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Sui poeti 2
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E-book513 pagine6 ore

Sui poeti 2

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Info su questo ebook

"Una buona poesia è un contributo alla realtà. Il mondo non è più lo stesso dopo che una buona poesia gli si è aggiunta"(Dylan Thomas).

In questo ebook sono raccolte circa 130 recensioni che l'autrice ha pubblicato tra 1l 2010 e il 2020.

LinguaItaliano
Data di uscita23 ott 2020
ISBN9788831698764
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    Anteprima del libro

    Sui poeti 2 - Alida Airaghi

    633/1941.

    AAVV, JISEI. POESIE DELL’ADDIO – SE, MILANO 2017

    Curata da una delle nostre migliori orientaliste, Ornella Civardi – che scrive anche un’esauriente postfazione – questa antologia pubblicata dall’editrice milanese SE raccoglie più di mille anni di poesia giapponese, così come si è espressa nella forma del Jisei, cioè della brevissima composizione scritta, o dettata ai familiari e agli amici, poco prima di morire. Si tratta di addii, di malinconici commiati dall’esistenza, che nei secoli hanno creato una tradizione letteraria, esprimendo un canone formale scandito in una metrica rigorosa e basato su metafore ripetute.

    Troviamo infatti in questi versi l’utilizzo reiterato di immagini tratte da elementi atmosferici, dalla vegetazione o dal paesaggio, a indicare l’inevitabile distacco dalla vita, l’illanguidirsi della vitalità fisica, lo svanire dei ricordi: la rugiada, la nebbia, la neve, il succedersi delle stagioni sono i temi più presenti, sullo sfondo di montagne invernali, di placidi laghi o di mari sconfinati appena mossi dallo sciacquio delle onde; il cielo è terso e luminoso, pronto ad accogliere l’ultimo respiro del poeta accompagnato dal canto degli uccelli (il cuculo, in particolare, messaggero della notte e guida nell’aldilà); la luna, soprattutto se riflessa nell’acqua, illumina il buio con la sua benevola e tiepida luce; gli alberi perdono le foglie e i fiori, indicando il rassegnato trascorrere del tempo e la fugacità della bellezza.

    L’atmosfera che pervade le composizioni è di tranquilla accettazione del distacco, di rappacificazione col mondo dei viventi, di saggia ammissione dell’annullamento di sé: nessun furore eroico, o vibrata protesta contro il destino, o prometeica esaltazione del proprio passato. La maggior parte degli autori rappresentati sono monaci zen, e ovviamente il buddhismo (arrivato in Giappone dalla Cina nel VI secolo) ha improntato tutta la filosofia che sta alla base del jisei: la consapevolezza della transitorietà delle vicende umane, la certezza del Nulla da cui proveniamo e a cui siamo destinati, la gratitudine verso lo splendore della natura che ci circonda, la cognizione dell’essenza divina presente in tutte le creature.

    Di ognuno dei poeti antologizzati, Ornella Civardi offre brevi ragguagli biografici e un puntuale commento estetico, teso a inquadrare i versi nel periodo letterario cui appartengono, con le conseguenti eredità o innovazioni formali. Il volume si apre con la struggente lievità delle parole di una poetessa dell’ottavo secolo, Onono Komachi («Che malinconia / se penso alla fine, / il mio corpo / sopra i prati in rigoglio / sfumare in nebbia sottile…»), e si chiude con i jisei di famosi letterati novecenteschi (Akutagawa Ryūnosuke, Yosano Akiko, Dazai Osamu, Mishima Yukio), a testimonianza di una tradizione compositiva che si è mantenuta nei secoli, esattamente come la cerimonia del tè, il seppuku, il kimono ed altri fenomeni culturali della civiltà nipponica.

    L’insegnamento che anche un lettore occidentale (così tenacemente individualista e freneticamente pragmatico) può trarre da queste composizioni è senz’altro l’accettazione della propria finitudine, la convinzione di fare parte di un ciclo armonico di morte e rinascita universale, la consapevolezza umile del suo non essere indispensabile al mondo, il dovere di riconoscenza per quello che di bello ha potuto godere: «Tersi cieli di ghiaccio, / per la via che ho fatto a venire / me ne ritorno», «Nel momento / della fine comandata, / ogni fiore / di questo mondo sia fiore, / ogni uomo sia uomo», «A mani vuote sono venuto, / me ne vado a piedi nudi, / la partenza e l’arrivo confusi / in un unico sogno», «Anche se me ne vado / e lascio la casa sguarnita, / tu, susino mio / nel cortile, saprai da te / quand’è primavera», «Vecchio corpo mio, / gocciola di rugiada / troppo greve alla foglia», «Una frescura, / come l’inabissarsi fulmineo / del gabbiano».

