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L'immaginario polimorfico fra letteratura, teatro e cinema
L'immaginario polimorfico fra letteratura, teatro e cinema
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E-book492 pagine6 ore

L'immaginario polimorfico fra letteratura, teatro e cinema

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Storie, miti e temi sono oggi sempre più disseminati attraverso ogni forma possibile di medium. È quella che Henry Jenkins ha chiamato cultura della convergenza, caratterizzata da prodotti come Matrix, pensati per essere transmediali, ma in fondo più antica di quanto si creda. L’immaginario è sempre stato plurale: polifonico, politeista, polimorfico (un termine, quest’ultimo, con cui Freud definiva il desiderio): e ad alcune di queste disseminazioni è dedicato questo volume.
Dopo aver attraversato alcune categorie estetiche fondamentali del mondo contemporaneo (il camp, il sublime, il pastiche), vengono ripercorsi miti (Edipo, Antigone, Medea, Ulisse, Pentesilea, Dioniso) e temi di lunga durata (il mostro, il doppio, la metamorfosi, la finestra, la seduzione, il duello), nella loro metamorfosi infinita fra letteratura, teatro, musica, e soprattutto cinema. 
LinguaItaliano
Data di uscita25 feb 2019
ISBN9788868227722
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    Anteprima del libro

    L'immaginario polimorfico fra letteratura, teatro e cinema - Massimo Fusillo

    Collana diretta da

    Roberto De Gaetano

    Serie

    No Man’s Land

    MASSIMO FUSILLO

    L’IMMAGINARIO POLIFORMICO

    Fra letteratura, teatro e cinema

    Frontiere. Oltre il cinema

    Collana diretta da Roberto De Gaetano

    Comitato scientifico

    Gianni Canova, Francesco Casetti, Ruggero Eugeni,

    Pietro Montani, Dork Zabunyan

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Stampato in Italia nel mese di dicembre 2018 per conto di Pellegrini Editore

    Via Camposano, 41 (ex Via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    ISBN: 978-88-6822-772-2

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Introduzione

    Nel pieno degli anni sessanta, all’interno di uno dei gruppi di avanguardia più sperimentali, il Fluxus (di cui facevano parte il musicista John Cage, e il primo video-artista, Nam June Paik), si iniziò a parlare di Intermedia. Con questo termine, ripreso da Coleridge, l’artista Dick Higgins intendeva definire una nuova mentalità basata sulla fluidità e non sulla categorizzazione rigida, avendo come bersaglio polemico principale il modernismo e l’astrattismo di cui era alfiere il potente critico Clement Greenberg[1]. Si mirava così a creare una sinergia fra tutti i linguaggi artistici, seguendo ancora una volta l’utopia wagneriana dell’opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk). Pochi decenni dopo, la rivoluzione digitale ha dato all’intermedialità un nuovo slancio, facendola diventare una dimensione fondamentale del nostro quotidiano. Tutti i dispositivi con cui interagiamo di continuo funzionano come autentiche protesi del nostro corpo (smartphone, visori per la Realtà Virtuale e Aumentata, e altri apparati connessi) con cui sfumiamo i confini tra reale e virtuale, tra dimensione online e offline. Queste nuove tecnologie mediali permettono anche di esperire la costante e strutturale fusione fra parole, suoni e immagini (videogame e altre narrazioni interattive), mentre sul web la disseminazione ed espansione di storie online attraverso forme narrative disparate (serie tv in streaming, webseries, fan fiction e fan movie, e tanto altro) è ormai un fenomeno capillare e sempre crescente, che oggi viene chiamato transmedialità. Rispetto a questa metamorfosi continua non ha senso, per gli studiosi di letteratura, chiudersi nel culto del passato o nella difesa ad oltranza della tradizione umanistica. Al contrario, occorre superare ogni logica gerarchica, ogni orgoglio per una presunta superiorità della comunicazione verbale, della letteratura o del libro, e accettare le sfide sempre più complesse dell’immaginario contemporaneo. Con questo non voglio certo esaltare acriticamente le nuove tecnologie e i nuovi media, e la testualità diffusa che producono, lasciandomi andare a un’euforia postmoderna un po’ tardiva. Vorrei solo auspicare una maggiore attenzione alle nuove dinamiche espressive create dall’immaginario contemporaneo, e alle nuove configurazioni che le nozioni di autore, testo e pubblico stanno acquisendo grazie alla rivoluzione digitale.

