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Niente di personale
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E-book341 pagine4 ore

Niente di personale

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Info su questo ebook

“Quando mi chiedono dove lavoro è facile. Quando mi chiedono di cosa mi occupo l’affare si complica. Sia che la domanda arrivi da un professionista, sia che giunga dalla cerchia amicale. Peggio da quella parentale.”

Mettendo a disposizione la sua esperienza professionale e umana, l’autrice con competenza, consapevolezza ed ironia, ci narra di un mestiere complicato, quello della gestione delle risorse umane, o meglio dell’HR manager (Human Resources manager), dove è necessario avere le spalle larghe, un formidabile intuito e soprattutto praticare il coraggio, l’etica e non per ultima l’allegria. Attraverso un linguaggio colloquiale, diretto, ne viene fuori un racconto appassionato sulla vita aziendale, si susseguono le storie alle riflessioni e alle disamine su un mestiere che richiede un grande impegno ma anche una grande responsabilità.

L’autrice ha lavorato trent’anni nel mondo delle risorse umane, ricoprendo vari ruoli, all’interno di complesse aziende italiane.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ott 2020
ISBN9788830628281
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    Anteprima del libro

    Niente di personale - Morchella

    Morchella

    Niente di personale

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-2828-1

    I edizione elettronica ottobre 2020

    Presentazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Prefazione

    Meno leadership, più gestione manageriale

    per prendersi cura

    Il libro che avete fra le mani è particolare. Per diverse ragioni. Non so come ve lo siate procurato e per quali motivi, però posso dire che avete fatto bene. L’esperienza della sua lettura sarà generativa. Provo a condividere la mia insieme ad alcune riflessioni che mi ha suggerito.

    Le pagine di questo volume sono dense di passione, competenza, amore per l’altro, lealtà organizzativa. C’è anche di più, ma quello lascio a voi scoprirlo leggendolo.

    L’Autrice racconta storie che snocciolano fatti e situazioni, decisioni prese e rinviate, mal di pancia e soddisfazioni, dubbi e certezze. Un caleidoscopio di sentimenti ed emozioni che si vivono quando si è sul pezzo, come si usa dire nel linguaggio operativo, per indicare la realtà concreta in cui vivi e lavori e che richiede di starci prendendo decisioni. Una dietro l’altra. È difficile infatti nascondersi quando sei sul fronte della gestione delle risorse umane, puoi tentare di farlo ma ti troveranno. Capi, colleghi, collaboratori ti schioderanno dall’angolo dove ti eri accovacciato. La gestione è presenza, prossimità, solidarietà e responsabilità. Non sappiamo se le storie proposte nel volume sono tutte frutto dell’esperienza diretta dell’Autrice, voglio dire se ne è stata sempre la protagonista o piuttosto sono anche l’esito di una rielaborazione personale di episodi vissuti da altri, perché assonanti con quanto vissuto direttamente. Il pathos con cui sono raccontate, la freschezza dei dialoghi e il dettaglio delle situazioni con cui vengono proposte autorizzerebbe a pensare che lo siano. Pare anche di capire che le storie siano occorse in contesti organizzativi diversi. In tempi differenti, anche distanti. Forse è la ricchezza delle fonti che ha suggerito la commistione di storie e personaggi, ricercata e costruita ad arte. Che dire poi delle persone che le storie dipingono con tratto veloce ma deciso? Immaginiamo siano personaggi incontrati nella realtà, protagonisti delle numerose relazioni di lavoro coltivate per mestiere. Ma anche no, nel senso che alcuni personaggi possono essere frutto di qualche ritocco, per accentuarne alcuni tratti sui quali la penna si attarda a smascherarne le piegature storte o anche per divertimento, perché l’Autrice lascia trasparire un bisogno di giocosità che sembra soffocare per timore che prenda il sopravvento sul rigore, su quella postura di serietà che sprizza, forse in modo eccessivo talvolta, da ogni pagina.