    «Poesia» n. 329, settembre 2017

    AAVV, LE OPERE DELL’UOMO I FRUTTI DELLA TERRA – CROCETTI, MILANO 2015

    Un libro importante e raffinato, questo che Nicola Crocetti ha curato e pubblicato nel 2015, con presentazione di Jérôme Lambert (CEO Montblanc) e postfazione di Daniele Piccini. Il volume è stato ideato e prodotto in occasione dell’Expo di Milano, seguendo i contenuti tematici proposti all’interno del percorso espositivo del Padiglione Zero, ed è illustrato con immagini di incisioni rupestri provenienti dai maggiori siti archeologici mondiali. Si tratta di un’antologia di poesie, con testo originale a fronte, che hanno come tema principale le varie modalità con cui l’uomo si è procurato il cibo, utilizzando agricoltura, caccia, pesca e allevamento, a partire dall’Antico Egitto fino ai giorni nostri.

    I versi d’apertura, nel loro afflato di sacralità, sono tratti dall’Inno al Nilo, databile intorno al 2100 a.C. («Signore dei pesci, che conduci moltitudini di uccelli selvatici /… tu generi le messi di grano, porti l’orzo, assicurando vita eterna ai templi, / ma se in quella stagione non ti manifesti, / allora manca il respiro a tutto ciò che esiste»); quelli conclusivi sono stati scritti da due poeti brasiliani nel 1982, e lamentano le condizioni lavorative dei braccianti nelle piantagioni di caffè («Svegliati negro per sgranare il caffè. / Negro sono già le cinque / È ora di alzarsi /… Negro piange / Piange per conservare la sua fede»).

    Se gli antichi poemi indiani celebrano latte e miele come l’Esodo, il nostro Virgilio glorifica l’uva, le spighe, le greggi, rendendo grazie agli dei munifici, ai Fauni e alle Costellazioni. Ovidio e Ausonio decantano l’animato brulichio di vita nei mari e nei fiumi, elencando le varie specie di pesci che vi nuotano, e offrendo consigli ai pescatori («Fondali rocciosi, bada bene, richiedono / canne flessibili, ma lungo le spiagge tranquille / usa pure le reti»). I raccoglitori di riso in Cina già esibivano la proverbiale propensione asiatica alla tranquillità dell’anima e del corpo («Non è forse duro il lavoro dei contadini?... / Affaticare tutt’e quattro le membra equivale però ad ammalarsi. / Lavarsi e riposare sotto la gronda, slacciare il colletto / e rilassarsi con acquavite nel bicchiere»).

    Il persiano Abu Nuwas nell’800 d. C. esalta l’ubriachezza: «La vita dell’uomo sta in questo: una sfilza di sbornie; perché se anche è lunga, la vita, il tempo è pure breve. / Se sobrio tu mai mi vedessi, sarebbe l’imbroglio; se invece barcollo, già fradicio, è questo il guadagno».

    Gnocchi, zuppa, formaggio, salsicce e polpette sono glorificate da Teofilo Folengo in pieno Rinascimento; i poeti svizzeri cantano i pascoli montani, le mandrie pasciute, le stalle, la mungitura e il caglio nei secchi di ferro; gli inglesi dell’800 onorano eleganti scene di caccia («La vecchia volpe s’ingegna invano / Mentre segugi e corni la incalzano / Ora lascia il bosco per la pianura / Il corno ne suona l’avvistamento»).

    E il barbuto Walt Whitman? La sua ode al cibo è come sempre un peana glorioso rivolto all’America: «Parole esultanti, parole alle terre della Democrazia. / … Terra del carbone e del ferro! Terra dell’oro! Terra del cotone, dello zucchero, del riso! / Terra del grano, della carne bovina e suina! Terra della lana e della canapa! Terra della mela e del grappolo! / Terra di pascoli, tu pascolo del mondo!». Gabriele D’Annunzio nell’Alcyone presta voce a un vecchio agricoltore orgoglioso dei prodotti del suo campo; Antonio Machado glorifica aranci e limoni andalusi; Sergej Esenin si perde malinconicamente tra i boschi e le paludi della sua sconfinata Russia; Francis Ponge ritrae con perizia pittorica la bellezza di un’ostrica; Pablo Neruda, reso familiare ai telespettatori da un famoso spot pubblicitario sul pomodoro, qui canta la cipolla «chiara come un pianeta».

    E poi il pane, le patate, il vino, tutto quello che la terra ci dona, mantengono nelle parole dei poeti il sapore, il gusto e l’odore delle cose buone e sane.

    Come raccomanda Khalil Gibran, se dobbiamo cibarci di carne, ricordiamoci che anche noi siamo fatti di carne: «Ma giacché dovete uccidere per mangiare e rubare al nuovo nato il latte materno per estinguere la vostra sete, sia allora il vostro un atto di adorazione. E la vostra mensa sia un altare sul quale i puri e gli innocenti della foresta e dei campi sono sacrificati a ciò che è più puro e più innocente nell’uomo». Giustamente conclude Daniele Piccini nella postfazione: «Il cibo, la fatica e la cura nel procurarselo, nel modificarlo, nel prepararlo costituiscono uno degli elementi culturali identificativi

    dell’uomo… Ciò che l’uomo usa come cibo, entra in una grammatica culturale, in un sistema di segni».