    Il termine immaginario è forse quello più adatto a designare la disseminazione infinita di storie e riscritture, soprattutto se lo si sgancia da ogni connotazione archetipica: perché è un concetto ampio e aperto, in cui si incrociano strategie espressive, linguaggi artistici, e modelli culturali. Per la genealogia critica di questo concetto bisogna certo ricordare gli studi di Sartre e Bachelard sulla fenomenologia dell’immaginazione, ma non si può non citare anche la grande impresa didattica di Remo Ceserani, Il materiale e l’immaginario, concepita e realizzata assieme a Lidia De Federicis come un laboratorio in cui si stratificano percorsi tematici di vario genere, in un parallelismo mai rigido con le trasformazioni sociali della vita materiale[2]. Quanto al secondo termine del nostro titolo, polimorfico, è un chiaro richiamo alla categoria della metamorfosi come modello critico sufficientemente duttile per poter esprimere la disseminazione intermediale di cui abbiamo appena parlato. Un modello non storicistico, non teleologico, e non lineare, ma tutto teso verso la proliferazione e la pluralità. Come è noto, polimorfico è anche il termine scelto da Freud per designare, assieme a perverso, il desiderio sessuale infantile, che diventa poi una componente fondamentale dell’inconscio e della vita psichica in generale, quindi di fenomeni da cui l’arte e la letteratura attingono a piene mani. Infine, il prefisso poli- richiama alla mente categorie che in forme e modi diversi esaltano la compresenza di prospettive multiple: la polifonia, termine musicale che nella teoria di Bachtin diventa una caratteristica transculturale della forma romanzo (estendibile e di fatto estesa spesso alla letteratura nel suo insieme)[3]; e il politeismo, forma di religione erroneamente considerata primitiva e superata nella mentalità comune, e di recente rivalutata in quanto modello di apertura, curiosità, flessibilità, e rispetto dell’altro. Alla fine del suo bel saggio Elogio del politeismo, Maurizio Bettini si chiede quanto la perdita di autorialità e il declino del testo provocati dalle nuove tecnologie e dai social network possano contribuire a incrinare la sacralità unilaterale di una verità assoluta, a cui sono legati tutti i monoteismi e i fondamentalismi[4]. Difficile rispondere a questa domanda, che ci farebbe uscire troppo dal nostro tema. Possiamo però sicuramente affermare che l’immaginario è sempre stato e sarà sempre politeista, perché prodotto dall’intersezione di miti, racconti, e temi poliedrici, e di fondo incompatibile con l’idea di una verità unica.

    La proliferazione infinita di racconti e riscritture non è certo un fenomeno nuovo, prodotto dall’intermedialità digitale: è notoriamente esistito in fondo da sempre, e ha avuto innumerevoli teorizzazioni: basta pensare alla testualità diffusa propugnata da Roland Barthes in S/Z[5]. Quello che caratterizza la cultura contemporanea è una maggiore fluidità e porosità, che impongono anche nuovi modelli interpretativi. La comparatistica affronta da lungo tempo il rapporto fra letteratura e altre arti, ed è quindi il campo migliore per praticare questo tipo di approccio, per scandagliare tutte le metamorfosi dell’immaginario. È importante però superare ogni logica binaria: studiare gli adattamenti one to one, ad esempio, può essere utile e affascinante, ma occorre valorizzare la retroattività di ogni riscrittura. Un buon rifacimento di Macbeth ci spinge anche a rileggere Shakespeare in una nuova chiave, influisce sulle nostre letture e riletture, ci offre una nuova prospettiva. La ricezione di un classico (antico, moderno o contemporaneo) è una parte vitale della sua metamorfosi nel tempo, dato che i testi non sono essenze immutabili, ma fasci di potenzialità che si realizzano e si espandono a seconda di alcune componenti fondamentali: lettori, pubblici, comunità interpretative, artisti, adattatori. La forza e la seduzione dell’immaginario sta proprio in questa sua traducibilità infinita: nella capacità di esprimere con gli stessi racconti soggettività diversissime, di far identificare in essi culture lontane nello spazio e nel tempo.

    Raccogliere e rielaborare lavori apparsi in precedenza non è un’impresa facile; ho deciso di farlo perché mi appaiono legati da un filo comune, che è appunto l’idea di immaginario polimorfico appena delineata, e in particolare l’irradiazione di miti e temi in diverse epoche, culture e media, soprattutto letteratura, teatro e cinema, che gioca qui un ruolo preponderante (è in effetti la mia passione divorante…). La prima parte affronta alcune questioni teoriche generali, a mo’ di introduzione: categorie estetiche assai antiche come il sublime, o molto più recenti come il camp, o generi di scrittura come il pastiche, e infine un tema transculturale di grande fascino, la metamorfosi, che può essere assunto come modello critico e storiografico; questo insieme di concetti e strumenti critici mirano a delineare una poetica della riscrittura intermediale che si proietta dall’antichità al contemporaneo. La seconda parte si focalizza su alcuni grandi miti classici (Edipo, Antigone, Medea, Oreste, Dioniso) e sulle loro rielaborazioni teatrali e cinematografiche: deriva infatti da una fase della mia ricerca orientata sulla ricezione moderna dell’antico, un campo oggi in continua espansione. Infine nella terza parte si analizzano una serie di temi e motivi di lunghissima durata (il sosia del sovrano, il mostro, l’animalità), che rientrano tutti in un campo tematico più ampio, l’identità sdoppiata/decostruita, stesso campo in cui si muovono anche alcuni dei miti trattati nella seconda parte (soprattutto quello di Dioniso).

