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Nascita e infanzia della lingua e della letteratura italiana fino al Dolce Stil Novo
Nascita e infanzia della lingua e della letteratura italiana fino al Dolce Stil Novo
Nascita e infanzia della lingua e della letteratura italiana fino al Dolce Stil Novo
E-book238 pagine2 ore

Nascita e infanzia della lingua e della letteratura italiana fino al Dolce Stil Novo

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Il libro (utile strumento didattico per i docenti e di cultura per tutti) offre un’informazione agile e puntuale sulle origini della nostra lingua e della nostra letteratura (ma anche delle altre lingue e culture neolatine medioevali), pure con l’ausilio di alcuni testi essenziali, non solo italiani. Dal momento, però, che il mondo dal Medioevo è cambiato parecchio, tanto che si parla di realtà internazionali ormai globalizzate e multiculturali, si è ritenuto utile anche proporre approfondimenti (oltre che sul Medioevo europeo) su due culture oggi particolarmente presenti fra noi, come quella araba e quella cinese, di cui si presentano anche aspetti linguistici e culturali moderni, per favorire una migliore conoscenza di modi di essere e di pensare apparentemente così diversi dal nostro, ma che ormai sono entrati a far parte della nostra quotidianità
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2020
ISBN9791220306027
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    Anteprima del libro

    Nascita e infanzia della lingua e della letteratura italiana fino al Dolce Stil Novo - Massimo Desideri

    info@youcanprint.it

    1

    Prima della «letteratura»: l’origine della lingua italiana e delle altre lingue neolatine

    GEOGRAFIA E STORIA LINGUISTICA

    1.1 La lingua latina e le sue origini

    Quasi tutti i popoli europei parlano lingue indoeuropee, un ceppo linguistico, cui, oltre al latino e alle lingue neolatine da esso derivate, appartengono il greco, molte antiche lingue italiche (il veneto, il messapico, l’osco, l’umbro, ecc.), le lingue germaniche, le celtiche, le baltiche, le slave e alcune lingue asiatiche (armenico, iranico, ittita, idiomi indiani).

    Sono, invece, di origine pre-indoeuropea popoli stanziati nell’Italia antica prima dell’arrivo degli indoeuropei, come i Reti, i Liguri, gli Etruschi, i Piceni e i Sicani.

    Gli indoeuropei erano un insieme di diversi popoli di origine euroasiatica (stanziati, in origine, nel territorio compreso tra l’Europa centrale e l’attuale Russia meridionale), che, all’incirca verso il 1400 avanti Cristo, si spinsero verso sud-ovest, occupando la vasta estensione tra i confini dell’India e quelli dell’Europa occidentale.

    In particolare, tre gruppi di popolazione indoeuropea si stabilirono in Italia: i Veneti a nord; gli Osco-Umbri al centro-sud; i Latini lungo la costa tirrenica e la Sicilia orientale.

    Una piccola tribù di Latini, che risulta già insediata nel territorio a sud del Tevere intorno all’anno 1000 a. C., lungo il tratto del suo corso prima di sfociare nel mar Tirreno, fondò, sui colli prospicienti il fiume, una nuova città, Roma, secondo la tradizione leggendaria nel 753 a. C.

    I Latini non erano un popolo vero e proprio, ma, piuttosto, un insieme di famiglie (gentes), dedite soprattutto all’agricoltura, alla pastorizia e a forme primitive di artigianato.

    I vari gruppi di queste gentes erano tenute insieme da legami di sangue, da costumi e tradizioni comuni, da bisogni dettati dalla sopravvivenza e dalla necessità di difendersi dagli attacchi di altre popolazioni; ma soprattutto dalla lingua orale e scritta, i cui caratteri erano stati forse derivati da un alfabeto della colonia greca di Cuma; i Latini, infatti, cominciarono ben presto ad avere molti scambi commerciali con le colonie greche stabilite più a sud.

    Intorno al territorio occupato dai Latini erano stanziate altre popolazioni: a nord i Sabini, gli Etruschi (gruppi dei quali confluirono e si fusero coi Latini), e gli Osci; a nord-est gli Umbri e i Piceni; a nord-ovest i Liguri; a nord-est i Veneti e, ancora più a nord, i Celti; a sud-est Dauni e Messapi; a sud i Sanniti e gli Ausoni, e, ancora più a Sud, i Lucani, gli Enotri, i Bruzi e i Siculi (o Sicani), diversi tra loro per lingua, usi e costumi.

    Tutti questi popoli erano, comunque, al di là delle loro diversità, quasi tutti accomunati dall’appartenenza al grande gruppo linguistico indoeuropeo.

