Kalevala
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Anteprima del libro
Kalevala - Elias Loonrot
Note
Prefazione
Sin da quando fu pubblicata (1910) la mia traduzione metrica
completa del Kalevala , cui la Casa Editrice Remo Sandron volle
dare decorosissima veste, tanto l’editore
quanto il traduttore avevano in mente di farne poi una editio
minor – accessibile ad un maggior numero di lettori – di luoghi
scelti e fra loro connessi col racconto dell’intero poema. Per
varie circostanze avverse solo oggi l’intenzione diviene realtà
ed il nuovo volume, viene accolto nella «Biblioteca Sansoniana Straniera» da me diretta,
si pubblica proprio nel giorno della solenne celebrazione
che la Finlandia appresta al primo centenario del suo poema
nazionale. Poichè fu il 28 febbraio del 1835 che Elias Lönnrot
consegnò alla «Società di letteratura finnica» (alla cui attività è
in massima parte dovuto il sorgere e l’affermarsi della lingua e
della letteratura nazionale) il manoscritto del primo Kalevala
(in 32 canti, con 12078 versi), detto poi Vanha K . (il vecchio K .)
per distinguerlo dalla edizione definitiva del 1849, con 50 canti
e circa 23000 versi. Ma sebbene di mole minore e di composizione
alquanto diversa, già nella vecchia redazione era contenuto
il tesoro essenziale degli antichi (non tutti antichi) canti
popolari finnici, magici, epici e lirici; che Elias Lönnrot era andato
raccogliendo da lunghi anni, e che aveva cercato, già in
vari tentativi precedenti 1 , di ridurre ad unità se non organica
(la diversa età e provenienza ed indole dei runot non lo consentivano),
almeno poetica. Simpatica e curiosa figura quella del
Lönnrot (1802-1884): figlio di un sarto di villaggio, impedito
dalla povertà di frequentare il liceo, si ridusse a servire come
apprendista nella farmacia di Hämeenlinna, finchè per l’interessamento
e l’aiuto di quel medico provinciale potè attendere
agli studi e laurearsi in medicina (1832) nell’Università di Turku
(Åbo). Assegnato, come medico-condotto, a Kajaani,
nell’estremo nord, ebbe modo di conoscere da vicino gli usi e
costumi dei contadini, di studiarne a fondo i dialetti e attraverso
lunghe e faticose peregrinazioni, per lo più a piedi, in altre
regioni, dalla Dvina al Caspio careliano, da occidente a oriente
della Finlandia, di raccogliere centinaia e centinaia, non solo di
canti, ma e di proverbi, indovinelli e scongiuri, che poi pubblicò
in vari volumi. Dal 1853 al 1862 fu professore di lingua finnica
nell’Università di Helsinki (Helsingfors) nella cattedra da prima
tenuta dall’insigne etnologo e glottologo A. M. Castrén; in
questo periodo si occupò egli pure di studi affini, compilando il
grande «Dizionario finno-svedese» (compiuto nel 1880) e pubblicando
due saggi sulle lingue vepsa e lappone. Per l’insieme
della sua attività il Lönnrot può considerarsi come il fondatore
della lingua letteraria finnica e, attraverso il suo – e non suo –
Kalevala , come il primo grande suscitatore dell’idea nazionale.
Non suo, in quanto non gli appartengono i canti raccolti, tutti
genuini e prodotti di una lunga trasmissione orale; suo, in
quanto egli li raggruppò in cicli (sull’esempio di alcuni dei laulajat
o cantori del popolo) e i cicli in una specie di poema, con
sì felice raccostamento di episodi e «motivi», da darci quasi
l’impressione (che solo una rigorosa analisi può attenuare e
magari in parte distruggere) di una composizione unitaria e
consequente. Se aggiunse qualche verso per unire ciò che era
disgiunto, se introdusse qualche allusione all’opera propria di
raccoglitore e di pioniere (la chiusa!), tale era la sua «immedesimazione
» nell’indole e nello stile dei runi tradizionali, che sarebbe
difficile sceverare il pochissimo suo dal non suo, senza il
sussidio dei manoscritti e delle innumerevoli «varianti», con
scrupolosa cura raccolte e depositate nell’Archivio della «Società
di letteratura finnica», il più ricco in documenti folkloristici
che esista al mondo.