    Ci sono vari modi di interpretare questa ricorsività di temi e miti: possiamo vederla semplicemente come effetto di una tradizione consolidata, dovuto al potere modellizzante dell’antichità classica e di alcuni arci-temi che ne sono scaturiti, come il doppio; oppure possiamo spingerci un po’ oltre, e sostenere che ci sono alcune costanti transculturali, alcune autentiche ossessioni (se così possiamo dire), su cui la letteratura e le arti ritornano di continuo, perché una delle loro funzioni sociali è proprio sovvertire i modelli dominanti, destabilizzare i ruoli e le identità, mostrare il rovescio della medaglia e il lato oscuro di ogni cultura. Lascio inevitabilmente aperta la questione, ma si sarà capito da che parte propendo. Forse questo libro si potrebbe intitolare anche Le ossessioni dell’immaginario*.

    * Ringrazio di cuore Roberto De Gaetano per avermi proposto di pubblicare un libro nella collana da lui diretta; e Mirko Lino per l’impegno, la passione e la competenza con cui ha curato il testo.

    [1] Cfr. D. Higgins, Intermedia, in Something Else Newsletter, n. 1 (1966).

    [2]R. Ceserani, L. De Federicis, Il materiale e l’immaginario, Loescher, Torino 1988.

    [3] M. Bachtin, Estetica e romanzo, tr. it., Einaudi, Torino 2002.

    [4]M. Bettini, Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare dalle religioni antiche, Il Mulino, Bologna 2014.

    [5]R. Barthes, S/Z. Una lettura di Sarrasine di Balzac, tr. it., Einaudi, Torino 1990.

    I. Questioni di poetica

    «Stavo solo facendo del cinema». Intersezioni e ibridazioni

    Sul sistema complessivo delle arti la nascita del cinema ha esercitato un impatto senza dubbio rivoluzionario. Pari solo all’impatto che proveniva da una scienza nata in quegli stessi anni, la psicanalisi, che ha trasformato radicalmente ogni visione dell’identità umana, producendo nuove poetiche dell’immaginario. A questo sincronismo fra due fenomeni che tanto hanno caratterizzato il Novecento si è attribuito spesso, fra l’altro, un valore simbolico, a partire dall’onirismo del mezzo cinematografico, anche se certo le date di nascita in questo campo sono sempre orientative, segmentano processi fluidi. Parlare di impatto rivoluzionario del cinema sulle altre arti e quindi anche sulla letteratura oggi è un’ovvietà, ma c’è voluto un tempo lunghissimo per arrivare a questa constatazione, superando ogni sorta di pregiudizio intellettualistico. Anzi, non è certo un caso se si è giunti alla piena legittimazione estetica e accademica del cinema quando questo ha iniziato a essere incalzato da nuove forme di comunicazione e di narrazione, rischiando quasi la museificazione. Nonostante le crisi ripetute e le morti annunciate (armamentario assai trito della critica di tutti i tempi e di tutte le arti), e, soprattutto, nonostante le diverse forme di ricezione e di distribuzione che si stanno affermando, il cinema gioca ancor oggi un ruolo primario nell’immaginario collettivo.

    Erede del Gesamtkunstwerk wagneriano, propugnato anche dalle avanguardie storiche, arte sintetica e mista per eccellenza, il cinema esemplifica splendidamente quell’intreccio stretto fra verbale e visivo di cui trattano i visual studies, e su cui ha scritto pagine fondamentali W.J.T. Mitchell[1]. È dunque un’arte fortemente ibrida: non è un caso che, a differenza del purismo modernista, volto alla ricerca dell’essenza specifica di ogni arte, il purismo cinematografico sia stato e sia un fenomeno molto più ristretto: limitato a qualche posizione critica, o alle poetiche di registi come Robert Bresson o Lars von Trier. In genere si tende al contrario a non limitare per nulla la ricchezza di codici e di linguaggi tipica del cinema: prima forma di spettacolo a durare nel tempo e a ripetersi uguale a se stessa, è notoriamente un’arte visiva, grazie al ruolo fondamentale della fotografia; narrativa, grazie al montaggio; drammatica, grazie alla grammatica dei piani e all’organizzazione del profilmico. Come l’orchestra nelle opere di Wagner, la macchina da presa vi svolge la funzione del narratore, mentre è allo stesso tempo possibile attivare una voce fuori campo di vario genere, e un commento musicale; per non parlare di forme più stranianti, come l’intertitolo.