    Ma cosa raccontano le storie organizzative raccolte in queste pagine? Il modo attraverso cui persone, manager e team leader, che hanno la responsabilità della gestione delle risorse umane come la chiama il linguaggio manageriale, osservano i fatti, li ascoltano, interpellano gli attori, costruiscono rappresentazioni degli accadimenti e delle loro motivazioni, prendono decisioni per influenzare il comportamento umano nelle organizzazioni, per raggiungere gli obiettivi dell’impresa, da un lato, e soddisfare bisogni e progettualità dei collaboratori, dall’altro. Del resto, è proprio questa finalità il fondamento delle funzioni dirigenziali, come Chester Barnard evidenziò già nel 1938, ossia che non coincidendo in modo immediato le finalità delle persone e quelle dell’organizzazione occorre che qualcuno provveda - attraverso una efficace azione - a guidare e gestire l’organizzazione in modo da sviluppare e assicurare comportamenti cooperativi¹.

    Quelle raccontate, ebbene, sono tutte storie che portano alla luce questo intricato tessuto psico-socio-organizzativo costruito con un filo particolare che si chiama relazioni. Probabilmente è questa una prima chiave di lettura utile per gustare le pagine che vi accingete a leggere: come si entra in una relazione di lavoro, come la si cura, come le si dà valore. Perché tutto questo potrebbe diventare la ragion d’essere del nostro impegno organizzativo e manageriale.

    Cosa si prova però quando una relazione di lavoro - costituitasi nel frattempo come una entità terza rispetto agli altri due soggetti - si sfilaccia, viene tradita o strumentalizzata? Cosa sentiamo invece quando genera valore inaspettato come la gioia di un team che è riuscito a trasformare una situazione, a influenzare la leadership cattiva di un capo? In fondo, le storie raccontate dall’autrice-protagonista sono storie di relazioni, un bene fondamentale della vita non sostituibile con nulla. Perché noi viviamo nelle relazioni. Alcune sono fortunate, altre meno. Tutte però sono profondamente umane.

    Nel volume apparirà quell’umano che andrebbe sempre coltivato nell’economia e nel lavoro; un umano che trova spazio e vigore quando chi è responsabile della gestione del personale non cerca il suo successo, ma quello del team che serve e del suo manager. Un successo però che non ha il sapore acido della supremazia o del voler stare sopra qualcuno in chiave individualista, ma quello dolce della cura degli altri e della premura per il loro benessere. Collocato in questa prospettiva, allora, il successo altruistico diventa risorsa di tutta l’organizzazione, quello che si genera dal lavoro appassionato e responsabile di ciascuno. Quel lavoro di presenza e prossimità che nasce e richiede l’essere-a-fianco delle persone, la postura di responsabilità propria del gestire. Ci sono pagine bellissime su questo tema scritte da Henry Mintzberg². Scrive: … penso che oggi soffriamo per troppa leadership e poca gestione manageriale, perché la leadership è ancora una questione individuale che anziché aiutare le persone le demotiva facendole diventare gregari. Quello che va esaltato invece è il senso di comunità necessario per ogni organizzazione. Ecco perché Mintzberg preferisce mettere la gestione manageriale, quella oggetto di indagine nel volume, davanti a tutto, osservandola e studiandola come una pratica, che si apprende innanzitutto tramite l’esperienza e che si radica in un contesto.

    L’umano e la gestione manageriale che ha il compito di coltivarlo si alimenta dunque non con medaglie o premi effimeri che esaltano la leadership, ma accogliendo in profondità le fragilità delle persone che vanno prese in carico, compito e responsabilità primaria della gestione e del lavoro manageriale.

