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Nero di Mummia
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E-book151 pagine2 ore

Nero di Mummia

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Info su questo ebook

Intrigante raccolta di nove storie fantasy dal forte accento gotico e barocco nella scrittura, ma anche nei contenuti. Protagoniste delle vicende sono streghe, tutte giovanissime o di età indistinta che, in un modo o nell’altro, in prima o seconda persona, vivono e rivivono la loro condizione di altre, usando la magia come arma di rinascita o di vendetta.
In ogni storia, il bene e il male vengono completamente azzerati dalla necessità di ognuna di loro di esistere e di essere.
La raccolta si propone, grazie alle storie di queste maledette, di far rivivere, il tempo della lettura, luoghi italiani dimenticati della geografia e della storia, i cosiddetti borghi fantasma: piccoli, spesso minuscoli, paesi abbandonati da tempo dai loro abitanti e condannati al degrado totale e all’oblio. I borghi sono stati scelti e visitati personalmente dall’Autrice nelle varie provincie italiane. In tal modo, il lettore può, rimanendo comodamente seduto in poltrona, lasciare correre la mente in luoghi reali che il tempo e l’abbandono hanno trasformato in luoghi fantastici, ricchi di fascino e, perché no, di lugubre attrazione.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2020
ISBN9788832927313
Nero di Mummia

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    Anteprima del libro

    Nero di Mummia - Emanuela Signorini

    Poe

    Nero di Mummia

    Immerso nel buio, avvertii sulle labbra la consistenza viscosa e già fredda del mio sangue. Sicché, anche senza accendere la luce, capii di essere morto.

    Tuttavia mi ci volle un po’ per comprendere che era davvero finita per me. Anche perché la situazione era alquanto diversa da come ci si aspetta quando si è vivi. Quello che non riuscivo davvero a comprendere era come potessi ancora, da morto, vedermi steso sulla segatura zuppa di colore del mio studio di pittore, avvoltolato nelle mie stesse viscere.

    Cerco di spiegarmela così. Subito dopo la dipartita, c’è qualcos’altro che per un tempo piccolino, diciamo il tempo di un padrenostro, ti dà la possibilità di rivederti e, magari, rimembrarti. Non chiedetemi come possa succedere perché non lo so. Credo che dopo, non ci sia la porta chiusa con violenza. Piuttosto, grazie all’ultimo colpo di remi dell’ultimo respiro, la morte ti riserva un abbrivio di coscienza. Ed è proprio grazie a questa spinta post mortem che adesso, qui e ora, posso dare carne e sangue a queste poche righe sfuggite all’oltretomba.

    Il mondo dei vivi mi regalò molte semine e moltissime vendemmie. E dentro il canestro dei giorni raccolsi anche due grandi amori.

    Il primo fu amore per la pittura.

    Attraverso il velo di nebbia che già mi separa dal mondo di prima, mi rivedo giovane apprendista pittore a Genova. Il mio maestro però non mi dava fiducia. Difatti mi trattava da sguattero, vietandomi qualsiasi prova d’arte su tele o legni. Per umiliarmi mi obbligava a grattare dal pavimento della bottega le tinte che gocciolavano dalle tele degli altri.

    Ma io adoravo i quadri, la pittura, i colori: ero venuto a Genova solo per quello. Se non fosse stato per Bernardo, il pittore che ogni settimana veniva a fare visita al mio padrone, me ne sarei andato via da lì subito. Lo giuro!

    Invece Bernardo, non so come, intuì quello che il mio maestro non aveva ancora capito. Avevo un dono speciale per i colori. Tutte le volte che riusciva, Bernardo mi portava nella sua bottega. Lì mi insegnava i segreti per realizzare le tinte che lo avevano reso famoso.

    Io apprendevo all’istante. Non è mai capitato che sbagliassi a tirare giù i barattoli con le polveri e le ampolle con i liquami fermentati. Bastava che mi svelasse la formula del colore una sola volta, e io la mettevo subito in pratica su tavolette di legno di scarto che lasciava da parte, apposta per me.

    Un giorno, ricordo che era tardo pomeriggio e dal mare arrivava un forte odore di pesce putrido, mentre mi stava rivelando i segreti del nero e delle sue mille varianti, stramazzò a terra rantolando nel suo vomito. Capii subito che dai quartieri di ponente di Genova, la peste era arrivata fin lì, dentro la sua bottega. Dovevo perciò andarmene, senza indugio.

    Lasciai il mio amico che si contorceva, mentre un’acqua densa e insanguinata cominciava a sgorgargli dagli occhi. Non potevo salvarlo, ma potevo salvarmi. In pochi attimi decisi e rubai l’unica cosa preziosa di quel buco di bottega: il libro dei colori che Bernardo aveva stilato in anni di prove e intrugli. Fuggii su, verso le montagne dietro la città, il più lontano possibile dal puzzo di pesce.

