Fake Revolution
Di Eros Robba
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Anteprima del libro
Fake Revolution - Eros Robba
633/1941.
Prefazione
di Alessandro Nardone
Se il pensiero distorce il linguaggio,
anche il linguaggio è in grado di distorcere il pensiero
George Orwell
Sì, IL FINTO CANDIDATO SONO IO, e tutto quello che sto per svelarvi sul fenomeno delle notizie false è drammaticamente vero. D’altra parte chi, meglio di me, può parlarvene? Ve lo dico io, nessuno. Il perché lo scoprirete leggendo Fake Revolution, in cui Eros Robba vi racconterà con dovizia di particolari la mia case history nei panni del candidato alla Casa Bianca Alex Anderson e, attraverso di essa, molte delle lacune del sistema dei media mainstream che ormai quotidianamente inciampano su quello che dovrebbe essere l’elemento cardine dell’informazione: la verifica dei fatti. Ma prima di addentrarci nella questione, è mia intenzione raccontarvi un’altra cosa sul testo che state per leggere, e cioè che prima di diventare il libro che avete tra le mani è stato la tesi con cui Eros si è laureato in Comunicazione e Società presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica di Milano. Voto: 110 e lode.
Sono certo che comprenderete quanto il successo di Eros mi renda fiero, primo per la soddisfazione di veder riconosciute le sue grandi qualità e poi perché in questo caso dietro al fake non si nascondeva un manipolo di fantomatici hacker russi, ma solo io che, con l’imprescindibile supporto di mia moglie Irene e di nostra figlia Vittoria Amelia, decisi d’investire un anno di lavoro nella campagna elettorale del protagonista del mio ultimo romanzo. Un’idea folle, me ne rendo perfettamente conto, ma le cui implicazioni che si sono via via dipanate all’orizzonte di questo mio lungo girovagare nei meandri di quella che poi - non certo a caso - si è configurata come la campagna elettorale più pazza della storia degli Stati Uniti, mi hanno consentito di vivere in prima persona un’esperienza unica, sotto svariati punti di vista: il rapporto quotidiano e diretto con decine di migliaia di elettori americani, che mi consentì di comprendere come il vento stesse soffiando nelle vele di Trump mentre la quasi totalità dei commentatori spergiurava sulla vittoria di Hillary Clinton; la battaglia combattuta al fianco di Edward Snowden in difesa della privacy contro le intercettazioni di massa della National Security Agency che, all’inizio, procurò ad Alex non pochi contestatori tra le fila repubblicane ma che, con il trascorrere delle settimane, si rivelò come una visione anticipatrice di quella che potremmo definire la convergenza parallela tra due mondi apparentemente molto distanti, ma uniti nel rigettare l’ipotesi che la Clinton protagonista dell’Emailgate potesse arrivare alla Casa Bianca; il vero e proprio viaggio nella tana del Bianconiglio nel corso del quale ho potuto vedere con i miei occhi come gli staff dei due contendenti abbiano effettivamente operato sia sul web che nelle piazze e, contestualmente, come in molti casi i media più che informare gli elettori intendessero influenzarne le intenzioni di voto.
È proprio da qui che occorre partire per affrontare, sia pur in maniera estremamente sintetica, la questione delle fake news, un fenomeno talmente forte da riuscire nell’impresa di irrompere nel provincialissimo dibattito politico italiano, che ormai da decenni ha derubricato la politica estera a inutile esercizio di stile, il confino ove spedire i politici da tenere lontani dalle ben più importanti beghe di casa nostra. Per cominciare vi chiederò di seguirmi in un balzo all’indietro nel tempo, precisamente nel 1833, ovvero quando un giovanissimo Bejamin Day¹ cambiò per sempre le prospettive del giornalismo lanciando il New York Sun. Credo che ora vi stiate domandando cosa fece di così sensazionale. Anzitutto Day partì da un presupposto completamente diverso rispetto a quello adottato sino ad allora dalla concorrenza: la fonte di guadagno non doveva più essere il prezzo di copertina del giornale, ma la vendita di spazi pubblicitari sullo stesso. Una volta stabilito questo concetto di partenza, Day dovette pensare a come rendere la sua nuova testata più appetibile per gli inserzionisti rispetto al New York Times, ragionamento da cui scaturì la sua seconda geniale intuizione: l’elemento su cui avrebbe fondato la sua azione sarebbe stato la diffusione. Il suo giornale doveva essere distribuito praticamente ovunque, in ogni angolo della città. Così decise che il New York Sun non soltanto sarebbe costato appena 1 penny contro i 6 della concorrenza, ma assunse disoccupati come venditori ambulanti dando vita al fenomeno che venne poi ribattezzato Penny Press². Prima di chiunque altro, e a soli 23 anni, Benjamin Day comprese che il vero valore da monetizzare non era il giornale in sé, ma l’attenzione di un numero indefinito di persone che quell’insieme di notizie era in grado di catturare. Volendo semplificare ulteriormente il concetto, i suoi lettori erano convinti di essere suoi clienti, mentre invece erano il suo prodotto.