Nel ridurre le dimensioni del poema a circa un terzo dell’originale,
si son dovuti sacrificare non pochi brani di notevole interesse;
ma poichè la critica estetica ha spesso rilevato la sovrabbondanza
di canti magici, la eccessiva lunghezza di alcuni
episodi epici e le assai frequenti ripetizioni, ne abbiamo tenuto
conto nella eliminazione; e crediamo che anche nel «nostro»
Kalevala le qualità essenziali e caratteristiche dell’originale
non siano andate perdute e neppure menomate. Intanto la presente
traduzione conserva, meglio di altre pur ottime per altri
riguardi (aiutata in ciò dalle peculiarità linguistiche e prosodiche
dell’italiano), e il metro (l’ottonario trocaico) e l’allitterazione
e il parallelismo e la frequente (sebbene leggermente
diversa) rima finale. Più importava che nella scelta, insieme alle
vive descrizioni del paesaggio di foreste, di laghi e di cascate,
fossero mantenuti i tratti dei tre personaggi più espressivi
dell’anima e dell’indole del popolo finno: il vecchio Väinämöinen,
«il cantore sempiterno», con la glorificazione della musica
quale poche genti possono vantare altrettanto alta ed umana
(nel runo della Kantele , XLI); Ilmarinen, il fabbro eterno, l’artefice
operoso ed ingegnoso, tardo nella decisione ma poi tenace
nell’azione; Lemminkäinen, scapestrato e aggressivo, avventuroso
e sempre in cerca di risse e di amores , il Don Giovanni
iperboreo, «la creazione più originale e multiforme della Musa
finnica»; accanto ai quali spicca la dolce e mesta figura di Aino,
la cupa e tragica di Kullervo; e risuonano quegli inimitabili
«canti nuziali» (XXII-XXIV) che abbiamo riportati quasi per intero
come saggio della ricchissima lirica amorosa e familiare,
dal Lönnrot stesso raccolta nell’altro «corpus poeticum» Kanteletar
(L’arpa finnica). Ma alla riproduzione delle immagini ispirate
dal poema all’arte potente di Axel Gallén-Kallela e che
adornano la editio major , abbiamo dovuto rinunziare. Tutti sanno
come i quadri di lui, insieme alla musica «kalevaliana» di
Jean Sibelius abbiano già da soli reso noto e celebre il Kalevala
fuori dei confini della patria nordica.
IL PRIMO RUNO. Proemio (vv. 1-102).
Nella mente il desiderio
mi si sveglia, e nel cervello
l’intenzione di cantare,
di parole pronunziare,
co’ miei versi celebrare
la mia patria, la mia gente:
mi si struggon nella bocca,
mi si fondon le parole:
mi si affollan sulla lingua,
si sminuzzano fra i denti.
Caro mio fratello d’oro,
mio compagno dai prim’anni!
ora vieni a cantar meco,
a dir meco le parole!
da diverso luogo, insieme
ora qui ci siam trovati.
Raro avvien che c’incontriamo,
che possiamo stare insieme
quassù in queste terre tristi,
nelle povere contrade.
Or prendiamoci le mani,
intrecciam dito con dito,
sì che ben possiam cantare,
e del nostro meglio fare:
perchè sentan questi amici
ed ascoltino i benigni
nella stirpe che su viene
e nel popolo che cresce
questi canti tramandati,
questi versi messi in luce
di Väinö dalla cintura,
d’Ilmari dalla fucina,
di Kauko tolti alla spada
ed all’arco d’Joukahainen,
dai confini di Pohjola,
di Kaleva dalle lande.*
Li cantava prima il babbo
affilando la sua scure:
li insegnava a me la mamma
mentre il fuso ritorceva:
quando bimbo, sul piancito
ruzzolavo sui ginocchi,
sbarazzino, con la bocca
piena di latte accagliato.