    Ci misi un po’ a districarmi tra quelle strettoie montane. Alla fine arrivai a un borgo che non conoscevo. Era Porciorasco: un grumo di case spruzzate sulla montagna da qualche vento balordo e rimaste attaccate lì come un’incrostazione sudicia. Decisi di fare la stessa cosa. Restai.

    Ed è qui che trovai il mio secondo amore.

    Ricordo che sbocciavano i fiori sui rami potati dei mandorli e nelle notti di luna crescente i semi risuscitavano dalle loro tombe di terra bruna. Al sorgere del sole di quel trenta aprile dell’Anno del Signore Milleseicentocinquantotto, lei venne da me.

    La pioggia era caduta per giorni. Ma quella mattina tutto era tornato improvvisamente luce e calore e vita.

    Molti del posto si erano sentiti in dovere di mettermi in guardia perché, nonostante la giornata fosse splendida, quella notte qualcosa di spaventoso sarebbe accaduto. Non ho mai creduto alle storie di spettri raccontate nelle stalle. Figuriamoci se potevo dar retta alle loro bubbole di bifolchi. Ma loro insistevano...

    Stanotte sarà la notte delle streghe. E ammonivano: Chi guarda dentro i fuochi delle maledette, prima che sorga il sole del Primo Maggio, impazzirà e brucerà nelle tenebre per l’eternità.

    Ma c’era il sole, santiddio, e c’era lei alla mia porta! Come potevo dare retta a stupide storie di fuochi e di streghe?

    Dopo che il sole era spuntato pian pianino dalla bruma dell’ultimo mattino di aprile, lei era apparsa davanti alla mia bottega con in mano una tavola in legno, piallata di fresco.

    Dovete sapere, e non mi vergogno a dirlo, che a Porciorasco non ero diventato un Rubens o un Van Dyck, ma più pragmaticamente facevo il pittore di ex voto. Avevo trovato bottega proprio accanto alla chiesa, al piano terreno di una casa massiccia come massicce erano le pietre grigie di cui era fatta. Avevo l’abbeveratoio delle bestie proprio fuori la mia porta, comodissimo per ammollare pennelli o raschiare croste di colori dalle tavolozze. Per mezzo ducato, dipingevo mani, piedi, fegati e cuori salvati in extremis dalla rovina o dalla malattia grazie all’intervento miracoloso di qualche santo di passaggio. Non ci facevo un grande guadagno, ma mi dava da vivere.

    Lei, stavo dicendo, arrivò da me quella mattina di sole, e da quel momento, per tutto il giorno, mi rimase in testa e, da lì, strisciò come una serpe verso il cuore.

    Ricordo che ero seduto fuori dalla mia porticina tinta d’azzurro, con una tavola da iniziare sulle ginocchia. Dovevo illustrare la storia di un bimbo, finito chissà come nelle fauci di un lupo. Il lupo era stato fatto fuori a bastonate, il bimbo si era salvato. Così, adesso, all’ombra dell’alto campanile di Porciorasco, raschiavo la tavola per iniziare la mia opera.

    Lei era giovane, sottile, una curva dolce degli zigomi. Lì per lì mi parve intimorita da me e dal mio lavoro. Mi arrivò davanti all’improvviso, in silenzio, e mi fissò a lungo, con uno sguardo fiammeggiante; dalle iridi mandava scintille di tempesta. Aveva gli occhi grigi, con un’ombra di azzurro, come quelli della gente del Nord, ed erano occhi che avevano la capacità di dilatarsi all’improvviso. Si stringeva addosso un grande scialle scuro, di un nero profondo. Credo che non lo facesse per il freddo, perché non era una giornata di quelle. Penso, piuttosto, che usasse la mantella come una crisalide.

    Capii all’istante che la volevo. Era troppo di più di tutto quanto avessi mai visto fino a quel momento. Mi esplose dentro come il colore vermiglio quando il verzino raschiato finisce di bollire nell’allume di rocca e viene fuori dal crogiuolo con tutta la sua forza eroica. Non avevo mai conosciuto fino a quel momento il potere della bellezza, non ne comprendevo il mistero, ma lo volevo.

    Cosa devo dipingere? le chiesi.

    Un guizzo nero le sfuggì dallo sguardo. La mia voce la fece trasalire ed ebbe un fremito come una farfalla spaventata dal tocco delle dita di un fanciullo: lasciò cadere ai miei piedi il legno e fuggì via, senza dire nulla, prendendo la strada a gradoni di pietra che porta alla cappelletta e al camposanto giù, in fondo al paese. Lasciò dietro di sé un puzzo acre di sangue, misto a stoffa bruciata. Non volli farci caso per non rovinare l’eccitazione che mi aveva procurato l’oscura bellezza di quella ragazzina sconosciuta.

