L’interrogativo su quanto avrebbero o non avrebbero dovuto aiutare la polizia a catturarlo aveva aperto un altro capitolo spiacevole. Fred aveva anche brontolato qualcosa a George sulle visite dell’FBI, durante una delle rare telefonate che il figlio faceva dalla West Coast. Fu così che George venne a sapere che Trout era stato al piano di sopra, a frugare nella sua vecchia camera, dove aveva sollevato pesi e curato l’acquario, e dove ancora sul muro erano incollati i ritagli del Patriot Ledger di Quincy che raccontavano le sue gesta come attaccante della squadra della scuola. In quella stanza, sotto agli occhi di Trout, c’era anche una fotografia di George scattata in Messico, con un ampio cappello da cowboy calato sugli occhi, un lungo sigaro stretto in bocca, una cartucciera incrociata appesa sul petto, un pistolone alla cintura e una bottiglia di tequila in pugno. Sembrava decisamente un cattivo hombre.

    Nel novembre 1973, poco più di un anno dopo l’arresto al Playboy Club, George andò a Boston a incontrare un suo contatto di Amherst per definire un accordo che avrebbe incrementato di molto il suo giro d’affari. L’uomo lo aveva avvicinato l’estate precedente e gli aveva detto di conoscere dei tizi con un Cessna a due motori che cercavano qualcuno con dei contatti in Messico per garantirsi un rifornimento continuo di marijuana. Avrebbero poi gestito loro i dettagli del trasporto negli Stati Uniti e della distribuzione; George doveva solo occuparsi dei messicani e caricare i voli. Una proposta che sembrava quasi troppo bella per essere vera. E tenendo conto del volume di affari di cui si stava parlando, pareva che l’operazione gli avrebbe fruttato cifre nell’ordine di grandezza di un milione all’anno, dieci volte quello che guadagnava ai tempi. Euforico per queste nuove prospettive, e rendendosi conto che sarebbe dovuto rimanere all’estero per un lungo periodo, George aveva deciso di guidare fino a Weymouth per andare a fare una visita veloce ai genitori.

    Sapeva bene che si trattava di un rischio, quindi non disse a nessuno dove stava andando. Non aveva avvisato nemmeno loro del suo arrivo. Era un sabato sera molto buio, subito dopo il giorno del Ringraziamento, quando, intorno alle otto, parcheggiò l’auto a noleggio nel parco accanto alla Weymouth Community Church, poco più in basso rispetto a casa dei suoi. Tagliò a piedi attraversando la fitta pineta che il signor Stennes, l’orologiaio locale, aveva piantato alla fine degli anni ’50 per arrotondare vendendo alberi di Natale (un piano naufragato bruscamente qualche anno dopo il diploma di George, quando il vecchio Stennes sparò alla moglie e la uccise accidentalmente, scambiandola per un intruso).

    Guidato dalla luce fioca della luna nuova, George si fece strada tra gli alberi, avvicinandosi alla casa dal cortile sul retro, e bussò alla porta della cucina, che si apriva su un corridoio diretto al garage. Faceva freddo. Fu suo padre ad aprirgli, un uomo basso e stempiato, con pantaloni cachi e una camicia di flanella che indossava sempre; la tipica tenuta di papà, come la chiamava George. Dall’ictus che aveva avuto quindici anni prima, Fred piangeva con facilità per le cose che nella vita lo deludevano: principalmente per il figlio. E in quel momento, vedendolo là in piedi, gli uscirono le lacrime. Poi arrivò anche Ermine alla porta, più scioccata che felice, pareva a George: rimase nervosa per tutto l’incontro. Suo padre lo portò in salotto e i due incominciarono a chiacchierare davanti a una bottiglia di Scotch. Fred gli chiese come andavano le cose. George gli raccontò qualcosa della California, e di quanto fosse facile la vita laggiù. Ermine continuava ad andare e venire dalla camera da letto del piano di sopra.

    L’agente speciale Trout ricorda che la telefonata arrivò appena prima delle dieci. Solo una voce che diceva: In questo momento è a casa a Weymouth. Convocando rapidamente altri due agenti a dare una mano, Trout guidò la mezz’ora che serviva per arrivare e accostò dall’altra parte della strada. Uno degli agenti andò a controllare l’uscita posteriore. Trout e il suo partner si avviarono sul vialetto e guardarono dalla finestra del soggiorno. Individuarono subito George seduto sul divano. Trout incominciò a bussare sulla porta esterna, annunciando a gran voce che era dell’FBI e intimando di aprire. Vide George scattare in piedi e sparire. Urlò più forte e batté più forte, così forte che il vetro della porta andò in frantumi proprio mentre Fred stava aprendo quella interna.

    È finita che mi sono fatto un brutto taglio sulla mano, racconta Trout. E appena entrati, prima ancora di iniziare a perquisire l’abitazione, la madre ha insistito per mettermi una benda e fermare il sangue.

