Accorgersi: L’inizio di tutte le storie del mondo
Di Paolo Lipari
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Info su questo ebook
PAOLO LIPARI, regista e saggista, ha pubblicato: Tesoro mio. Otto racconti ispirati al tesoro (mille monete d’oro!) trovato nel sottosuolo del centro di Como http://www.newpressedizioni.com/autore-paolo-lipari-380172.html
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Anteprima del libro
Accorgersi - Paolo Lipari
accorgersi.
Parte prima
1. Accorgersi
Non mi ero accorto di aver lasciato i fanali accesi. Mi sono accorto che oggi è il tuo compleanno! Ti accorgi di quante fesserie stai dicendo? Il parlare comune parrebbe confortarci: l’uso del verbo accorgersi è ancora frequente e diffuso. Ci sono però delle avvisaglie importanti da non sottovalutare. Innanzitutto la sua latitanza nei messaggi digitali, sui social, negli sms... È un verbo troppo ingombrante, scomodo, faticoso. È duro da coniugare e soprattutto sembra facilmente sostituibile con verbi molto più semplici e siglabili. Basti pensare all’avvitamento sillabico di una locuzione quale te ne saresti dovuto accorgere.
Accorgersi ha un suo volume ampio, articolato. Raramente riesce a trovare casa in file che si fanno sempre più compressi. In uno scenario dove tutto si miniaturizza, è un vocabolo monumentale. Molto più pratico il faccino con la bocca ad o
.
Accorgersi è un verbo che ha poco a che fare col presente. Puzza già di vecchio, sembra impolverato.
Ce lo dicono almeno due segnali molto precisi. Innanzitutto l’uso sempre più raro delle parole ad esso imparentate. Accorto, per esempio, è un aggettivo che si usa sempre più raramente. Accortezza sembra poi appartenere a un’epoca ancora più remota. Prevalgono formule che suggeriscono un pragmatismo meno dotto e compassato. Vince chi è un tipo tagliato, sveglio, mica scemo, sgamato...
L’altro segnale viene dal lento tramonto delle parole cugine: pentirsi, vergognarsi, impietosirsi... Sono tutti verbi intransitivi pronominali, la grammatica li ha classificati così. Sembrano qualcosa che non sono. A prima vista li battezzi riflessivi e invece no, l’azione non transita sullo stesso soggetto che la compie. Sono un caso a sé. Scritti o pronunciati, non suonano d’altri tempi? Evocano dimensioni interiori vagamente ottocentesche. Fanno pensare a un professore anziano chino su un diario, non certo a un ragazzo connesso alla rete. Mi pento... dirò più semplicemente: Ho fatto una cavolata. Mi vergogno... in modo più sbrigativo: Ho fatto una figuraccia! Hanno una struttura complessa, impegnativa, simile a un comò a cassettoni. Non ricordano certo l’agile funzionalità di un mobile Ikea. Indicano gesti invisibili, azioni totalmente private. Impossibile postarne una foto.
Sopravviveranno nel nostro arredo linguistico? Chissà. Ma… accorgersi, ammesso pure che sia un verbo in pericolo, perché mai meriterebbe tanta cura? Ciò che segue è un tentativo di risposta.
1.1. Più che una parola
Un vocabolario è difficile da sventolare ma vale una bandiera. Chi non sa come fronteggiare il nemico spesso chiede asilo al libro delle parole. È come cercare rifugio in un territorio franco, in una zona di mezzo, dove ognuno deve deporre le armi e sottomettersi a una superiore autorità.
Che l’argomento da trattare sia la costituzione piuttosto che la bulimia, nelle chiacchiere sul treno, nelle dispute salottiere, nei temi in classe abbiamo imparato a difenderci con la strategia più collaudata: il ricorso al libro di tutti. La sacra inconfutabilità del dizionario! Se poi è quello etimologico, la strategia catenacciara può persino evolversi in uno straordinario contropiede.
Tirare in ballo l’origine delle parole è una mossa che può cogliere di sorpresa, spiazzare e persino ribaltare l’equilibrio tra i contendenti.
Sei ormai alle corde, non hai più argomenti da opporre ma ecco il colpo che può riaccendere il match: «Sai almeno da dove deriva questa parola?». Bastano due secondi di esitazione da parte dell’interlocutore per riaprire improvvisamente la partita. Diciamocelo: l’etimologia (forse la più affascinante delle discipline) è anche un’ottima ciambella di salvataggio.