    Segni incisi nei versi millenari, e nei graffiti preistorici riportati in questa preziosa e originale antologia.

    «Il Pickwick», 29 aprile 2019

    AAVV, POETI GIAPPONESI – EINAUDI, TORINO 2020

    Mancava, nel nostro panorama letterario, un’antologia aggiornata ed ampia della poesia giapponese contemporanea, e l’iniziativa dell’editore Einaudi di inserire una tale accurata rassegna nella sua collana bianca risulta pertanto opportuna e lodevole.

    Il volume, con testo a fronte, comprende ventidue autori e autrici scelti fra le generazioni che si sono susseguite a partire dai nati negli anni Venti, come Ishimure Michiko (1927), fino a Fuzuki Yumi (1991): due donne ad aprire e chiudere un secolo.

    L’approfondita introduzione di Maria Teresa Orsi (professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma, e autrice di fondamentali lavori sulla letteratura giapponese) e le preziose note di Alessandro Clementi degli Albizzi, ci avviano alla conoscenza di una cultura poetica finora non abbastanza frequentata in Italia, presentandoci un ventaglio di scritture diverse negli stili e nei temi, ma sempre originali e interessanti.

    Tratto comune agli autori presentati è l’utilizzo del verso libero, introdotto nella poesia giapponese alla fine del XIX secolo su imitazione dei modelli occidentali, e in seguito adottato continuativamente, in un reciproco e intenso scambio con la produzione americana ed europea, pur nel rispetto della tradizione classica nipponica. A questa compenetrazione tra oriente e occidente, era affiancata la perenne influenza esercitata sulla poesia giapponese dalla cultura e dalla lingua cinese, proficuo terreno di formazione letteraria per intere generazioni.

    Alla fine della seconda guerra mondiale, si impose necessariamente la volontà di rompere con un passato di celebrazioni nazionalistiche e retoriche, di esasperata liricità e simbolismi, nella ricerca di contenuti che rendessero evidente la critica ideologica a ogni fanatismo ideologico e bellico, testimoniando invece il dolore e il lutto collettivo di una nazione, la fatica della ricostruzione, il senso opprimente di disperazione e morte. I poeti nati negli anni ’30 ambivano a porre l’accento soprattutto sulle proprie esperienze individuali, accentuando la particolarità delle loro scelte stilistiche, in cui venivano privilegiati ritmo, musicalità e linguaggio colloquiale, senza trascurare una vena più ironica

    nell’interpretazione del proprio vissuto.

    Fondamentali furono, nell’inaugurare questo nuovo indirizzo creativo, le raccolte e gli interventi critici pubblicati negli anni ’50 da Ōoka Makoto e Tanikawa Shuntarō, i quali proposero nuove e differenziate modalità di espressione, dal sonetto ai testi di canzoni, dal metro classicheggiante alla sperimentazione surrealistica.

    Negli anni del dopoguerra, con la veloce sterzata dell’economia in direzione di uno sviluppo capitalistico e consumistico, divennero più frequenti e vivaci i contatti con altri fenomeni artistici, dalla pittura al teatro, dal cinema alla pubblicità. A una dinamica attività editoriale volta a diffondere la poesia si affiancarono negli anni ’70 i festival, le letture in pubblico, le performance, dando un valore sempre più accentuato all’oralità, al suono, alla recitazione dei versi: in questo campo fu ed è tuttora maestro Yoshimasu Gōzō, teorizzatore di una nuova libertà sintattico-grammaticale nel testo scritto, e di un’interpretazione destabilizzante e innovativa nella proposta vocale. La sua famosa A fianco (cotes) della poesia utilizza in maniera inedita e sovversiva simboli, spaziature, caratteri tipografici, onomatopee, frantumazioni, proponendo una clamorosa rottura con la tradizione poetica orientale.

    Maria Teresa Orsi presenta nell’introduzione una particolareggiata rassegna degli autori antologizzati, nei loro peculiari caratteri esistenziali ed espressivi: dal raffinato estetismo dei temi omoerotici di Takahashi Mutsuo a quelli mitologici e leggendari di Irisawa Yasuo, dalle battaglie ambientali di Ishimure Michiko a quelle politiche di Sasaki Mikirō e di Fujii Sadakazu, fino alla recente produzione che riflette sul disastro ecologico di Fukushima.

    Molti testi alternano ai versi brani prosastici, utilizzando tecnicismi, slang, dialetti; altri riprendono stilemi classicheggianti e metri tradizionali, soprattutto quando tratteggiano in modi sfumati ed elegiaci il paesaggio, o affrontano concetti spirituali e atmosfere magico-religiose.