Non mancavan canti al Sampo*,
non a Louhi gli scongiuri:
invecchiò coi canti il Sampo,
sparver Louhi e gli scongiuri,
morì Vipunen coi versi
e coi giuochi Lemminkäinen.*
Ma vi sono altre parole,
altri magici segreti,
afferrate per la strada
e strappate alle prunaie,
via divelte dai sarmenti
e raccolte dai germogli,
spigolate in mezzo all’erbe,
raccattate nei sentieri
allorquando, pastorello,
io la gregge conducevo
fra le zolle inzuccherate,
sopra le colline d’oro,
dietro la Muurikki nera
e con Kimmo la screziata.
Mi diceva versi il freddo
e la pioggia lunghi canti:
mi portava strofe il vento,
me ne dava il mar con l’onde
vi aggiungean voci gli uccelli
e canzoni gli alberelli.
Un gomitolo ne feci,
in matassa le raccolsi:
il gomitol nella slitta,
nel carretto la matassa:
le portò la slitta a casa,
il carretto nel granaio:
sul palchetto le riposi,
dentro il bussolo di rame.
Stetter lungo tempo i versi
in quel freddo nascondiglio:
ch’io dal freddo ora li tolga,
ch’io dal gelo i canti levi,
porti il bussol nella stanza,
la cassetta sulla panca,
sotto la trave maestra,
sotto il tetto rinomato?
aprirò dei versi l’arca
ed il bussolo dei canti?
il gomitol ch’io sdipani
e disfaccia la matassa?*
Dunque or canto buoni versi
con sonora bella voce,
se di segale focaccia
mi darete, e birra d’orzo:
e se birra non mi dànno,
non mi portan birra bianca,
canto pure a bocca asciutta,
versi fo per l’acqua cara,
per la gioia della sera,
per l’onor di questo giorno,
pel conforto del domani,
per l’augurio del mattino.
La Vergine dell’aria discende nel mare dove, fecondata dal
vento e dall’onda, diventa la Madre delle acque (103-176). Una
folaga fa il nido e depone le uova sul ginocchio della Madre
delle acque (177-212). Le uova scivolano fuori dal nido, si rompono,
e dai frantumi si formano la terra, il cielo, il sole, la luna
e le nubi (213-224). La Madre delle acque crea promontori,
golfi e spiagge, le profondità e le secche del mare (245-280),
Väinämöinen nasce dalla Madre delle acque e vaga lungamente
sulle onde, finchè giunge a fermarsi sulla riva (281-314).
Il secondo runo.
Sorse allora Väinämöinen
coi due piedi sulla landa,
sopra l’isola marina,
sulla terra senza arbusti,
E molt’anni là rimase,
lungamente colà visse
sulla terra senza nome,
sopra l’isola deserta.
E pensava, rifletteva,
nella mente rivolgeva
da chi farla seminare,
con qual seme prosperare.
Pellervo, del campo figlio,
Sampsa, bimbo piccolino,
ei la terra seminare,
ei può farla prosperare.
Seminò, col dorso curvo;
gettò i semi sulla terra,
dentro i boschi dissodati,
sui terreni più sassosi.
Mise i pini sulle alture
e gli abeti alle colline:
piantò l’eriche alle lande,
i germogli nelle valli:
le betulle nei pantani,
nel terren mobile, ontani:
nelle terre acquitrinose
seminò viscioli e salci,
sorbi nelle benedette,
vetrici nelle fiorenti
e ginepri in mezzo ai sassi,
lungo i fiumi mise querci.
S’innalzavan già gli arbusti
e spuntavano i germogli:
degli abeti la corona
già s’ergeva, e chioma ai pini:
le betulle nei pantani,
nel terren mobile, ontani:
viscioli negli acquitrini
e ginepri in mezzo ai sassi:
belle bacche sul ginepro
e sul visciol dolci frutti.
Il verace Väinämöinen
venne allora per vedere
quella terra seminata
da Pellervo piccolino:
vide gli alberi cresciuti
ed i giovani germogli:
non ancor però la quercia,
non avea messo radici.