    Come si accennava prima, la lentezza con cui il mondo letterario, e in particolare quello accademico, si sono misurati con le novità espressive di questa arte è piuttosto sconcertante. In Italia, ad esempio, oggi si moltiplicano gli insegnamenti di Cinema e Letteratura, ma fino a pochi anni fa erano ancora relativamente poche le cattedre di Storia del Cinema, e spesso troppo legate alla Storia dell’Arte, seguendo un’impostazione figurativa che si deve a Carlo Ludovico Ragghianti[2]. Anche per quanto riguarda la comparatistica, a differenza di quanto è avvenuto a proposito dei rapporti con le arti visive, il confronto fra letteratura e cinema si è troppo fossilizzato sui problemi dell’adattamento, dando vita ai cosiddetti fidelity studies. Quella della fedeltà è senza dubbio una pessima metafora, non solo perché si richiama ai rigori e agli integralismi della monogamia e del monoteismo, poco adatti al polimorfismo dell’universo estetico. Ma soprattutto perché denuncia un’ossessione per l’originario che è un antico vizio della cultura occidentale. Il verbale finisce sempre per avere una posizione di primato rispetto al visivo, sentito invece come un oggetto muto, passivo, femminile (è il fenomeno che è stato argutamente battezzato fallologocentrismo). Il film tratto da un’opera letteraria dovrebbe quindi riprodurre, rendere, illustrare il testo da cui è tratto: tutte operazioni fortemente subordinate a un’entità sentita come originaria, e quindi più ricca e autentica. In fondo l’adattamento viene facilmente assimilato a una traduzione (altro campo in cui furoreggia il dogma della fedeltà): persino un intellettuale certo non accusabile di pregiudizio contro le arti audiovisive, come Umberto Eco[3], nel suo libro sulla traduzione, in cui si occupa anche di adattamento cinematografico, mostra un’incredibile chiusura umanistica e una scarsa sintonia con l’opera di Visconti (il film in questione è Morte a Venezia, 1971).

    Come accade anche per la performance teatrale, si riconosce spesso con difficoltà l’autonomia creativa del regista. Eppure, il testo letterario da tempo non è più considerato come un sistema chiuso, ma come un fascio di potenzialità, che possono essere attualizzate in maniera assai diversa dai diversi pubblici, contesti, epoche, o singoli fruitori. Il postmoderno ha certo cambiato radicalmente i presupposti dell’adattamento teatrale o cinematografico, favorendo un’estetica della contaminazione e della riscrittura infinita, ma non sempre questi presupposti sono stati recepiti appieno dalla ricerca critica, soprattutto in ambito letterario.

    Sicuramente è più stimolante riflettere sul rapporto inverso: sull’influsso che ha avuto il cinema sulla letteratura. Da questo punto di vista c’è da affrontare subito un problema critico alquanto spinoso: come valutare la reale incidenza cinematografica delle tecniche espressive di volta in volta prese in esame. Non basta che ci sia una simultaneità fra due linee di azione in un romanzo perché si parli di montaggio alternato, o che ci sia un punto di vista ristretto perché si parli di soggettiva. Non è un caso che negli ultimi tempi si siano moltiplicati i saggi su Omero, Virgilio, Dante, Tasso, Balzac cineasti: non è un semplice gioco borgesiano, che mira a rovesciare la logica lineare del tempo storico, per dimostrare che inevitabilmente leggiamo Dante in maniera diversa dopo Eliot; e ovviamente leggiamo anche Omero o Balzac in maniera diversa dopo Griffith e dopo Hitchcock. C’è comunque qualcosa in più in questa applicazione delle categorie dei film studies ad autori vissuti secoli o millenni prima dell’invenzione del cinema. C’è la riprova che non esiste uno specifico filmico, così come non esiste uno specifico letterario e uno teatrale: non sono essenze, ma modalità che si trasformano e si intrecciano di continuo. Il cinema ha realizzato tecnicamente e ci ha permesso di descrivere meglio una serie di procedimenti espressivi che sono sempre esistiti, e che rientrano in quell’intreccio stretto fra verbale e visivo di cui è fatta in primis la nostra memoria, la nostra percezione, la nostra cultura, e di cui, come si accennava prima, si occupano da tempo i visual studies. Da questo punto di vista è assai illuminante leggere le dense riflessioni estetiche di Musil sul terreno profondo comune alle varie arti, e sulla possibilità del cinema di produrre una nuova percezione della realtà, attenta al legame magico fra le cose: di raggiungere insomma la dimensione interiore delle immagini.

    Ci sono però ovviamente casi in cui la derivazione cinematografica di uno stile letterario è piuttosto evidente. Un saggio di Magny[4], a suo tempo molto discusso, lo ha dimostrato in maniera piuttosto chiara per la narrativa americana del primo Novecento. La rigorosa focalizzazione esterna con cui Dashiel Hammett costruisce tutti i suoi romanzi fa pensare a un narratore-camera, che spia l’azione da varie angolazioni, senza poter entrare nella mente dei suoi personaggi e senza che abbia una benché minima pre-informazione sull’intreccio o una benché minima visione d’insieme. I romanzi corali di Dos Passos, con la loro alternanza di brevi scene e brevi frammenti, intervallati da corpose ellissi, non possono non far pensare a una mimesi letteraria del montaggio cinematografico: quel tipo di percezione frantumata che già Serghey Ejzenštejn, in uno dei grandi libri del Novecento, faceva risalire al mito di Dioniso e allo sparagmos subito proprio di fronte allo specchio, come in una versione archetipica della fase lacaniana del corps morcelé[5]. Tutte le macchine e tutte le innovazioni tecnologiche (dal treno agli strumenti ottici fino alle nanotecnologie recenti) hanno trasformato la nostra percezione del mondo e i nostri stili di vita, e quindi hanno anche inevitabilmente inciso sulla letteratura. Ma molto spesso l’idea di un influsso monodirezionale non esaurisce la complessità dei fenomeni. Come ha sostenuto una delle voci più autorevoli intervenute su questo tema, e più critiche nei confronti della nozione di influsso, André Bazin, è meglio parlare di convergenza estetica fra forme di espressione contemporanee: non tanto per elaborare una narratologia comparata, che pure ha una sua innegabile utilità[6], quanto per integrare i diversi generi artistici in un contesto di produzione ed elaborazione dell’immaginario[7].