    A poesie evocative e nostalgiche di ambienti familiari o di memorie infantili si contrappongono messaggi divulgativi e terminologie provocatorie degli autori più giovani, o proposte di ardua interpretazione a livello semantico e stilistico di scrittori di nicchia come Arakawa Yōji e Nomura Kiwao. Quest’ultimo così teorizzava in un articolo: «La cosiddetta poesia moderna di cui mi occupo si chiama anche poesia libera. Infatti non ha una forma prestabilita come lo haiku o il tanka, ma volta per volta si sposta senza sosta e scorre liberamente da una forma all’altra. Assomiglia all’immagine di un viandante».

    Largo spazio viene dato alla poesia delle donne, che dagli anni ’80 a oggi si è imposta in Giappone con assoluta rilevanza in termini di successo di pubblico e di prestigio culturale. Sulla scia delle istanze femministe occidentali, tra le poetesse contemporanee si è fatto strada l’interesse per l’esplorazione psicologica e fisiologica della femminilità, attraverso un uso del linguaggio istintuale e spregiudicato (Itō Hiromi, Sugimoto Maiko, Fuzuki Yumi).

    Una panoramica esauriente, quindi, quella che ci viene offerta da questo volume, che propone ai lettori appassionati di poesia un secolo di storia, cultura e costume del Giappone letto attraverso gli occhi dei poeti.

    «SoloLibri», I giugno 2020

    THEODOR ADORNO-PAUL CELAN, SOLO, CON ME STESSO E LE MIE POESIE

    ARCHINTO, MILANO 2011

    Il pregio di questo elegante e curato volume edito da Archinto non sta tanto nella presentazione dell'epistolario, abbastanza rapsodico e scarsamente esemplificativo del rapporto instauratosi tra Theodor Adorno e Paul Celan. Si tratta infatti di poche lettere in cui il poeta romeno si lamenta del disinteresse e della persecuzione che circonda il suo lavoro («Vengo depredato... E poi coperto di sputi, calunniato...»), e sembra auspicare una maggiore attenzione critica da parte del filosofo tedesco, forse sperando in una solidarietà più esplicita dovuta alle comuni radici ebraiche. E Adorno, qua e là, tra le righe, si sbilancia: «Il suo testo incomparabilmente bello... il suo testo in prosa estremamente interessante ed enigmatico...», senza tuttavia decidersi mai a scrivere l'intervento promesso sulla poesia del suo interlocutore.

    Ma appunto il merito di questa proposta editoriale sembra soprattutto essere nel saggio introduttivo di Joachim Seng, molto appassionato ed esaustivo, che ripercorre la relazione tra i due personaggi, a partire dall'incontro mancato di Sils Maria nel 1959 (quasi temuto da Celan, che più volte si sottrasse a ripetute occasioni di conoscere importanti esponenti della cultura dell'epoca: non solo Adorno ‒ poi effettivamene incontrato nel ’60, alla Buchmesse di Francoforte ‒ ma anche Beckett). Se il filosofo sembrava accordare alla trepidante attesa del poeta un'attenzione un po' superficiale (nella sua biblioteca furono trovati solo due libri di Celan), quest'ultimo seguiva ogni pubblicazione di Adorno con un'ammirazione e un coinvolgimento totale, traendone ispirazione anche per i suoi versi.

    La famosa sentenza adorniana secondo cui dopo Auschwitz non si sarebbe dovuto più scrivere poesia aveva aperto in Celan abissi di inquietudine e di sensi di colpa, cui tuttavia egli seppe rispondere con la tragica disperazione della sua scrittura.

    Il volume si conclude con due interessanti note biografiche di Roberto Di Vanni.

    «SoloLibri», 20 giugno 2019

    ENDRE ADY, IL PERDONO DELLA LUNA – MARSILIO, VENEZIA 2018

    Gabriella Caramore ci introduce, con sapienza e rigore, alla poesia di Endre Ady situandola storicamente e socialmente nel cuore dell’Ungheria di inizio ‘900, paese dilaniato e sottomesso, in perpetua lotta contro gli oppressori austriaci e lacerato da contrasti interni.

    L’accurata ricostruzione biografica effettuata dalla curatrice (che insieme a Vara Gheno si è occupata anche della traduzione dei testi) viene accompagnata da un commento che ne ricollega gli snodi fondamentali ai nuclei più rilevanti della produzione poetica, a partire dalle origini familiari, e poi attraverso gli studi, i viaggi, gli amori, la malattia: soprattutto esplorando evoluzioni e involuzioni del credo ideologico e spirituale dell’autore.

    Endre Ady nacque nel 1877 da una famiglia di piccola nobiltà decaduta e di tradizioni calviniste a Érmindszent, villaggio al confine con la Transilvania, oggi facente parte della Romana: indirizzato verso studi giuridici, si dedicò presto al giornalismo, desideroso di interpretare e influenzare gli avvenimenti politici della sua terra magiara («Mia odiosamata nazione»), con un generoso impegno democratico e liberale, antinazionalista e anticlericale, decisamente ostile alla dominazione degli Asburgo. Trasferitosi presto nella città industriale di Nagyvárad, iniziò a comporre le prime poesie, immergendosi in un’esistenza inquieta di sregolatezze, alcol ed esperienze sessuali promiscue che lo portarono a contrarre la sifilide, malattia che lo tormentò negli anni a seguire, conducendolo alla paralisi e a una morte precoce nel 1919.

