Le iscrizioni funerarie di Ariminum
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L'autrice
Cecilia Barresi, nata a Torino nel 1988, ha studiato al Liceo Scientifico A. Volta di Riccione e ha conseguito la Laurea triennale in Lettere Moderne presso l'Università degli Studi di Ferrara concludendo gli studi con la Laurea Magistrale in Italianistica, culture letterarie europee, scienze linguistiche, presso l'Alma Mater Studiorum Università di Bologna con una tesi in Epigrafia Romana dal titolo La società di Ariminum: dati dal dossier delle iscrizioni funerarie.
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Le iscrizioni funerarie di Ariminum - Cecilia Barresi
sitografia
Introduzione
La città di Rimini ha la fortuna di possedere un vastissimo patrimonio epigrafico risalente all'epoca romana, un bene storico e culturale di estrema importanza grazie al quale noi oggi siamo in grado di ricostruire, almeno in parte, i diversi aspetti sociali, economici, religiosi e politici di una società che testimonia la sua presenza attraverso la scrittura su pietra. Fondata dai Romani nel 268 a.C., l'antica Ariminum rappresentava per il Senato di Roma non solo un avamposto strategico per la sua avanzata alla conquista della Gallia Cisalpina[1], ma al tempo stesso era anche uno dei più importanti porti romani sull'Adriatico settentrionale. La sua locazione infatti, vicino al mare e alla foce del fiume Ariminus, antico nome del fiume Marecchia, fece sì che diventasse il principale snodo per le comunicazioni tra mare e monti, tra il centro e il nord d'Italia, favorito anche dalla costruzione di tre vie consolari di importante passaggio: la via Flaminia, la via Emilia, la via Popilia.
Il consistente numero di epigrafi riminesi conservate dalla tradizione diretta e indiretta, è probabilmente il risultato dell'attenzione di cui ha goduto la città di Rimini da parte di numerosi eruditi sin dal Rinascimento, interesse favorito, forse, anche dalla presenza di monumentali opere pubbliche di epoca imperiale, quali l'arco di Augusto e il ponte di Tiberio, vestigia sopravvissute sino a oggi e che, nel corso del tempo, hanno suscitato certamente un grande interesse archeologico ed epigrafico[2]. Al XV secolo risale infatti il Codice Rigazziano, il primo manoscritto che raccoglie tutte le epigrafi riminesi, punto di riferimento per le sillogi successive e conservato oggi presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini. In questa raccolta vengono presentate tutte le epigrafi di ambito funerario restituite dalla tradizione. Sebbene siano state escluse le pietre con solo frammenti di iscrizione, non significativi ai fini di una ricerca di tipo contenutistico, l'epigrafia funeraria risulta comunque una parte consistente all'interno dell'interno patrimonio epigrafico. Si tratta di testi in latino scritti su pietra che ci restituiscono le parole e i pensieri degli antichi Riminesi i quali, attraverso il loro monumento funerario, tentarono di sfuggire all'oblio della morte e del tempo, affidando il loro ricordo alla pietra.
Gli obiettivi di questo lavoro di ricerca sono stati principalmente due: cercare di estrapolare ogni tipo di informazione storica, sociale, culturale ed economica attraverso l'analisi delle iscrizioni, i cui risultati potrebbero consentire un primo tentativo di delineare un quadro sociale della società riminese di epoca romana (status sociale ed economico del defunto e della sua famiglia, dati biometrici, mestieri, provenienza delle persone, rapporti sociali e commerciali di Rimini con altre città); cercare di contribuire alla tutela e conservazione di questo patrimonio storico-culturale, una tutela che allo stesso tempo rende giustizia alla volontà di coloro che, attraverso le pietre, hanno cercato di non essere dimenticati.
[1] Per Gallia Cisalpina si intende la zona settentrionale della penisola italiana, compresa tra l'arco alpino, il mare Adriatico e la dorsale settentrionale degli Appennini, proprio fino alla valle del Marecchia.
[2] DONATI 1981, p. 33.