    George aveva capito cosa stava succedendo dal primo colpo alla porta e istintivamente era corso di sopra in camera sua, sperando di riuscire a fare un numero alla Huckleberry Finn e saltare dalla finestra al tetto del garage, calandosi a terra come faceva da ragazzino per poi scappare. Rivolse un pensiero fugace anche alla sua vecchia doppietta calibro 10, ancora nascosto tra le travi, che usava per spaventare le anatre nell’acquitrino dietro casa. Probabilmente i proiettili erano ancora nel cassetto. All’improvviso suo padre lo chiamò dalle scale: George, questa è casa mia e di tua madre, e se stai facendo quello che credo farai meglio a fermarti subito. Alla fine George si rannicchiò semplicemente dietro all’armadio, stringendosi in un’apertura dell’intercapedine che da bambino usava per giocare. Ben presto sentì i passi su per le scale. La testa di Trout fece capolino nella stanza; gli chiese di uscire: Non serve che qualcuno si faccia male.

    Dal momento che nessuno conosceva i suoi programmi per quella sera, che era entrato in casa dal retro e i vicini non potevano averlo visto, e considerato il suo atteggiamento sospetto mentre erano insieme, George è rimasto convinto che sia stata la madre a fare la soffiata. Poteva aver telefonato direttamente a Trout, o aver mandato un segnale prestabilito a qualcun altro perché facesse la chiamata. Se era vera la seconda ipotesi, George sospettava che questo qualcun altro potesse essere il fratello di suo padre, zio George Jung di Melrose. Comandante della Marina in pensione e suo omonimo, era il patriarca e il benefattore della famiglia. Per tante ragioni non aveva grande stima del nipote e lo aveva trattato con malcelato disprezzo sin da quando era ragazzino. George non ha mai voluto avere un confronto con sua madre a questo proposito. Trout dice che la voce al telefono, quella sera, apparteneva a un uomo: Non è stata la madre, sostiene. Non direttamente, no.

    Dopo essere passato dall’accoglienza era stato messo a sedere da solo in una cella provvisoria per circa un’ora, a masticare un sandwich stantio al prosciutto, senza maionese. Poi Wong, un fiduciario di Chinatown che stava scontando parecchi anni per eroina, lo aveva accompagnato in un box doccia, lavato e ricoperto dalla testa ai piedi di lozione anti-pidocchi. Dal magazzino gli aveva procurato un rasoio di plastica, uno spazzolino e un asciugamano, oltre a un set di divise da carcerato che consistevano in uniformi color cachi di seconda mano della Marina militare. Le scarpe erano di due misure più grandi, anni luce di distanza rispetto alla comodità e alla morbidezza delle sue Bruno Magli da cinquecento dollari, e alla prima occasione le aveva sostituite con un paio di scarpe da tennis.

    Il giorno seguente, portandosi dietro sacco a pelo ed effetti personali in un sacchetto di plastica, era stato spostato alla Massachusetts House, un ampio dormitorio con file di cuccette a castello. Qui i nuovi carcerati trascorrevano un paio di settimane ad aggiornarsi su quello che li aspettava dalla vita in galera.

    George aveva scaricato la sua roba su un letto libero in basso e si era seduto per valutare la situazione. La stanza ospitava circa un centinaio di uomini; alcuni dormivano, altri giocavano a carte, leggevano o chiacchieravano a gruppi, oppure guardavano la TV in una stanza separata. I Latino se ne stavano per i fatti loro, come al solito, impegnati a giocare a domino. Quel passatempo irritava profondamente tutti gli altri ospiti, perché erano capaci di andare avanti senza sosta tutto il giorno, fino all’ora di dormire, sbattendo giù i pezzi con colpi secchi e accompagnando la partita con urla e schiamazzi continui.

    Circa un’ora dopo entrò un nuovo detenuto. Era arrivato lo stesso giorno ma su un bus diverso e aveva passato la notte in una cella di un altro piano. Era basso, poco meno di un metro e settanta, e dimostrava circa venticinque anni. Latino, la barba ben rasata, molto bello, sensuale. Colpì George per un paio di motivi. Primo, quando si avvicinò alla cuccetta accanto alla sua per chiedere se fosse libera, si rivolse a lui in modo educato e formale, come se si stesse presentando a una cena di gala. Come va?, chiese con un leggero accento inglese. Io sono Carlos Lehder. Disse che viveva a New York ma che la sua vera casa era in Colombia. Carlos sembrava stranamente aperto e loquace, non trasudava affatto la diffidenza che in genere i carcerati provano automaticamente quando si trovano in un ambiente poco familiare. Di solito all’inizio cerchi di essere prudente, nell’attaccare bottone, racconta George. Non sai chi è chi o che sta succedendo. In galera è meglio starsene un po’ da parte, e pensarci bene prima di dire qualsiasi cosa.