    Ady esibiva provocatoriamente il suo lato di poeta maudit, lussurioso e blasfemo, sfidando il fariseismo benpensante della comunità cui apparteneva: «Siamo in tre sulla grande pianura: / Dio, io e una maledizione contadina. / So bene che tutti moriremo, / ma io lancio un forte grido spietato. // Io da solo non temo, non tremo, / tanto ormai il mio guscio è di Satana», «Né lieto avo né discendente, / né parente né conoscente, / non sono di nessuno, non sono di nessuno», «E quando dovevo comprare un bacio, / chiudevo gli occhi e chiudevo anche il cuore: // …Però le amo tutte, una per una, / Maddalena e la vergine Maria // … Io le amo appena son nate, / infanti, giovani, vecchie e mature. / Io amo ognuna che è donna: / un uomo vero, un uomo triste io sono».

    Trasferitosi a Parigi, entrò in contatto con le avanguardie artistiche, lasciandosi travolgere dalla loro energia visionaria, e soprattutto da un amore folle per una donna sposata, sensuale e affascinante, cui dedicò versi appassionati: «Sono ferita rovente. Brucio, dolente. / Mi strazia la brina, mi strazia la luce, / te voglio…// Baciami. Bruciami. Baciami», «Questi occhi vecchi, questi occhi tristi / non guarderanno più nessun’altra. // Scacciami pure, Léda: / a questi occhi di vecchio cane fedele / mai potrai davvero fuggire».

    Sofferente nel corpo, tormentato nell’anima e nei pensieri, presagiva la morte con una sorta di cupio dissolvi che lo avvicinava alla pena di ogni effimera creatura: «Sono malato, molto malato. / Sii giusto, mio Dio, / e benedicimi per quanto ora soffro», «Io sono parente della morte / … Amo le rose malate / donne sfiorenti bramose, / atmosfere d’autunno / amare e radiose. // Amo i delusi, i mutilati, / e quelli che si sono fermati; amo chi non crede e chi si è turbato: / questo è il mondo che amo».

    Oltre all’amore per la donna, lo teneva in vita la volontà di combattere per la sua «terra di sconfitte e trionfi», lottando «come un antico sovversivo»: «Se cento volte ti voltassi le spalle, / con o senza una motivazione, / finché mi terrà in piedi la vita, / mai potrò stare con gli infami, / ma ti starò accanto, mia bieca nazione. // … Agire, anche solo scrivendo, / ma agire comunque, irrequieti. / Con orgoglio e in alto la testa, / far sapere che qui nulla accadrà / finché rimarrà anche una sola protesta», «Né cieli né inferni al fiero magiaro / avrebbero potuto mai dare destino più bello / che essere uomo nell’inumano, / essere magiari perseguitati, / di nuovo vivi o morti ostinati».

    L’Ungheria, trascinata in guerra, smembrata, devastata, non riuscì a sollevarsi dalla desolazione, a cui Ady dovette assistere nei suoi ultimi disperati anni: «Tutto ciò in cui credemmo, / è perduto, perduto, perduto», «Triste e funesto il popolo ungherese, / vissuto sempre nella rivolta, per guarirlo / gli infami dannati gli hanno affibbiato / tutte le guerre e gli orrori fin dentro la tomba».

    Appellarsi a Dio, allora, come estrema ancora di salvezza? Gabriella Caramore nella sua prefazione insiste molto sul rapporto che il poeta intratteneva con il divino, nelle liriche espresse con la stessa violenza interrogante e supplicante dei Salmi, ripercorrendo le Scritture (in una ritrovata memoria della severa educazione calvinista), dalla Genesi ai Profeti all’Apocalisse. Del misticismo furente di Ady, Massimo Cacciari scrisse: «È l’ateo che crede, ma il cui credere non può superare l’ateismo». La sua preghiera assume infatti le sembianze della maledizione e della bestemmia, fieramente ostile a ogni clericalismo e devozionismo, estranea all’interesse teologico. Una preghiera che si sa inascoltata nella sua richiesta di giustizia, impossibilitata a comprendere l’abissalità del mistero: «Credo, incredulo, in Dio. / Io voglio credere per davvero. / Mai nessuno ne ha avuto tanto bisogno, / né un vivo né un morto», «Di continuo disputavo col Signore / … dicono che ho offeso molte cose antiche, / dicono, così dicono», «Egli è tutto. Ma non sa benedire. / Egli è tutto. Ma non sa punire. / …Sorride. Ordina. Nient’altro. / Il suo volto è un sole di ghiaccio. // … Anche se i nostri tendini son lacerati, / e siamo in un grande, infernale dolore, / Lui si diverte soltanto: non ci ama //… romba scrosciando, risuona ridendo, / trascina, fracassa, corre incessante, / non lo tiene né diga né torpida sponda. /… Egli è Tutto ed è inconsolabile, / un Dio unico e terrificante».