Ma è soprattutto un piacere senza fine. Ci fa sentire cani da caccia all’improvviso allegri, giocherelloni, pronti allo scatto. Finisci per puntare la parola quasi fosse una lepre. Mai sapresti dire perché le stai correndo dietro con tanto entusiasmo. Ma una volta sciolti i lacci, è impossibile fermarsi. È quello che è capitato anche a me. Dentro la boscaglia ho fiutato qualcosa che di colpo mi ha messo non so quale smania addosso. Mi sono lanciato in una corsa che non ha ancora trovato una fine. È diventata un’idea mobile, ben più pericolosa di quella fissa. La rincorro ma in fondo è lei che mi segue. Non so se e quando me ne libererò. Anche perché l’avventura si fa sempre più eccitante. Chiedo allora scusa ma lo devo dire: sapete da cosa deriva la parola accorgersi?
Qualcuno tira in ballo cor, cordis, il cuore. Ma lo fa solo per una deriva romantica. In realtà accorgersi viene da ad corrigere, ovvero: andare a correggere. Ecco, è qui che ho sentito i corni da caccia. Come dire? mi sono accorto di accorgersi e non me ne sono più staccato.
1.2. Un film
Che cosa c’è di così intrigante in questa origine etimologica? cosa c’è di tanto seducente in quelle quattro benedette sillabe? Il fatto è che non si limitano a costruire una parola: ci consegnano un’intera sequenza. È ben specificato nel Dizionario etimologico della lingua italiana della Zanichelli: L’evoluzione di significato presuppone le seguenti fasi: correggere una falsa impressione dopo aver preso una più tranquilla visione della cosa
.
Proprio così: uno dice «mi sono accorto» e verrebbe subito da pensare ad un’azione istantanea. Non per niente quando ci si accorge è sempre d’un tratto o in quell’istante o all’improvviso... Ebbene quel momento fulmineo nasconde in realtà più fasi. Un’estensione temporale articolata in un racconto con tanto di incipit, sviluppo centrale e finale. Non solo due occhi che si spalancano. Accorgersi racconta una storia. Per chi come me ama il cinema viene ancora più facile dire: più che una parola, è un film.
Per capirlo meglio, chiediamo aiuto proprio ad un personaggio cinematografico: Amélie, la protagonista de Le Fabuleux Destin d'Amélie Poulain, il noto film del 2001 diretto da Jean-Pierre Jeunet. Scena cruciale: Amélie è davanti allo specchio con una boccetta di profumo in mano. D’un tratto, dal televisore la raggiunge la notizia della morte di Lady Diana. Si blocca impietrita. Le scivola di mano il tappo di vetro che va a sbattere contro il battiscopa. Il rumore richiama l’attenzione della ragazza, ancora tutta presa dalle immagini in tv. Si china per raccoglie il tappo ma mentre fa per rialzarsi... si accorge di qualcosa: una piastrella, nel punto dell’impatto, si è scollata dalla parete. Lentamente le si avvicina, la rimuove... dietro di essa un piccolo vano buio e polveroso. Amélie, incuriosita, allunga la mano... vi trova una piccola scatola di latta. La estrae con delicatezza, la ripulisce, la apre come fosse un tesoro. Sorride: al suo interno figurine e giocattoli di un bambino di quarant’anni fa. Amélie si è accorta!
Niente di strano? Nulla di eccezionale? Allora vuol dire che siamo andati troppo in fretta. Proviamo col rallenty. Guardiamo meglio... ecco, non è incredibile? In realtà non ci sono solo tre fasi: vita quotidiana, micro evento, sorpresa. Ce ne sono molte di più... almeno dodici! Intorno e dentro all’accorgersi un succedersi di istanti così rapido e complesso che nemmeno una campionessa di tuffi dai 10 metri mette insieme tanti movimenti.
Rivediamo: 1) C’è Amélie che è tutta presa dal telegiornale (e noi con lei...); 2) e c’è un’altra cosa importantissima: ha un’idea in testa (il vocabolario dice un’impressione per sottolinearne la genericità). Anzi, a ben vedere, ne ha ben più di una. Alla rinfusa: ha in mente, senza esserne consapevole, che nulla potrà mai distrarla dal notiziario; che i confini della sua casa sono affidati a pareti