    Resta comunque aperto il problema critico a cui accennavo sopra: qual è il discrimine con cui riconosciamo in un testo letterario un effetto di rifrazione del cinema? Certo non possiamo appellarci al vecchio criterio dell’intenzionalità o all’angusta prospettiva filologica delle fonti, entrambi da tempo giustamente banditi o superati dalla teoria letteraria. Non basta che uno scrittore dichiari di imitare effetti cinematografici, o che abbia visto e amato un particolare film, per poter parlare di effetto rebound del cinema sulla letteratura[8]. Deve essere una strategia di lettura, che sappia dimostrarsi persuasiva e coerente, capace di illuminare nuove zone del testo, senza ridursi invece a una pura questione di nominalismo, a una diversa etichetta per antiche prassi narrative. Con questo non intendo certo ridimensionare il ruolo del cinema nella letteratura contemporanea: l’enciclopedia comune agli scrittori di oggi e al loro pubblico contiene inevitabilmente un gran numero di film, oltre che di romanzi e altri testi di vario genere. Come accade per alcune categorie psicanalitiche primarie, che proprio in quanto primarie sono onnipresenti, e quindi non particolarmente interessanti da notare e da trattare, così anche gli stilemi cinematografici appartengono a quella lingua comune che condividono gli scrittori attivi dopo i fratelli Lumière (e dopo Freud). Perché l’effetto rebound sia interessante, occorre innanzitutto che sia ben percepibile: che sia una strategia espressiva, non un tratto di langue.

    Le cose stanno diversamente se passiamo al piano della tematica, che si è espanso sempre più negli ultimi tempi, andando ben oltre il sottogenere dei film novel, dedicati per lo più alla rappresentazione del mondo di Hollywood. Nella narrativa postmoderna il cinema non si limita al piano dell’argomento e del contenuto, ma coinvolge anche il senso, diventando quindi tema in senso pieno. Nel momento in cui in un romanzo si descrive un film, reale o inventato che sia[9], si producono sempre reti di rapporti complessi fra immagine e racconto, incrinando spesso i generi stessi del discorso. Il film non viene ripercorso analiticamente, come in una ekphrasis alessandrina o barocca, ma evocato nella sua materialità di evento visivo. Sempre più spesso nella narrativa contemporanea – Puig, Marías, Soriano, Auster – sono proprio i meccanismi della fruizione cinematografica a diventare oggetto centrale del racconto: una fruizione frammentaria, casuale, mediata dalle videocassette o dalla TV, che interviene nella narrazione come un corpo estraneo, richiamando nel lettore una diversa modalità di percezione, e un mondo narrativo parallelo. Come dimostra il caso particolarmente significativo di Don DeLillo, al romanziere contemporaneo imbevuto di cinema e di cultura visiva di ogni tipo non interessa creare un corrispettivo letterario del mezzo filmico, quanto, al contrario, sottolineare un’alterità dell’immagine, una dissonanza fra linguaggi difformi, che però si ibridano di continuo nel polimorfismo della videocultura. Non tende dunque a descrivere e/o narrare l’esperienza altra della visione cinematografica, ma a impregnare la scrittura di memoria filmica e visuale, spesso per allusione o per citazione diretta, e spesso coinvolgendo il vissuto e lo sguardo dei personaggi. In questa idea di romanzo poligenere si percepisce perfettamente come nella nostra epoca, in cui la frammentazione dei linguaggi audiovisivi è sempre più potente, il cinema sia dotato proprio di quell’aura che secondo Benjamin avrebbe dovuto distruggere.

    Siamo molto lontani dalla ritualità calda che caratterizzava la ricezione classica nel buio della sala cinematografica, il cui fascino ipnotico è stato tante volte celebrato (vi ha dedicato un saggio a suo tempo Gian Piero Brunetta)[10]. Leggiamone una versione meno topica e molto idiosincratica: quella di Luis-Ferdinand Céline. Nel Viaggio al termine della notte il cinema appartiene a quelle rare esperienze, come la danza, la fantasia, l’incontro fortuito, che sfuggono alla catena inesorabile della notte e dell’incubo, alla farsa atroce del vivere e del mentire:

    Si stava bene nel cinema, dolce e caldo. Voluminosi organi tenerissimi come in una basilica, ma che fosse scaldata però, organi come cosce. Non un momento perso. Ci si tuffa in pieno nel tiepido perdono. Ci sarebbe stato di che lasciarsi andare a pensare che forse il mondo stava finalmente per convertirsi all’indulgenza. C’eravamo già quasi.