    Nelle pagine intense del libro si scopre che questa cura però è esigente, domanda molto, non ti fa dormire la notte, ti richiede processi di elaborazione personale, in solitudine. Per questo cerca luoghi anche appartati per decidere. Sono luoghi profondamente generativi perché rendono evidenti all’autrice-protagonista anche le sue fragilità, che non nasconde ma mette in scena. Ecco allora un’altra chiave di lettura del libro: lasciarsi guidare dalla passione emotiva dell’Autrice mentre disvela quello che ha provato, i suoi turbamenti e sentimenti. Le sue fragilità diventano così strumenti di consapevolezza che si trasforma in pervicace accudimento dei gestiti, persone talvolta saccenti e furbe, il più delle volte disorientate e non accolte. L’accudimento però va oltre, si fa carico soprattutto di capi cocciuti, ambiziosi e deliranti che si incontrano lungo la strada accidentata e affascinante nel contempo del people management e della leadership. Per queste ragioni sono pagine di umanità nel lavoro autentiche, testimoniate da dialoghi serrati che includono il lettore e la lettrice. Ti senti dentro, profondamente coinvolto dal flusso dell’organizzazione e così diventi partecipe della storia o di qualche suo episodio, che ti invitano a immaginare come andrà a finire. Qualche volta ti lasceranno soddisfatto per la decisione presa. Proverai gusto e divertimento. Non sempre però accadrà questo. Talvolta l’esito della storia (o un esito sospeso) lascerà sorpreso chi legge, lo renderà incerto riguardo i sentimenti che prova per un finale inedito e soprattutto inaspettato. Si domanderà perché. Avrei fatto diversamente, non mi pare giusto. Come sarà andata a finire? Perché non ce lo dice?

    Perché all’organizzazione non appartiene la logica dell’algoritmo, perché gli input sono numerosi e di natura differente, entrano in scena in tempi diversi, abbracciano una moltitudine di persone e ruoli, desideri e aspettative multiformi. Non c’è dunque un esito meccanicistico, piuttosto l’avvio di un processo che mette in moto un’energia che si distribuirà in tanti rivoli e relazioni, a loro volta fonti di altre decisioni e così via. Quella di chi gestisce persone, nei contesti di lavoro, è una responsabilità che non può essere trattata con approccio riduzionista piegandola alla mendacità di metriche inappropriate. Questo tentativo, reiterato lungo le stagioni, costituisce una delle più drammatiche frustrazioni che le donne e gli uomini delle Risorse Umane possano provare. Succede quando – per rispettare lo stato di diritto dell’organizzazione – ti sottoponi alle sue regole standard e, almeno apparentemente, giuste. In cuor tuo, sai però che al tuo agire organizzativo va stretto l’abito confezionato per altri. Un abito imbastito con indicatori di costo del lavoro, di efficienza operativa, di aggiustamenti organizzativi, di accordi sindacali raggiunti. Sai che da questo abito, certamente di fattura sapiente, rimane fuori l’intangibile. Che ti appare la vera ragione della tua missione, quello per cui sei vocato. Come misurarlo? Come misurare, per esempio, i danni che un’organizzazione avrebbe dovuto sopportare se la costruzione di una diversa consapevolezza di un manager ostinato, alla quale ti sei dedicata giorni, settimane, mesi, non avesse generato la decisione che è stata presa? Con quali metriche è possibile portare a valore questa competenza del lavoro di gestione delle risorse umane che non ha pari?