    I modi amichevoli di Carlos lo spinsero ad entrare subito in confidenza. George si ritrovò ben presto a raccontargli perché era stato mandato a Danbury e tutta la storia dei contadini sulle colline del Messico, del deserto californiano, di Amherst e dei ragazzi dell’Università. Carlos rispose che anche lui era in prigione per possesso di marijuana, seppure nulla di paragonabile al volume del traffico di George. Inoltre lo avevano accusato di aver cercato di portare un’auto rubata oltre il confine da Detroit a Windsor, Ontario, da dove contava di farla spedire a casa, in Colombia.

    I due passarono l’ora successiva, fino alla chiamata per la cena, a chiacchierare animatamente delle rispettive esperienze nel commercio di marijuana, e a ipotizzare qualche vago progetto per quando sarebbero usciti. George era arrivato a Danbury con un solo pensiero: tornare in affari appena rimesso in libertà. Nella sua testa, quel business aveva incominciato a rappresentare qualcosa di più del mero ritorno economico: i soldi, la droga, le Porsche, le donne. Trovarsi faccia a faccia con un pericolo fisico, spesso di grave entità, ingannare il sistema, sconfiggere la legalità, affrontare il terrore che provava ogni volta che atterrava nel deserto o che rischiava di essere preso: la sua autostima ormai era saldamente ancorata a questi successi. Era il traffico stesso ad essere diventato una droga, un’attività terapeutica che scandiva le sue giornate. Se non aveva un carico da trasportare, un programma, delle scadenze, si sentiva a pezzi e disperato come un alcolizzato separato dalla bottiglia. I trafficanti di stupefacenti, come George amava ripetere, non dovrebbero essere mandati in carcere ma in qualche centro di riprogrammazione per trasformare il cervello e liberarli dalla loro ossessione. L’idea di usare la prigione come opportunità per pagare il suo debito nei confronti della società e rigare dritto una volta uscito non gli era mai passata per la mente. Vedeva anzi Danbury come un’occasione per incrementare in qualche modo l’impresa criminale che era diventata la sua vita. Volevo disperatamente ricavare dei risultati dalla mia permanenza laggiù, portarmi dietro qualcosa in più, racconta. Cercavo l’occasione giusta, non volevo passare là tutto quel tempo e tornare indietro a mani vuote.

    Fu proprio allora, mentre facevano la fila per entrare in mensa a Danbury, che Carlos gli lanciò uno sguardo e disse: George, tu sai niente della cocaina?.

    A metà degli anni ’70 non esisteva ancora il cartello della cocaina di Medellín. All’epoca sarebbe stato un pensiero assurdo ipotizzare che una manciata di ladruncoli e imbroglioni di una cittadina dispersa nelle Ande che pochi americani avevano sentito nominare avrebbero messo su un’operazione pronta a fiorire nell’impero criminale più remunerativo, selvaggio e letale del mondo; responsabile solo in Colombia dell’omicidio di cinquanta giudici, inclusi undici della Corte Suprema, di dodici giornalisti, incluso l’editor di El Espectador di Bogotá, del procuratore generale, della figlia del Presidente, del capo nazionale della Narcotici, di centinaia di agenti di polizia e innumerevoli civili. Negli Stati Uniti, negli anni Settanta, la guerra della droga era una questione politica con l’obiettivo di sradicare l’eroina, i cui danni, per quanto molto gravi, erano limitati principalmente alle periferie delle grandi città e non permeavano la società. Il crack non esisteva neppure. E per quanto riguarda la cocaina, nel report al Presidente del 1975 da parte della task force per l’abuso di droghe del Consiglio di Politica Interna il rischio di problemi legati a quella sostanza era ritenuto basso. Si diceva inoltre che per l’uso che se ne fa oggi la cocaina non provoca conseguenze sociali preoccupanti come un aumento nel tasso di criminalità, negli ingressi al pronto soccorso o nei decessi. La richiesta della droga, letargica dopo i giorni di gloria di inizio secolo e dei ruggenti anni Venti, proveniva da un’esigua fetta della popolazione: rockstar, esponenti della Pop Art, luminari di Hollywood e membri della Café Society dell’Upper East Side di Manhattan. Arrivava nel paese in piccole quantità, spesso meno di un chilo per volta, inserita nell’orifizio anale di un mulo diretto all’aeroporto internazionale di Miami o nascosta in qualche borsa a bordo di navi mercantili della tratta da Barranquilla, in Colombia, a New Orleans o Houston. Nel 1974 il governo aveva confiscato poco più di 400 chili.

    Nessuno poteva prevedere che ben presto la cocaina sarebbe arrivata in quantità così ingenti da dover essere trasportata in borsoni da palestra e spedita da un posto all’altro in camion: 125 tonnellate all’anno, intorno al 1985, secondo un calcolo fatto dal procuratore distrettuale di Manhattan Robert Morgenthau. O che il giro di soldi generato dallo spaccio – tutto in contanti, niente rate, assegni,

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1