    Allora i sogni affiorano nella notte per andare a incendiarsi nel miraggio della luce che si muove. Non è affatto la vita quello che accade sugli schermi, resta dentro un grande spazio torbido, per i poveri, per i sogni e per i morti. Bisogna fare in fretta a ingozzarsi di sogni per attraversare la vita che vi aspetta fuori, usciti dal cinema, resistere qualche giorno in più attraverso quell’atrocità di cose e uomini. Uno sceglie tra i sogni quello che gli riscalda meglio l’anima. Per me, lo confesso, erano quelli sporchi. Non bisogna esserne fieri, ti porti via da un miracolo quello che ti puoi tenere. Una bionda che aveva delle tettone e una nuca indimenticabili ha creduto bene di rompere il silenzio dello schermo con una canzone dove si parlava della sua solitudine. Uno ci avrebbe pianto con lei[11].

    La regressione visionaria e voyeuristica che caratterizza la fruizione cinematografica nella sala buia viene resa dal nichilismo di Céline nei consueti termini di una pura fisicità disperata. Rispetto a questa mitologia modernistica del cinema come luogo di sogni collettivi, la tematizzazione postmoderna appare del tutto agli antipodi. Se prendiamo, ad esempio, Domani nella battaglia pensa a me (1994) di Javier Marías, non troviamo più traccia del rito collettivo: troviamo invece una modalità di visione casuale, distratta, frammentaria, del tutto immateriale. I vecchi film trasmessi dalla televisione a notte tarda lanciano segnali enigmatici, che si aggiungono alla disseminazione labirintica di tracce che costituisce la narrazione e il suo procedere per indizi, sempre sui confini incerti fra illusione e realtà. È dunque una tematizzazione che coinvolge e trasforma i meccanismi stessi del testo, come accade sempre nella narrativa postmoderna: Vincenzo Maggitti lo ha ben dimostrato nel suo saggio Lo schermo tra le righe[12].

    Occuparsi di come la letteratura riprenda il cinema non significa certo bandire del tutto le dinamiche dell’adattamento. Vorrei concludere con un esempio ben riuscito di passaggio dal romanzo al film, che può dire molte cose in generale sui rapporti fra le due arti e sulla mediazione della sceneggiatura. È un film tratto da un’opera incompiuta: un filone non a caso assai prolifico. Il cinema ha infatti condiviso con la letteratura del Novecento il fascino del non finito, prediligendo così opere ultime, testamenti postumi e frammentari (spesso estremi in tutti i sensi), testi aperti da rimontare liberamente. È una tendenza in cui si risente un rifiuto della chiusura organica, che può dar vita anche a nuovi finali e a nuove configurazioni narrative. Per fare solo qualche esempio volutamente disparato: il Satyricon (Fellini, 1969), in cui, dopo una narrazione episodica che ha dato libero sfogo al picaresco (seppure un po’ ricanalizzato in un pattern junghiano), il finale visualizza la natura frammentaria e incompiuta del testo petroniano, facendo rientrare i personaggi in un affresco; Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pasolini, 1976), in cui il ballo conclusivo osservato da lontano estremizza l’assunto base di tutto il film, poi sfumandolo in una strana elegia; Il processo (Welles, 1962), in cui, dopo un geniale rimontaggio dei capitoli di Kafka, viene sovrapposta al finale del romanzo una dimensione apocalittica, seguendo una attualizzazione già implicita in altre scene del film; Il tempo ritrovato (Ruiz, 1999), in cui la conclusione metaletteraria proustiana viene sussunta in una dimensione simbolica dominata dall’elemento acquatico; L’odore del sangue (Martone, 2004), in cui la scena all’obitorio amplifica la tragicità dell’opera incompiuta ed estrema di Goffredo Parise.

    Gli ultimi fuochi (1941) è l’ultimo romanzo di Francis Scott Fitzgerald, non portato a termine: un hollywood novel, in cui l’autore ha riversato tutta la sua non facile esperienza di sceneggiatore. Nel 1976 il romanzo diventa la base per l’ultimo film di un Elia Kazan che proveniva da lunghi anni di silenzio a causa del suo ruolo di spia ai tempi della persecuzione maccartista (che gli ha causato polemiche fin oltre i novant’anni in occasione dell’Oscar alla carriera). Ne è scaturito uno straordinario capolavoro sulla morte del cinema classico hollywoodiano, sentito come età dell’oro; un metafilm che trae la sua forza dall’uso di lunghi inserti di film muti, e dalla sinergia fra la generazione dei grandi attori di cui Kazan stesso era stato animatore (Robert Mitchum), e la generazione più giovane degli antieroi del new cinema, che si stava affermando in quegli anni e che è rappresentata da Robert Redford, e soprattutto da un eccellente Robert De Niro, nel ruolo del protagonista, il leggendario produttore dietro cui si cela l’allusione a Irving Thalberg.