Avete capito bene: oggi come allora per il sistema dell’informazione noi siamo la merce, che viene conquistata quotidianamente attraverso la nostra attenzione. A questo proposito, non è certamente un caso che si parli di profilazione degli utenti. Ma questo concetto lo approfondiremo tra poco. Prima, per tracciare ancora meglio i contorni dello schema di cui tutti noi siamo vittime più o meno inconsapevoli, occorre addentarci in un terreno apparentemente diverso, ma che invece è il medesimo in cui affondano le radici i grandi paradossi dell’informazione del nostro tempo, fake news comprese: la propaganda. Nel corso della prima guerra mondiale il ministero dell’Informazione inglese mise in atto quella che molti riconoscono come la prima grande operazione di propaganda di stato, con un obiettivo ben preciso: indurre gli Stati Uniti a entrare in guerra. La strategia che venne messa in atto si basò principalmente sulla diffusione di notizie a volte anche totalmente false come, ad esempio, alcune presunte efferatezze commesse dai tedeschi. Fatto sta, però, che nel 1916 gli americani non ne volessero sapere di appoggiare un’azione militare, al punto che rielessero come presidente Woodrow Wilson proprio in funzione della sua linea anti-interventista. Tuttavia, dopo le elezioni egli cambiò idea, e per questo dovette concentrare non poche risorse al fine di creare le condizioni affinché gli americani accettassero un cambio di rotta tanto repentino. Anche in questo caso fu necessario mettere in moto la macchina della propaganda. Così, venne costituito il Comitato di informazione pubblica ³(meglio conosciuto come Commissione Creel), con l’obiettivo di mutare il comune sentire instillando in tempi relativamente brevi un sentimento di accettazione del conflitto che si sarebbe ben presto tramutato in una vera e propria adesione senza se e senza ma ai prodromi dell’entrata in guerra. I mezzi utilizzati furono moltissimi, a partire dalla divulgazione di notizie create ad hoc per surriscaldare gli animi, per arrivare a forme pubblicitarie poi entrate di diritto nella storia della comunicazione come nel caso del celebre manifesto raffigurante lo Zio Sam e lo slogan I want you
.
Figura chiave della Commissione Creel fu senz’altro Edward Louis Bernays, che riscosse un grandissimo successo pubblicando il libro intitolato Propaganda ⁴, che ancora oggi è un must-read per chi, come il sottoscritto, ha fatto della comunicazione il proprio mestiere. Dopo l’uscita del libro Bernays applicò i medesimi principi utilizzati nella prima guerra mondiale nella sua professione di consulente per grandi aziende. Quello che ai giorni nostri definiremmo guru della comunicazione o spin doctor. Tra tutte, l’impresa che lo rese davvero famoso risale alla fine degli anni Venti, quando riuscì nell’intento di far diventare la sigaretta un simbolo di emancipazione femminile. A quel tempo le donne non fumavano, e la Chesterfield gli diede mandato di convincerle. Per riuscirci, Bernays mise letteralmente la sigaretta in bocca a modelle, attrici, nonché alle leader dei movimenti femministi. Oggi diremmo che ha fatto product placement servendosi della visibilità di alcuni influencer. Nel suo libro Bernays spiegò senza alcun giro di parole il ruolo via via sempre più centrale assunto dalla propaganda nella società: «sempre di più la propaganda viene utilizzata perché è stata riconosciuta la sua efficacia nell’ottenere l’adesione delle masse. Perciò quando qualcuno – non importa chi – ha una sufficiente influenza, può trascinare con sé una parte della popolazione, almeno per un certo tempo e per un obiettivo preciso»⁵. Dunque, il concetto è che gran parte delle nostre azioni è figlia non della nostra, ma della volontà di qualcun altro, per fini politici o commerciali: «seduto in un ufficio un uomo