    Endre Ady nel corso della sua breve e turbinosa esistenza, conobbe incomprensioni e ostilità, rifiuti letterari e persecuzioni politiche, ma fu molto amato dal popolo, delle cui angustie e speranze seppe farsi portavoce. Alla sua morte, la partecipazione alle esequie fu enorme, e nel 1990 il suo viso intenso e sofferto fu incorniciato in una banconota della Repubblica Ungherese da 500 fiorini.

    «Il Pickwick», 26 marzo 2018

    ANTONELLA ANEDDA, NOMI DISTANTI – EMPIRIA, ROMA 2006

    Antonella Anedda è poeta, critico letterario, traduttrice che non ama le amplificazioni, e il suo tratto distintivo nella scrittura sembra essere invece la delicatezza, la leggerezza con cui si avvicina alla pagina. Aborrendo l’enfasi, l’irruenza, non riconoscendosi nell’ironia o nei calembour linguistici, la sua prima esigenza è etica: il confronto con la parola, lo scavo, l’approfondimento che tuttavia non violenti, non coercizzi in alcun modo il testo.

    Nomi distanti raccoglie «non esattamente versioni, non esercizi, non variazioni. Libere versioni? … Risposte da lontano». Echi di poeti amici, ascoltati in silenzio, per recuperare e rendere «l’essenziale di ciò che sembra inesprimibile».

    Se la traduzione è insieme la più umile e la più presuntuosa delle arti, Anedda cerca per sé un nuovo ambito e ruolo, «una terza voce in un terzo spazio», tra l’originale del poeta e il contraffatto per eccesso di fedeltà del traduttore.

    Prendendo l’avvio da un verso, anzi dall’emozione provocata dal verso di un poeta lontano nello spazio e nel tempo, vicinissimo nel pensiero, l’autrice ricrea un suo universo di suoni e immagini; risponde a un richiamo imperioso, lascia che in sé transiti e fermenti, e infine si esprima in una sua autonoma e individuale voce.

    I poeti prescelti parlano tutti differenti lingue (Tjutčev, Mandel’štam, Cvetaeva, Brontë, Pound, Herbert, Jaccottet), abitano diversi dialetti (Loi, Doplicher, Noventa): ed è appunto da questa estraneità che Anedda riceve l’invito alla riappropriazione, alla reinvenzione del testo.

    Se Osip Mandel’štam scriveva in una poesia potente e diretta come un pugno nell stomaco «Parlava con me il mio paese, / mi dava corda, mi faceva la predica, non mi aveva letto», ecco che lei inventa una visionarietà pacata e ricca di echi biblici, folclorici, favolistici («Non parlava con me il mio paese / non mi leggeva… / Mi ha dato tempo e notte. / La voce si è levata prodigiosa / dimessa, nel secolo che cresce sul millennio / né lupo, né scoiattolo, non una bestia in fuga…»).

    E ancora, il Poema della montagna di Marina Cvetaeva, nella sua stentorea durezza, diventa pretesto

    in Anedda per una preghiera intimista rivolta all’altro da noi, che si allontana e insieme ci allontana da noi stessi, sullo sfondo di un paesaggio rarefatto, poco partecipe e antico, immutabile.

    «Provo a trattare la vita con lentezza»: è in questo splendido verso la chiave, forse, di interpretazione della poesia di Antonella Anedda, e nel reiterarsi di espressioni quali cautela, distacco, pazienza, mancanza, tutti termini che indicano in qualche modo una volontà di controllo, di autodifesa, il timore di un’adesione più piena al semplice esistere.

    Ma in realtà, al di sotto di questa esitazione, si intuisce una forza difficile da domare, sia negli incipit delle poesie, sempre memorabili («Scrivere è terribile / con orrore lo spazio si misura / nel vuoto di parole che battono a distanza»), sia nella ricerca severa di precisione con cui definire esattamente l’oggetto della poesia.

    Stranamente e senza nessuno stridio, in Anedda la leggerezza si concilia con la dolcezza, la precisione con l’indeterminatezza, la descrizione del particolare esterno con l’introspezione più acuta: e il dolore più immedicabile con la sospensione miracolosa di ogni sofferenza.

    «Lasciami parlare del dolore / da te a me; scavato fino al fondo. / Anche questa è altezza / lascia che la misuri, qui, dalla terra / in giù, dal cielo al fuoco. / Uguale è il nero squarcio, uguale. / Solo, non un sussulto / ma un brusio di foglie, di animali / giù fino al gelo / per capire, per accrescere il peso».