    Nel terzo capitolo del romanzo c’è una scena estremamente significativa in generale per i rapporti fra letteratura e cinema, e fra verbale e visivo. Il produttore Stahr si incontra con lo sceneggiatore, assai deluso del lavoro che sta svolgendo a Hollywood; gli chiede se va mai al cinema, non si meraviglia della risposta negativa dello scrittore, dato che i film sono pieni di dialoghi improbabili, di duelli e di gente che fa crollare muri. Gli propone allora di immaginarsi una scena senza dialoghi e senza azione violenta:

    Immagina di essere nel tuo ufficio. Hai trascorso tutto il giorno combattendo o scrivendo e sei troppo stanco per combattere e scrivere ancora. Te ne stai lì seduto a guardare – indolente come capita a tutti noi di sentirci talvolta. Una bella stenografa che avevi visto prima entra nella stanza: la guardi, lentamente. La ragazza non ti vede, per quanto tu sia molto vicino. Si leva i guanti, apre la sua borsa e la svuota sul tavolo.

    Stahr si alza, gettando il suo portachiavi sulla scrivania

    Ha due monete da dieci e una da cinque centesimi, e una scatola di fiammiferi. Lascia la moneta da cinque centesimi sul tavolo, rimette le due da dieci nella borsa, e porta i due guanti neri verso il camino, lo apre e li butta dentro. C’è un solo fiammifero nella scatola: sta per accenderlo inginocchiandosi vicino al camino. Tu intanto ti accorgi che tira un forte vento dalla finestra. – ma proprio in quel momento suona il telefono. La ragazza alza la cornetta, dice pronto, resta in ascolto, e poi pronuncia con fermezza questa frase al telefono ‘non ho mai posseduto un paio di guanti neri nella mia vita’. Chiude il telefono, si inginocchia di nuovo vicino al camino, e proprio nel momento in cui accende il fiammifero, tu muovi il tuo sguardo all’improvviso e vedi che nell’ufficio c’è un altro uomo, che sta osservando ogni mossa fatta dalla ragazza.

    Stahr fa una pausa. Prende le sue chiavi e le rimette in tasca.

    Continua, disse Boxley, sorridendo. Cosa succede?

    Non lo so, disse Stahr. Stavo solo facendo del cinema[13].

    Stupisce quasi che uno scrittore come Scott Fitzgerald, ossessionato dalla cura maniacale del linguaggio e dall’eleganza espressiva, e che ha avuto con il mondo del cinema un rapporto burrascoso, potesse scrivere un brano così denso di significati sul rapporto fra le due arti. Da sottolineare innanzitutto la centralità dello sguardo: il brano inizia proprio immaginando nel destinatario quello stato di regressione visionaria così tipico della fruizione cinematografica, e mettendo in rilievo quel nesso fra corpo, sguardo e immagine di cui parla Hans Belting[14]. Certo in una forma paradossale: l’immagine cinematografica appare fisicamente vicina, ma nello stesso tempo impalpabile e immateriale. Un paradosso su cui hanno insistito tutti gli autori di film novels, da Pirandello in poi: la fortissima illusione di realtà del cinema, unita strettamente alla mancanza totale di presenza corporea[15]. Il ritmo dell’azione è tutto scandito dagli sguardi che scoprono un indizio dopo l’altro, fino a svelare la presenza di un secondo sguardo, e di una terza presenza nell’ufficio. Nel riprendere un’immagine solo mentale, la parola letteraria di Scott Fitzgerald coglie un tratto fondamentale della narrazione cinematografica: il suo procedere per frammenti, per tagli e dettagli investiti di un chiaro feticismo. Non è un caso che tutta questa azione embrionale ruoti intorno a piccoli oggetti: i guanti, i fiammiferi, le monetine, che diventano però carichi di potenzialità narrativa. Con una sola battuta di dialogo, e con pochi gesti e sguardi, il produttore di Scott Fitzgerald ha creato una notevole tensione, sia in noi lettori sia nel narratario a cui è rivolto il brano: pur mascherandosi in un distacco ironico, lo sceneggiatore si dimostra coinvolto, perché chiede subito cosa succede dopo, e poi a che cosa serviva la moneta da cinque centesimi («per il cinema»).

    Il microcosmo di questo breve ma densissimo brano riflette il macrocosmo di tutta l’opera: la sua visione del cinema e della creatività artistica. La bravura leggendaria di Stahr deriva infatti dal suo saper costruire il film a partire dai vari frammenti che provengono dalle figure e dai saperi implicati nella lavorazione, senza sovrapporre troppo la propria visione, nella convinzione che per ogni spettatore la costruzione sarà diversa, sulla base dei diversi sottotesti culturali. Allo stesso modo, nella sua esperienza esistenziale le immagini frammentarie della moglie morta e della sua sosia incontrata per caso ritornano ossessivamente e sempre in termini filmici: è il difficile itinerario dal frammento al sistema che anima allo stesso tempo la memoria affettiva, la percezione, e la creatività di Stahr[16].