    Come sorgessero e si sviluppassero caratteri comuni alle singole lingue indoeuropee è difficile dire: forse contatti e scambi favorirono l’accoglimento reciproco di elementi linguistici dapprima estranei ai diversi gruppi di popolazioni, ma che poi finirono per entrare a far parte del patrimonio linguistico di ciascuno di essi.

    La lingua parlata in origine dai Latini di Roma era primitiva, molto limitata sia nel vocabolario sia nella grammatica e nella sintassi; per di più, essendo appunto una lingua solo orale, non aveva regole fisse di alcun tipo.

    Il mondo di quella Roma arcaica, agricola e pastorale, nella piccola cerchia della casa, del campo, degli attrezzi da lavoro e delle armi, era ristretto a qualche migliaio di persone, cui potevano bastare poche centinaia di parole, per stabilire regole elementari di convivenza civile e di culto religioso.

    Così, la lingua, tramandata oralmente di padre in figlio, rimaneva abbastanza statica, sempre la stessa; solo di rado vi si aggiungeva qualche vocabolo nuovo, o per contributo individuale o per acquisizione di qualche espressione dai popoli confinanti, con i quali si erano stabiliti contatti politici o commerciali.

    Tuttavia, abbastanza rapidamente, i Latini fondatori di Roma, dunque i ‘Romani’, dopo una prima fase difensiva, cominciarono ad estendere il proprio dominio sulle popolazioni circostanti.

    I Latini mostrarono, infatti, rispetto ad altri popoli, maggiori doti di iniziativa e di capacità, per cui, tra alleanze mirate e guerre vinte, si espansero prima nel Lazio, poi verso l’attuale territorio d’Abruzzo, successivamente in Umbria, in Toscana, in Campania, e via via verso tutte le altre regioni d’Italia.

    Così i Romani assimilarono modelli di civiltà e di sviluppo più evoluti dei loro, come quelli degli Etruschi e delle colonie italiche dei Greci.

    In tal modo, organizzatisi sul piano politico e amministrativo, si volsero verso territori anche fuori d’Italia e in breve (II-I sec. a. C.) riuscirono ad assoggettare i Paesi che s’affacciano sul Mediterraneo, oltre che buona parte dell’Europa e del Medio Oriente: erano così gettate le basi per la fondazione del più grande e potente impero di tutti i tempi, che raggiunse il culmine della sua espansione sotto l’imperatore Traiano (II secolo d. C.).

    1.2 L’Impero di Roma, il latino e la sua diffusione

    L’impero romano, il più esteso e forte impero del mondo antico, contava circa 80 milioni di abitanti, di cui almeno la metà parlava il latino.

    Nessuna lingua del mondo antico aveva conosciuto, prima, una diffusione simile.

    Specialmente nella parte occidentale dell’impero il latino fu appreso e parlato dalla grande maggioranza della popolazione, tanto da essersi conservato fino a oggi in molte regioni: il latino, per evoluzione, ha dato origine alle lingue cosiddette ‘neolatine’, come l’italiano, il francese, lo spagnolo e altre.

    Nella parte orientale, invece, dove da tempo la lingua egemone era il greco, il latino, se si esclude il territorio rumeno, fu poco usato e perciò non si è conservato.

    I Romani imponevano alle regioni annesse e ai popoli conquistati le loro leggi: di conseguenza, la lingua latina doveva necessariamente arricchirsi ed evolversi, assumendo modi e forme sempre più precisi e più complessi, in modo da diventare ‘universale’ e servire non soltanto ai Latini, ma anche a tutti i popoli che entravano gradualmente a far parte dell’impero.

    Popoli di stirpe e di lingua diverse, sottoposti al potere di Roma, erano costretti per i rapporti burocratici, economici, sociali e politici con la classe dominante dei vincitori, ad imparare la lingua latina, che era l’unico strumento di comunicazione, di progresso civile e di cultura.

    In tal modo quei popoli venivano assorbiti ed educati nel culto della tradizione romana, di cui entravano a far parte ma alla quale fornivano, a loro volta, il prezioso e importante contributo della loro cultura.

    La colonizzazione romana ebbe, infatti, un carattere molto particolare: i Romani, più che a colonizzare, procedevano a una graduale «romanizzazione»deipopoli sottomessi, che, un poco alla volta, divenivano ‘romani’.

    Ad essi, pur oppressi dai funzionari e dal fisco dei conquistatori romani, Roma, in genere, permetteva di conservare le loro terre, le città, la religione e spesso anche l’amministrazione locale: tranne alcune eccezioni per speciali ragioni politiche o militari, i Romani di solito non stanziavano «colonie» nel paese assoggettato.