    Abbiamo a che fare con una poesia nutrita di dolore, che nel dolore trova la sua linfa: in cui testo e vita si tengono reciprocamente a bada, chiedendosi l’un l’altro di non farsi troppo male.

    «SoloLibri», 6 marzo 2020

    SIRO ANGELI, POESIE IN FRIULANO

    Siro Angeli (Cavazzo Carnico 1913-Tolmezzo 1991) è stato poeta, sceneggiatore cinematografico e radiofonico, drammaturgo, romanziere. Laureato alla Scuola Normale di Pisa, visse a lungo a Roma (con la funzione di dirigente RAI), e a Zurigo, svolgendovi un’intensa e apprezzata attività culturale.

    La sua produzione poetica in lingua italiana, più volte premiata a livello nazionale, coniugava la rigorosa tradizione classica e umanistica a un profondo interesse per l'ermetismo.

    I volumi più rilevanti furono L'ultima libertà (Milano, Mondadori, 1962) e Il grillo della Suburra, con prefazione di Alfonso Gatto, pubblicato a più riprese tra il 1975 (Barulli, Roma) e il 1990 (Scheiwiller, Milano).

    In friulano scrisse L'Âga dal Tajament, (Roma, Tolmezzo, Udine 1970-1976-1986) e Barba Zef e jò (Tolmezzo, 1981).

    Per il teatro firmò otto rappresentazioni sceniche, dalla trilogia friulana di argomento sociale (La casa, 1937; Mio fratello il ciliegio, 1937; Dentro di noi, 1939), ad altre più intimistiche (Assurdo, 1942; Male di vivere, 1951; Odore di terra, 1957) e spirituali (Grado Zero, 1977).

    Nel dopoguerra collaborò alla sceneggiatura di una quindicina di film, soprattutto per il regista Vittorio Cottafavi (La fiamma che non si spegne, Una donna ha ucciso, Traviata '53, Avanzi di galera), fino all’ultimo Maria Zef (1980), tratto dall'omonimo racconto di Paola Drigo, in cui rivestì anche il ruolo del protagonista.

    Con le Edizioni Paoline pubblicò nel 1989 il romanzo di argomento teologico Figlio dell’uomo.

    I versi in friulano (lingua dell’infanzia, degli affetti familiari e del sogno), ideati e rielaborati da Angeli in diversi momenti, recuperano l’immutato accento della frazione natia, Cesclans, nel comune di Cavazzo Carnico, a cui tornava ogni estate, nel desiderio di disintossicarsi dalle incombenze lavorative e dalle atmosfere romane, ritenute meno autentiche e schiette. Qui è sepolto, e qui è visitabile la casa in cui nacque (figlio di un muratore e di una contadina, in una famiglia di severe radici cristiane), oggi allestita a museo.

    I ritratti della madre, del padre, dei compaesani, delle acque e delle montagne della sua Carnia, si stagliano nitidi e privi di retorica, appena velati di una nostalgia che comunque mai arriva a essere rimpianto: consapevole di quanto fosse difficile, faticosa e spesso spietata l’esistenza della sua gente, con gli uomini costretti alla guerra o all’emigrazione, e le donne indurite dal lavoro nei campi e nelle stalle, il poeta cercava scampo nel recupero delle parole con cui si era affacciato alla vita e al pensiero: parole bambine (peràulas frutas) che tornarono a trovarlo da adulto (a mi ciàtin massa cressût), fornendogli nuova linfa creativa.

    Las scarpas

    Cui lu ten, dopo tant / ch’al las spietava, cui / ai las giàvia dai pîs / par puartàlu tal jèt? // Il scriciâ che si sint / a ogni pas pas stradas / tra suèla e pièl, al dîs / a la nèif e a la int // che so pàri compradas / las à propri par lui / chesta volta, nol met / plui chês dal fradi grant.

    Le scarpe (Chi lo tiene, dopo tanto / che le aspettava, chi / gliele cava dai piedi / per portarlo a letto? // Lo scricchiolio che si sente / a ogni passo per le strade / tra suola e pelle, dice / alla neve e alla gente // che suo padre comprate / le ha proprio per lui / questa volta, non mette / più quelle del fratello grande).

    Il beciâr

    «Chesta volta, da nestra vacia plena, / a osservâla cemût ch’ai ven la panza, / mi samèa ch’a nus nasci una vigela» / a dîs nôna, lavant i plaz da cena. / «Di sigûr a nus cressarà su biela, / l’ûri tant che so mâri sglonf di lat. / No conservâ la razza al è un peciât». / «Ben, tigninla, se propri a è un câs râr». «E s’al nasc’ un vigèl?». Jèi no mi ciala. / «Par lui i decidarìn quant ch’a lu à fat», / al dîs nôno. A si sint dal cop svuèidât / l’âga scori in ta bûsa dal seglâr. / Mi lu figûri vîf dentri da stala / cul muscìc su la teta, e za mi pâr / si sèi dut scunsumât il timp ch’ai vanza / prima ch’al vegni a ciòlilu il beciâr.