La cattiva alla sua sorte
lasciò stare, al suo destino:
aspettò tre notti intere,
altrettanti giorni ancora:
per vedere venne allora,
alla fin dei sette giorni:
nè cresciuta era la quercia,
nè radici aveva messo.
Vide allor quattro fanciulle
e dell’onda cinque spose
sopra il prato già falciato,
sopra il fieno già tagliato,
sulla punta tenebrosa
di quell’isola nebbiosa:
ammucchiavan col rastrello
e coll’erpice il falciato.
Venne su Tursas dal mare,*
sorse il forte su dall’onde:
pigiò il fieno che bruciasse,
con gran fiamma consumasse:
lo ridusse tutto in scorie
ed in cenere minuta.
Fe’ di cenere un mucchietto,
fe’ di scorie un monticello:
una ghianda egli vi mise,
una cara fogliolina,
dalla qual la pianta crebbe
coi germogli verdeggianti:
si levò ricca di bacche
dal terreno rastrellato.
Ed in alto stese i rami,
i fronzuti ramoscelli:
con la cima sorse al cielo,
dispiegò le fronde in aria:
alle nubi vietò il corso,
alle nuvole il vagare,
vietò al sol di riscaldare,
alla luna di brillare.
Ed il vecchio Väinämöinen
a pensar si mise allora:
«Se ci fosse chi abbattesse
questa quercia così altera!
fastidiosa è all’uom la vita,
il nuotare triste ai pesci,
senza che risplenda il sole,
senza che la luna brilli».
Ma non v’era nè un eroe,
nè alcun uomo vigoroso
che potesse far cadere
quella quercia a cento rami.
Ed il vecchio Väinämöinen
pronunziò queste parole:
«Tu che in seno m’hai portato,
Luonnotar, mia genitrice!
A me presta i forti flutti
(chè nell’acqua è grande forza)
per abbatter questa quercia,
perch’io tolga la malvagia
che impedisce al sole i raggi,
alla luna il dolce chiaro».
Sorse un uomo su dal mare,
un eroe salì dall’onda:
grande grande egli non era
e nemmen proprio piccino:
alto, un pollice d’un uomo,
una spanna d’una donna.
Un cappuccio avea di rame
e di rame scarpe ai piedi,
rame, i guanti nelle mani
e di rame ricamati:
rame, il cinto intorno ai fianchi,
dietro, l’ascia pur di rame:
quanto un pollice il bastone,
quanto un’unghia alta la lama.
Il verace Väinämöinen
a pensar si mise allora:
«A vederlo, pare un uomo
ha l’aspetto d’un eroe:
quanto un pollice è pur alto
e d’un bove quanto l’unghia».
Disse allor queste parole,
in al modo si fe’ udire:
«Chi sei tu della tua gente,
quale tristo fra gli eroi?
poco più tu sei d’un morto,
poco meglio d’un estinto!»
Disse l’uomo piccolino,
quell’eroe del mar rispose:
«Sono un uomo cosiffatto,
eroe piccolo dell’acqua:
venni a abbattere la quercia,
a ridurla in scheggettine».
Il verace Väinämöinen
pronunziò queste parole:
«Non mi sembri tu creato,
nè creato, nè adattato
per abbatter la gran quercia,
buttar giù l’albero immenso».
Non avea di dir finito
ed ancor guardava fiso:
vide l’uomo trasformarsi
e l’eroe gigante farsi:
ecco, il piè la terra pesta,
tocca i nuvoli la testa:
sui ginocchi va la barba,
sui calcagni van le chiome:
c’è una tesa d’occhio ad occhio
e da ghetta a ghetta un’altra:
una e mezzo fra i ginocchi
e due tese fra le scarpe.
Ei forbì tosto la scure,
affilò la liscia lama
sopra sei ciottoli duri
e poi sopra sette coti.
S’avviò velocemente,
prese presto a camminare
con le ghette larghe larghe,
con i larghi pantaloni:
fece un salto, sul momento
si trovò sopra l’arena:
con un altro salto giunse
sul terriccio tutto scuro:*
fece un terzo salto, fino
della quercia alle radici.
Colpì l’alber con la scure,
lo percosse con la lama:
gli diè un colpo,