    Arrivò la sera e con gli ultimi sbadigli infuocati del giorno, si spalancò il buio. Il borgo si apprestava a sprangare usci e finestre. Io, però, rimasi a pensarla e ripensarla, seduto nel vano della porta, aperta sulle ombre che avanzavano, con la sola difesa del tremolante fascio di luce gialla del lume, dentro casa.

    Ricordo che pensai Chissà come si chiama... e intanto cercavo nelle stelle il bagliore dei suoi occhi e nelle ombre le curve del suo corpo, dentro la crisalide.

    D’un tratto un vento gelido, proveniente dal cimitero, mi attraversò. E sentii ancora, con un brivido di raccapriccio, quell’odore di sangue e stoffe bruciate che credevo di aver dimenticato. Avrei voluto uscire a cercarla, scordando l’avvertimento dei miei vicini. Poi la stanchezza ebbe la meglio e mi addormentai sulla seggiola in paglia, con la testa reclinata contro il telaio in legno della porta e, alle spalle, la luce stanca del moccolo di sego che esalava un tenue alito caldo da animale ammalato.

    Fu una notte vellutata quella, con una grandissima luna. Non sognai nulla o almeno, non me ne ricordo. Ma se ci penso meglio adesso, mi pare di aver udito nel sonno come un borbottio di voci lontane, qualcosa di oscuro e di confuso.

    Arrivò il mattino. Mi svegliò il tramestio di persone che correvano verso la cappelletta alle porte del paese, passandomi davanti a passi svelti nell’aria opaca. Il sole non si vedeva ancora, ma si capiva che sarebbe venuto su malato, portandosi dietro un giorno senza ombre.

    Saltai su anch’io, con movimenti controllati, vincendo a fatica il dolore che mi piegava la schiena per le troppe ore di innaturale immobilità. Udii gli strilli di alcune donne e il vociare cupo di uomini. Poi, con stupore e raccapriccio, vidi venire su dalla strada del paese una piccola folla di gente che conoscevo. E, in mezzo a loro, avviluppata in una corda da stalla, il capo chino, lo scialle penzoloni dalle spalle, lei: il mio piccolo amore silenzioso.

    Che è successo, cosa le fate? biascicai, con la lingua ancora impastata di sonno.

    Finalmente l’abbiamo presa, la strega schifosa. Stava giù al cimitero a bruciare le ossa dei nostri cari morti. Adesso la paga, una volta per tutte! ringhiò un uomo con la manona pelosa stretta all’estremità della corda che la teneva prigioniera.

    State sbagliando, non potete, è solo una bambina... provai a difenderla.

    Ma una donna del gruppo, alta e magra, col viso pallido e gli occhi infossati, mi fu subito addosso.

    Vi ho visto dormire sull’uscio con la porta aperta e il lume acceso. La vostra anima è ormai di questa maledetta. La notte di Valpurga non perdona: pregate, pregate tanto se volete salvarvi dall’inferno!

    Furono poche parole, sufficienti a dettare legge. Mi ritrovai tra due contadini che mi tenevano fermo, con forza, per le braccia.

    Lei mi passò davanti mesta, senza che io potessi fare nulla per salvarla da quelle belve. Vidi la fierezza nei suoi occhi vellutati. Mi lanciò un ultimo sguardo, ma dentro non c’era la richiesta d’aiuto che speravo.

    Mi chiusero nella mia bottega, sprangando la porta dall’esterno. Urlai, piansi, imprecai, pregai. Niente. Il terzo giorno tolsero la spranga.

    Sei salvo, mi dissero, la strega è finita.

    Corsi alla fossa dietro la chiesa. Sapevo che là, nascosto in una nicchia con la volta di pietra, c’era un pozzo secco. Mi avevano detto che ci avevano buttato le ossa della megera, perché il fuoco, anche se bello alto, non era riuscito a consumarla tutta.

    Anche da morta, quella schifosa, dissero, spegne le fiamme dell’inferno.

    Rimasi là al pozzo a piangerla, non so per quanto tempo. Sopra di me, la luce schizzava in ogni direzione, senza mai riuscire a fare ombra.

    Quando tornai nella mia spelonca, era scesa di nuovo la sera. Le stelle, con i loro fuochi tremolanti, mi rivelarono che cosa dovevo fare. Dovevo ritrarla subito, prima che il tempo me la strappasse per sempre anche dalla memoria.

    Cercai affannosamente il legno che mi aveva

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