    Quasi sempre la romanizzazione si attuava in modi apparentemente poco invasivi: romani o persone romanizzate in precedenza, in qualità di ufficiali di guarnigione, di funzionari o di negozianti, venivano a stabilirsi nel capoluogo della regione sottomessa.

    Questi nuclei di insediamento erano poi seguiti dalla costruzione di scuole, di luoghi di divertimento e di impianti sportivi, di abitazioni di lusso, quasi sempre di un teatro: gradualmente l’abitato si trasformava in città.

    Il latino, di conseguenza, diventava la lingua dell’amministrazione e del grande commercio: in tal modo il prestigio portato sul territorio dalla civiltà romana favoriva l’accettazione del dominio di Roma soprattutto da parte delle classi elevate, che, per facilitare la carriera dei figli, li mandavano nelle scuole romane.

    A sua volta, il popolo minuto seguiva l’esempio delle classi dirigenti locali e accettava il potere di Roma: ‘romanizzata’ così la città, anche la campagna finiva per ‘romanizzarsi’, anche se molto più lentamente.

    L’accentramento economico e amministrativo dell’impero facilitava questa fusione: così, perfino i culti si avvicinavano l’uno all’altro e gli dèi locali finivano per identificarsi con Giove, Mercurio, Venere e le altre divinità del pantheon romano.

    Se si escludono le regioni del Mediterraneo orientale, dove la lingua dominante rimase il greco, nelle province occidentali la lingua latina a poco a poco soppiantò gli idiomi in uso prima della conquista romana, tanto che, nella maggior parte di esse, il latino è rimasto definitivamente.

    Sono questi i paesi cosiddetti romanzi, o, con una definizione comparsa per la prima volta in testi latini tra il 330 e il 442,la «Romània»: si tratta della penisola iberica, della Francia, di parte del Belgio, dell’Ovest e del Sud dei paesi alpini, dell’Italia e delle sue isole, e infine dell’attuale Romania, l’unico paese dell’Europa orientale veramente romanizzato.

    A questi Paesi romanzi europei, poi, vanno aggiunte le colonie transoceaniche da loro fondate: qui, anche se esse in seguito hanno raggiunto l’indipendenza politica, si continua a parlare la lingua della nazione colonizzatrice.

    È il caso dei paesi americani colonizzati dagli Spagnoli e dai Portoghesi, del Canada francese, dove si parla tuttora una lingua neolatina o «romanza».

    In tal modo i Romani, grazie al prestigio della loro potenza, riuscirono ad ‘esportare’ i loro costumi e la loro cultura anche in territori lontanissimi dalla capitale, che finirono per adottare a poco a poco usi, costumi, cultura degli occupanti, e ne impararono la lingua.

    Il latino, grazie a questa espansione, iniziò a diventare la lingua egemone; ma anch’essa subì, a sua volta, positivamente, l’influsso culturale delle lingue e delle tradizioni dei popoli via via sottomessi, da cui i dominatori acquisivano e rielaboravano nuove conoscenze.

    Alcune parole italiane, che derivano dal latino, rivelano, per esempio, la loro origine dalle antiche lingue mediterranee (es.: abete, cappero, cipolla, cedro, fragola, rosa, casa, capanna, barca, olio, vino, cavallo, cicala); altre parole discendono dall’antica lingua etrusca (es.: persona, popolo, carro, cisterna, lanterna, colonna, milite, cliente, satellite, istrione [‘attore’]), altre dalla lingua degli Osco-Umbri (bufalo, bue, lupo, fico), altre, e sono le più numerose, dalla lingua dei Greci (àncora, bottega, aria, camera, pietra, lampada, macchina, scuola, cattedra, governo, piazza, basilica, grammatica, filosofia, poeta, poesia, teatro, musica, geometria)

    Così il latino diveniva anche lo strumento per trasmettere, ben oltre i confini di Roma, elementi provenienti da altre civiltà: sicché sia le parole di origine latina, sia quelle assimilate dalla lingua degli altri popoli furono diffuse largamente, prima in Europa e poi, più tardi, in gran parte del mondo.

    Il latino, diffondendosi tanto estesamente in tutto l’Impero grazie all’espansione militare e alla susseguente dominazione, si sostituì gradualmente alle parlate locali, pur senza farle scomparire, e divenne la lingua di un territorio vastissimo, che andava dalla Spagna, ad occidente, fino alla Dacia, ad oriente.

    A poco a poco la civiltà dei Romani sovrastò così le altre in vari campi, specie nell’organizzazione sociale e politica, nel diritto, nella tecnica e nell’architettura.