    Dietro questa frustrazione che l’Autrice non nasconde si cela anche il terreno di un possibile conflitto tra l’idea e la pratica, tra il dover essere e la realtà. Un terreno nel quale si soffre e che mostra il lato più rigoroso, impermeabile a qualsiasi negoziazione, della visione dell’Autrice sulla gestione delle risorse umane e sul mestiere che più la rappresenta. Una visione che vede i percorsi di umanizzazione del lavoro, portati avanti dalla testimonianza di una gestione delle persone che accoglie e si fa carico delle loro fragilità, cedere il passo alla norma inaccessibile e non toccabile. Le note di questo conflitto abbondano in tutte le storie, echeggiano con il loro suono stridulo. Cambiano tonalità e andatura, è vero, ma sono sempre lì a mordere famelicamente l’Autrice, a strattonarla non appena qualche cosa nel suo dire o sentire sembra possa travalicare il consentito. A chi riconoscere la superiorità? Alle istanze dell’idea o a quelle della realtà? Al fascino dell’organizzazione come entità che è sopra o al richiamo del valore in sé che possiede la concretezza di una richiesta di aiuto e di comprensione? L’idea che si trasforma in ideologia, o la risposta concreta che diventa prassi? La struttura o la persona? L’impresa o l’uomo? A me pare che sia questa una terza chiave di lettura utile per leggere, con le lenti più graduate degli esperti di organizzazione e gestione delle risorse umane, il libro che avete in mano. Sono lenti che consentono di riflettere sull’essenza dell’agire organizzativo e delle sue illimitate conseguenze, come scriveva Hannah Arendt³. Le storie del volume raccontano questa tensione e, probabilmente, anche un conflitto custodito a fatica dell’Autrice che sembra non volersi piegare fino in fondo di fronte alla verità della sua narrazione e della gestione manageriale. Non è sola l’Autrice in questo conflitto del mestiere, nelle organizzazioni si trova molta compagnia. Un conflitto tosto che occorre saper trasformare però in un dialogo permanente tra l’idea e la realtà. Può giovare, per accompagnare il lavoro manageriale e la riflessione interiore che genera, la sapienza di un pensiero che vale la pena meditare. Esiste anche una tensione bipolare tra l’idea e la realtà. La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà. È pericoloso vivere nel regno della sola parola, dell’immagine, del sofisma. Da qui si desume che occorre postulare un terzo principio: la realtà è superiore all’idea.

    Gabriele Gabrielli


    1 Barnard C.J., Le funzioni del dirigente (tit. or.The Functions of the Executive. Cambridge, MA: Harvard University Press 1938), UTET, Torino, 1970

    2 Mintzberg H., Il lavoro manageriale (tit. or. Managing, 2009), FrancoAngeli, Milano, 2010, pp. 22-23

    3 Arendt H., Vita Activa La condizione umana, Bompiani, 2009

    4 Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, n. 231, 2013

    Ai miei genitori,

    che ancora non si capacitano

    di come tutto ciò sia potuto accadere

    A tutti gli HR traditi

    PREMESSA

    Quando mi chiedono dove lavoro è facile.

    Quando mi chiedono di cosa mi occupo l’affare si complica.

    Sia che la domanda arrivi da un professionista, sia che giunga dalla cerchia amicale. Peggio da quella parentale.

    In particolare mia mamma mi ha messo in difficoltà. Restituendo ai miei minuziosi, articolati, appassionati assalti didattici, un occhio vitreo che indaga il soffitto, un’espressione tra l’annoiato e l’addolorato, spezzando il suo sorriso condiscendente in ogni circostanza io ci abbia provato o riprovato con un «…sì-ok-ma-me-lo-spieghi-un’altra-volta-che-c’ho-da-fare...».

    Che fa infatti un Gestore di Risorse Umane? O meglio un HR manager (Human Resources manager) per dirla come ai tempi odierni.

    Bah, complicato dire.

    Ma azzarderei di più. Noi, cosiddetti HR, chi siamo?

    Il sapore stesso di questa domanda, oltre che il suo significato, può essere molto diverso se essa sorga all’interno della stessa famiglia professionale HR piuttosto che tra i destinatari dei suoi servizi, i cosiddetti gestiti, siano essi delle vittime, dei pretesi concupiti, o degli accaniti denigratori.

    Per rispondere allora a questo quesito verso chiunque ne sia interessato, e tentare una risposta un po’ più da vicino, la scelta narrativa del libro è quella del racconto quasi sceneggiato, forma che forse meglio di tutte si presta a condurre il lettore direttamente all’interno delle situazioni operative che un HR vive quotidianamente per fargli cogliere nella loro vivida interezza le sensazioni e le congetture che si muovono nella testa di chi agisce in quel ruolo, da un lato, e di chi ne subisce le attenzioni, dall’altro, ma anche le tante variabili esterne che vengono a insinuarsi in quel loro precario legame, specifico e delicato; il più delle volte solo ad ingarbugliare la matassa.