Gli antichi romani e la morte
I monumenti funerari, le necropoli antiche, l'insieme delle ritualità e delle pratiche di culto che riguardano l'ambito funerario possono esprimere i valori ideologici e culturali di una comunità che si confronta con la morte e la caducità della vita. La società romana, razionale e pratica, non aveva elaborato una vera e propria filosofia al riguardo, ma aveva accolto l'eredità della cultura etrusca e gli influssi di quella greco-orientale. I seguaci di alcune correnti filosofiche di tipo misterico e di provenienza orientale credevano nella sopravvivenza dell'anima dopo la morte, un credo che giustificava e garantiva anche l'esistenza di una vita nell'aldilà; ma così non era per la gente comune. Per l'uomo antico era primario dare una degna sepoltura ai propri defunti, condizione imprescindibile affinché l'anima trovasse la pace perpetua dopo la morte: questo era permesso solo attraverso la restituzione del corpo del defunto alla madre Terra, la stessa che lo aveva generato alla nascita.
La società romana credeva inoltre nella divinizzazione dei propri avi defunti, che chiamava Di Manes, dei Mani, spiriti buoni
, come sottolinea la stessa etimologia del nome che deriva dall'antico aggettivo manus, buono
, e che esprime un profondo senso di pietà e di rispetto unito al timore di non farseli nemici. La paura era data dal fatto che secondo l'uomo romano i vivi e i morti potevano influenzarsi a vicenda, come testimoniato anche dalle epigrafi di età augustea che presentano la formula D M (Dis Manibus) o D M S (Dis Manibus sacrum) seguita dal nome del defunto: per i vivi, la vita dei defunti era qualcosa di sconosciuto, non controllabile e, di conseguenza, potenzialmente pericoloso. Era dunque necessario adempiere a tutti i riti e culti previsti in onore degli avi e, come ricorda Cicerone[1] nella disposizione della X Tavola, Deorum Manium iura sancta sunto, siano sacri i diritti degli dei Mani
. Il ritrovamento di numerosi resti archeologici di banchetti organizzati sul luogo di sepoltura porta a credere che, per i Romani, i defunti risiedessero proprio accanto alle loro tombe e che in queste occasioni vivi e morti potessero condividere insieme cibo e nutrimento[2].
[1] Cic., De legibus, 2,22.
[2] MONTEVECCHI 2010, p. 13.
Riti funerari
Quando un uomo giungeva al termine della vita, aveva inizio una serie di riti e comportamenti specifici volti alla preparazione e alla sepoltura del corpo del defunto, al quale dovevano essere riservati tutti gli onori previsti, con un funerale degno del suo status insieme al lutto portato dalla famiglia.
Il primo rituale da compiere nei confronti del defunto avveniva al momento del trapasso, quando l'uomo esalava l'ultimo respiro che coincideva con l'uscita dell'anima dal corpo. Il parente più prossimo dava al morente l'ultimo bacio, in modo da raccogliere
il suo respiro, cioè la sua anima (il cui nome deriva da ánemos, soffio, alito), con l'obiettivo di cercare di far sì che questa non divenisse preda di demoni ostili che le avrebbero impedito di raggiungere la sua ultima destinazione[1]. Allo stesso tempo, la medesima persona si preoccupava anche di chiudergli occhi e bocca. Seguiva il momento della conclamatio, durante il quale i parenti raccolti intorno al defunto lo chiamavano ad alta voce, forse per assicurarsi dell'avvenuto decesso. L'uomo veniva poi deposto sul suolo, gesto volto a sprigionare le forze ctonie che simboleggiava il ritorno alla terra, dalla quale era stato generato[2].
Il corpo del defunto veniva poi preparato al periodo di esposizione per permettere ad amici e parenti di recarsi nella sua casa a rendergli omaggio. Prima di tutto veniva lavato con acqua calda e unto con oli ed essenze profumate (unctura), usati per cercare di tardare la decomposizione. Il cadavere, per i Romani, era considerato fonte di impurità; per questo motivo gli uomini potevano avvicinarsi solo dopo che era avvenuta la toletta funebre. Questa era generalmente compito delle donne di famiglia, le sole che potevano agire da intermediarie tra l'uomo e la morte grazie alle loro stesse funzioni fisiologiche di generatrici di vita[3]. Le famiglie più abbienti potevano invece permettersi di relegare l'incarico alle imprese professionali di pompe funebri, i libitinarii[4], i cui schiavi, i pollinctores, si occupavano della preparazione e pulizia del corpo.