    1.3 Il latino «classico» e il latino «volgare» dell’Impero di Roma

    Finché Roma mantenne il pieno dominio sull’impero, la lingua latina fu un modello linguistico universale.

    Se, in origine (III sec. a. C.), le prime forme letterarie della lingua latina si ispirarono alle greche, ben presto la civiltà linguistica e letteraria di Roma divenne sempre più originale e cosciente dei propri valori.

    Soprattutto nell’età di Cesare e di Augusto (primo secolo avanti Cristo) il latino giunse, nell’arte letteraria, alla sua massima originalità e universalità, tanto che il latino di quell’epoca si definisce ‘classico’ («di prima classe») per eccellenza: in quell’età produssero le loro opere Cicerone, oratore sommo e teorico di modelli di lingua e di stile, Catullo, Lucrezio, storici ed eruditi come Varrone, Polibio, Cornelio Nepote, Sallustio, Cesare e Tito Livio, poeti come Virgilio, Orazio, Tibullo e Ovidio.

    E che il latino fosse ormai ‘universale’ lo dimostra proprio il fatto che molti di questi scrittori non erano nativi di Roma: Virgilio era originario dell’attuale Lombardia, Orazio lucano, Catullo veneto, Ovidio era di Sulmona, città del territorio abruzzese, Varrone di Rieti, Polibio greco, Tito Livio padovano, senza considerare altri vissuti nei secoli successivi, come, per esempio, lo storico Tacito o il filosofo Seneca, originario della Spagna.

    Furono questi scrittori, pur diversi tra loro per l’inconfondibile personalità artistica, a modellare e portare a somma perfezione la lingua latina, foggiando un modello linguistico fondato su una grammatica ed una sintassi regolari e rigorose, destinate a costituire un punto di riferimento fondamentale per tutte le lingue successive nel corso dei secoli.

    È ovvio, però, che così come accade oggi che vi sia una notevole differenza tra la lingua raffinata ed elaborata usata dagli scrittori e quella usata dalla gente nella comune conversazione anche nella Roma antica accadeva la stessa cosa.

    Accanto alla lingua che si può definire «aulica», cioè nobile e solenne, parlata dalle persone colte e usata dagli scrittori, ce n’era un’altra, popolare e informale (il latino «parlato» o «volgare», cioè ‘di uso comune’), parlata dai più.

    Questa lingua non teneva conto delle regole grammaticali e preferiva espressioni e parole spontanee e vive; essa rifiutava, o non conosceva, il linguaggio adoperato dagli scrittori, e forgiava vocaboli d’altro genere, spesso alterati o modificati, tuttavia più adatti a comunicare con immediatezza ed essenzialità impressioni e concetti.

    Del latino parlato tutti i giorni possiamo farci un’idea leggendo, per esempio, le scritte ritrovate sui muri delle case, specialmente a Pompei (si tratta di scritte scherzose, di annunci pubblicitari, di parole ingiuriose, di conti appuntati da negozianti), le iscrizioni funerarie, le defixiones (maledizioni intagliate su chiodi o tavole) o anche la lingua quotidiana riprodotta ‘realisticamente’ nell’opera di qualche scrittore latino, come fa Plauto nelle sue commedie, Catullo in qualche suo carme o Petronio nel Satyricon.

    Al di fuori di Roma, poi, le differenze nel parlare ‘latino’ erano ancora più marcate: c’era il latino parlato nelle province (il sermo provincialis), c’era il latino ‘volgare’ dei contadini (il sermo rusticus), ben differente da quello del popolo di Roma (il sermo plebeius) o da quello ‘informale’ delle persone colte (il sermo cotidianus); c’era il latino dei legionari, che usavano un gergo tutto loro, fatto di termini militari (il sermo militaris), a volte frammisto a parole tipiche del territorio dove si trovavano in servizio; e poi c’era il latino dei popoli vinti da Roma, che, pur usando la lingua dei vincitori per necessità burocratiche e amministrative, continuavano a parlare la loro lingua originaria, mescolandola con quella latina.

    Insomma, nel corso dei secoli, la lingua latina (parliamo, ovviamente, della lingua ‘parlata’) subì un processo di contaminazione, mescolandosi con gli idiomi dei popoli con cui Roma veniva a contatto, e un naturale processo di evoluzione interno, come quello che avviene, di generazione in generazione, per tutte le lingue, antiche o moderne, prodotto dall’uso e dal bisogno di aggiornamento di forme, espressioni e lessico.

    Questi processi evolutivi sono naturali, dato che la lingua è un organismo vivo, che

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