    Tale narrazione, prevalentemente dedicata tra le molte famiglie professionali del mondo HR alla specifica figura dell’HR Manager, si pone l’obiettivo di evitare un approccio espositivo di guida alla lettura a tal fine limitando le concettualizzazioni, prediligendo anzi il sapore e il colore dell’estemporaneità che si vive nel quotidiano. Al lettore viene così offerto un punto di vista privilegiato, quello di spettatore invisibile dotato quasi di poteri magici, o comunque di occhiali speciali, capaci di fargli captare l’interiorità che accompagna i vari attori nello svolgimento delle loro vicende, restando libero, almeno nell’intenzione dell’autore, di costruirsi un’autonoma opinione riguardo i fatti, e di farsi impressionare da ciò che più gli genera stupore.

    La stesura finale del libro vede tuttavia l’inserimento di una serie di riflessioni in chiave più teorica relative alle attitudini e ai valori che dovrebbero sostenere, secondo le convinzioni e l’esperienza dell’autore, chi sceglie questo lavoro. Esse sono la risposta ad uno specifico invito, ricevuto durante la prima fase di lettura e condivisione degli scritti, a rendere più leggibile il sottostante pensiero manageriale presente nei racconti, con considerazioni allo scopo inserite a ridosso alle storie (ma non per questo univocamente a ciascuna riferite), dando così ordine ed esplicitazione a quelli che sono, o sono stati, per chi scrive i capisaldi di una lunga e amata professione. Insomma un punto di vista e di confronto per chi avesse il piacere di guardarlo dritto negli occhi questo meraviglioso mestiere, offerto con la speranza che nulla tolga ad un vergine ingresso nell’ufficio HR, ovvero che non disturbi troppo quell’auspicata libera lettura (ogni sistematizzazione, si sa, è un recinto per l’immaginazione). Un’occasione dunque per riflettere sui temi forti che esso apre e sulle pratiche virtuose che il ruolo di HR Manager richiede messe in atto tuttavia, nella difficoltà di trasporre linearmente un principio in comportamento umano, a volte in maniera vincente e a volte addirittura perdente, al di là delle buone intenzioni. Consentendo allora al lettore che avrà la grazia di percorrerlo tutto questo libro, a chi una scoperta, a chi una conferma, a chi un’incolore osservazione. Comunque una genuina reazione tra le molte possibili - e già verificate - che hanno fin qui spaziato tra il divertimento, l’incazzatura e la fraterna compartecipazione.

    AVVERTENZA

    Una avvertenza non più metodologica, prima di entrare nel vivo. Questa sì, guidata dall’autore.

    Tra le pagine può serpeggiare un dubbio che ritengo valga la pena esplicitare anzi sciogliere subito al lettore, qui e ora:

    l’HR è al servizio dell’azienda o della persona?

    La domanda è in qualche modo scolastica, ma solo in parte.

    Perché, diremmo tutti, azienda e persona viaggiano parallele, tutte e due orientate nella stessa direzione. Anzi, a nessuno verrebbe in mente di estremizzare mai il concetto mettendo addirittura in contrapposizione due variabili che sono l’una funzione dell’altra. Non c’è infatti azienda senza professionisti che la fanno funzionare e non ci sono lavoratori senza un’impresa nella quale e per la quale operare. Sul lato teorico.

    E meno male che a volte ci riusciamo a farle viaggiare a braccetto, queste due entità.

    Ma non è sempre così. Non è per niente scontato che procedano tanto spesso in armonia, o che tale allineamento, quando presente, avvenga in automatico, per il solo effetto di aver tutti, anche noi HR, ben snocciolato i nostri processi, i nostri strumenti e le nostre intenzioni.