Il defunto veniva poi vestito con il suo abito migliore (nel caso di un civis con la toga o toga praetexta se era un magistrato), gli veniva posta sulla bocca una moneta[5] e veniva così adagiato sul letto funebre ornato di fiori e foglie, la cui fattura ostentava le condizioni economiche della famiglia. Collocato nell'atrio della domus, veniva così esposto al compianto di familiari e amici, mentre fuori dalla porta di casa veniva appeso un ramo di cipresso, simboleggiante il lutto della famiglia[6]. In base alla notorietà del personaggio il periodo di esposizione poteva durare dai tre ai sette giorni a seguito dei quali iniziava il funus, funerale vero e proprio con il trasporto del defunto verso il luogo di sepoltura accompagnato dal corteo di amici e parenti.
A personalità importanti e insigni era dedicato il funus indictivum, cerimonia pubblica riservata a censori, imperatori e loro familiari, magistrati, notabili. Il funerale pubblico era caratterizzato dalla fastosità e dalla solennità della processione, il cui corteo veniva aperto dalle imagines maiorum[7], maschere di cera dipinte che raffiguravano gli avi defunti. Il corteo, giunto al foro, si fermava per ascoltare l'orazione funebre pubblica per poi proseguire verso le porte della città, verso la necropoli. Altra caratteristica dei funerali solenni era la presenza dei ludi funerari tra i quali i giochi gladiatori, organizzati a spese della famiglia in lutto, che rappresentavano sia un onore per il defunto che un dono al popolo da parte del suo erede. In età imperiale vennero interpretati come doni postumi del morto, anche se, nello stesso periodo, i giochi gladiatori persero la loro funzione religiosa per divenire un momento di mero svago e divertimento[8].
In età imperiale, nel caso di morte di un imperatore o di un membro della sua famiglia, non solo il funerale ma anche il lutto diveniva pubblico ed era proclamata la sospensione dell'amministrazione della giustizia[9].
Per i soldati deceduti i funerali erano di carattere privato e le spese venivano sostenute dai commilitoni. I servi venivano sepolti nel più breve tempo possibile, il giorno stesso della morte, mentre gli impiccati avevano un funerale ancora più rapido, in quanto la sepoltura doveva avvenire entro un'ora dalla denuncia.
I funerali degli impuberi invece avvenivano di notte ed erano molto semplici, di carattere privato. La morte di un bambino non era solo avvertita come una punizione individuale ma anche come una sconfitta della società: era la speranza del futuro vanificata dalla morte, una discendenza che veniva interrotta, una parte di società il cui destino non aveva permesso di completare la piena maturità. Da questo punto di vista, nei corredi dei bambini sono particolarmente significative le bambole, giocattolo femminile per eccellenza. Prima delle nozze ogni bambina era solita dedicare la sua bambola alla dea Artemide o Afrodite e, alla nascita del primo figlio, appendeva il giocattolo nel tempio della dea in segno di buon auspicio o come voto. La presenza della bambola nel corredo funerario indicava di conseguenza una brusca interruzione della vita, poiché la bambina non era riuscita a raggiungere l'età da marito e ad avere dei figli: la bambola assume così il significato di castità e di maternità mancata[10].
Conclusa la cerimonia funebre, tutti coloro che erano stati a contatto con il corpo del defunto dovevano preoccuparsi di compiere alcuni riti di purificazione, poiché il cadavere, come già accennato in precedenza, era fonte di impurità. Era dunque necessario che i presenti al funerale si purificassero attraverso il rito della suffitio: ognuno veniva toccato con un rametto di alloro immerso in acqua lustrale e, dopo il salto del fuoco, le persone potevano considerarsi purificate
[11].
Il rito non era tuttavia sufficiente a purificare la famiglia del defunto, considerata funesta, cioè immersa nel lutto. Questa doveva consumare presso la tomba un banchetto funebre in silenzio, il silicernium, pasto sacro offerto agli dei Mani, rituale volto a simboleggiare la nuova condizione di perpetuo silenzio del parente deceduto.
Seguivano nove giorni di lutto, i feriae denicales, giornate in cui gli antenati annoveravano tra gli dei coloro che erano morti e in cui la famiglia era oggetto di purificazione insieme al lararium, luogo di culto delle divinità del focolare domestico.
Dopo questi giorni di lutto che avevano isolato la famiglia dalla vita sociale, veniva organizzata la cena novendialis, un banchetto sempre in onore degli dei Mani e al quale erano invitati anche gli amici come segno di piena reintegrazione della famiglia nella società.
[1] DE FILIPPIS CAPPAI 1997, p. 50.
[2] DE FILIPPIS CAPPAI