    Il macellaio («Questa volta, dalla nostra mucca gravida, a osservarla come le viene la pancia, / mi sembra che ci nasca una vitella», / dice nonna, lavando i piatti della cena. / «Di sicuro ci crescerà su bella, / le mammelle quanto sua madre gonfie di latte. / Non conservare la razza è un peccato». / «Bene, teniamola, se proprio è un caso raro». / «E se nasce un vitello?». Lei non mi guarda. / «Per lui decideremo quando lo avrà fatto», / dice nonno. Si sente dal ramaiolo vuotato / l’acqua scorrere nella buca dell’acquaio. / Me lo raffiguro vivo dentro la stalla / con il muso sulla poppa, e già mi pare / si sia tutto consumato il tempo che gli avanza / prima che venga a prenderlo il macellaio).

    Ban

    Chel che si clama Ban / ancimò al si cunsuma / la bîl cuintra il destin / sassin, cuintra la blava // dai bastàrz che lu àn / scartât da fa l’alpin. / A nol bandona mai / nancia quant ch’al durmisc’ / il ciapièl cu la pluma / ch’al si è rangiàt, e guài / se qualchidun jàl giava: / al cierza il so curtisc’.

    Ban (Quello che si chiama Ban / ancora si consuma / la bile contro il destino / assassino, contro la genìa / dei bastardi che lo hanno / scartato dal fare l’alpino. / Non abbandona mai / nemmeno quando dorme / il cappello con la piuma / che si è arrangiato, e guài / se qualcuno glielo toglie; / assaggia il suo coltello).

    Tal cûr da Ciargna

    Propri culì, s’j’ vess / jò podùt sciegli il puest / dulà nasci, in tal cûr / da Ciargna il gno paîs // al saress, propri chest / como ch’al è, plui pôr / ancia, como ch’al era / una volta, stentàt // a alzàsci su di mûr / in mûr framiez un grîs / di cret e un vert di prât / a fuarza di clap dûr, / malta e sudôr; l’istess che in sort al mi è tociât…

    Nel cuore della Carnia (Proprio qui, se avessi / potuto scegliere il posto / dove nascere, nel cuore / della Carnia il mio paese / sarebbe, proprio questo / com’è, più povero / ancora, come era / una volta, stentato / ad alzarsi su di muro / in muro, fra un grigio / di rupe e un verde di prato, / a forza di sasso duro, / calce e sudore lo stesso / che in sorte mi è toccato…).

    Il mistîr

    Gno pâri muradôr / tâl e quâl che so pâri, / al à doprât madòn, / pièra, malta, ziment, / par alzâ simpri dret / il mûr, al pâr da vita. // Tal gno mistîr da lôr / doi al sarà ch’j’ impari, / se un qualchi alc di bon / al mi ven indiment / in ta fadìa ch’j’ met / su la pagina scrita.

    Il mestiere (Mio padre, muratore / tale e quale suo padre, / ha adoperato mattone / pietra, malta, cemento, / per alzare sempre diritto / il muro, al pari della vita. // Nel mio mestiere da loro / due sarà che imparo, / se qualche cosa di buono / mi viene alla mente / nella fatica che metto / sulla pagina scritta).

    Un grande amore per la sua terra, quindi, in Siro Angeli, e per il paesaggio scabro sconvolto dal terremoto del 1976, che aveva provocato lutti e sofferenza, svelandone però anche la forza e la fierezza nella volontà di ricostruzione degli abitanti.

    Un ricordo grato del paese abbandonato dopo il liceo, dapprima per la Toscana degli studi universitari, quindi per la Roma della professione e degli impegni culturali, poi per una Zurigo in cui ricreò, dopo molti anni di vedovanza, una nuova e giovane famiglia.

    Ma la Carnia rimaneva per lui rifugio affettivo e mentale, come si evince dal commento che il professor Rienzo Pellegrini gli ha dedicato nel Dizionario biografico dei friulani, III vol. (Forum Edizioni, 2011):

    «Una Carnia aspra, con i suoi miti (la casa, che trascina con sé la legge della fatica, della parsimonia: con il fascino categorico di una vita disumana nella sua durezza) e il corollario doloroso delle partenze, tra accettazione e gesto ribelle… Negli ultimi versi friulani la chiave della memoria (comunque ruvida, mai placata) evolve ulteriormente, svincolandosi dagli itinerari collaudati, esorcizzando ogni barriera, senza timori per la dimensione cosmica: Mai fidâsci di quant / che il pinsîr al cunfin / das Galassias si spuarz / fin dulà che las Quasars / a si strenzin al cûr… (Mai fidarsi di quando / il pensiero al confine / delle Galassie si sporge / fin dove le Quasar / si stringono al cuore…). Il lessico si apre al tecnicismo duro, straniante, in uno schema metrico che non rinuncia alla rima… ma senza farsi cantabile: big bang, implodere, Quasars, in un tessuto (e in un

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