    Sul lato pratico infatti, quello del magma quotidiano, che tanto più si agita e si allarga quanto più sono complesse le organizzazioni, stanno i mille abitanti dell’azienda e le loro mille diverse pulsioni, così come molte sono le mani che agiscono contemporaneamente sulle varie situazioni, con messaggi, linguaggi, stili e convenienze diversi. Senza dimenticare le turbolenze del mercato esterno, sempre presenti a terremotare bilanci e previsioni.

    Là sta un imponente sforzo dialettico per tentare di mantenere in pari la bilancia tra gli interessi della persona e quelli dell’azienda, che a tratti può farsi titanico, pericoloso e pure deprimente, quando il risultato è di non vederla in pareggio per niente. Malgrado sia quell’equilibrio una tra le nostre maggiori prerogative, come Direzione Risorse Umane, oltre che fatiche.

    Win-win si chiama, no? Ok per la persona, ok per l’azienda. La linea maestra del nostro lavoro.

    Ma quando l’affare non trova una quadra precisa, se cioè la ciambella non viene affatto col buco, e ahimè una tra le due, al dunque, debba lasciare a terra qualcosa, ecco che ritorna la domanda: se quel saldo è sbilanciato, e dobbiamo scegliere di privilegiare l’una o l’altra, noi come ci muoviamo?

    Là va fatta una scelta di campo. Eh già.

    La mia c’è, e trovo onesto dichiararla. Lo dico chiaro, io scelgo la persona.

    Perché l’azienda ha le spalle larghe, ha più risorse. Certo è un ecosistema complicato, ma meno delicato di quello dell’essere umano. Può incassare e gestire una difettosità molto meglio lei che un animo vero non ce l’ha. E che per questo rischia di meno.

    Il mio viaggio dentro a questo mestiere ha dunque consolidato nel tempo questa certezza. Io sto con la persona.

    Un punto di vista soggettivo, certo, ma che preferisco offrirvi con chiarezza, consapevole con ciò di non suscitare un’automatica condivisione.

    Ma almeno è una mappa, chiara, per cominciare questo cammino.

    CORAGGIO

    L’equilibrista

    Stavolta la grana è grossa.

    Ma grossa davvero. Lo capisco dal tono di voce, e dallo sguardo sfuggente.

    Perché non guarda mai in basso, Giorgio, macché. Ha in genere l’occhio sorridente questo Direttore, lo sguardo franco, senza filtri, di chi condivide sempre tutto; a tratti è quasi un problema questa convivialità per uno del suo rango.

    Eppure, stavolta non parla, farfuglia, mentre mi dice che c’è in ballo una verifica su uno dei suoi capi Area, un controllo in corso su alcune spese effettuate. Biascica che probabilmente non è tutto a posto, ma non gli va di dirmi altro.

    «Mi devo preoccupare?».

    «E chi lo sa? … mah! speriamo di no».

    «Scusa Giorgio, non te ne puoi andare così, dimmi qualcosa in più».

    «Si tratta di soldi, di pagamenti effettuati con la procedura d’urgenza, quella che salta l’autorizzazione preventiva del Controllo di Gestione».

    «Quanti soldi?».

    «Tanti, ma lo voglio capire bene anch’io quanti. Sto chiedendo ai miei di tirare fuori tutto, al volo… date, importi, motivazioni, voglio tutti i dettagli... dai, ora era solo un’anticipazione, appena so la portata del problema torno a trovarti».

    Quindi si tratta di Marcello, rimugino. Che diamine, una delle persone più sane che ci sono in azienda, io gli affiderei anche i miei risparmi. Una bella persona, una bella crescita, una bella scommessa; vinta finora, ma come diavolo è possibile?

    Giorgio non si fa attendere. Il giorno dopo ricompare nel mio ufficio.

    Arriva di prepotenza, sostando sull’uscio con aria furtiva,

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