    Nel film di Kazan questo brano non poteva mancare: è ovviamente visualizzato, lasciando la voce del produttore fuori campo, con il consueto contrappunto fra colonna sonora e colonna visiva. Il sorriso carico di ironia e ambiguità di De Niro incarna splendidamente il sapere intuitivo e pratico di un produttore che può spiegare con un breve esempio cosa è il cinema, lasciando allo sceneggiatore il compito di scrivere dialoghi di qualità. Con una soluzione geniale questa scena così pregnante ritorna poi in una sede fondamentale del testo: il finale.

    Come gli altri film ispirati da opere incompiute a cui abbiamo fatto riferimento prima, anche Gli ultimi fuochi mostrano infatti la maggiore inventività nella chiusura. Nel romanzo del 1941 di Scott Fitzgerald leggiamo solo alcuni appunti, assemblati da Edmund Wilson, da cui si evince una configurazione classica da opera biografica: la morte del produttore in un incidente aereo, e il funerale che avrebbe dovuto portare a compimento la sua parabola pubblica e la sua mitologia. Rispetto a questa chiusura forte e organica, il film preferisce invece una soluzione aperta: dopo la riunione che segna il crollo del suo successo carismatico, il produttore si ritira nel suo studio, dove rivede la scena immaginata per spiegare allo sceneggiatore cosa è il cinema. Questa volta la donna misteriosa che entra nell’ufficio è la donna amata perché molto simile alla moglie morta giovane, secondo il topos del doppio e della reincarnazione; un motivo melodrammatico a cui il film concede ampio spazio, fino alla rottura finale (la ragazza sparisce perché decide di accettare una proposta di matrimonio). La scena dei guanti e delle monetine diventa così anche il punto culminante di una riflessione esistenziale su una storia fallita: un momento di memoria affettiva, come sempre espresso attraverso un intreccio fra verbale e visivo. Rispetto alla morte e al funerale progettati per il romanzo, il finale del film suona molto più sospeso, e molto più affascinante grazie alla mistione fra riflessione metalinguistica e ricordo amoroso.

    Basta conoscere solo un po’ del teatro di Harold Pinter, che ha firmato la sceneggiatura del film, per immaginare che a lui si debba questa soluzione geniale[17]. È in sintonia con il suo stile frammentario, e con la sua poetica che esprime fallimenti e frustrazioni esistenziali attraverso uno straniamento radicale. A parte la questione della paternità, non c’è dubbio che l’ultima inquadratura del produttore – che, guardando in macchina in campo americano con il suo sorriso sfuggente, pronuncia la battuta «Stavo solo facendo del cinema» – è la conclusione più efficace per un film sulla nostalgia di un cinema perduto, e sui meccanismi mai lineari della visione, del desiderio e della comunicazione.

    Non ho scelto questo esempio per il semplice piacere del cinefilo che per una volta può esclamare che il film è migliore del libro. Almeno non solo per questo. Credo che sia un caso lampante di rapporto complesso fra le due arti. In un romanzo sui meccanismi inesorabili di Hollywood, scritto dall’interno, uno scrittore immagina un episodio in cui un produttore spiega a uno sceneggiatore la quintessenza del cinema attraverso una scena tutta giocata su sguardi, dettagli e ritmo. Un caso particolarmente riuscito di immagine (mentale) ripresa in parola. Un grande drammaturgo e un grande regista decidono di reimpiegare la stessa scena per dare un nuovo finale aperto e sospeso al film tratto dal romanzo, decostruendo la chiusura organica che era stata prevista dall’autore. Dando fra l’altro una prova preziosa di come la poetica del postumo non debba sempre implicare la nostalgia impotente degli epigoni, e possa invece creare nuove immagini eversive, nuove poetiche, nuovi stili di recitazione.

    Replicabilità e potenzialità. Sull’estetica postmoderna del pastiche

    In un saggio summa sulla letteratura di secondo grado, Palinsesti (1982) di Genette, parodia e pastiche, che sono due tecniche spesso confuse (si è giunti anche a fonderle nel termine parostiche) appaiono fortemente contrapposte: la prima consisterebbe nella trasformazione ludica di un singolo testo, il secondo invece nell’imitazione, sempre ludica, di un genere, di uno stile, di una classe di testi, come nell’eroicomico, che applica il linguaggio dell’epica canonica a soggetti bassi e quotidiani (dalla Batracomiomachia alla Secchia rapita[18]). Avrebbero dunque in comune il regime, la tonalità di riscrittura: quel ludico che si pone a metà fra la polemica violenta della satira e l’omaggio dotto del serio; ma sarebbero antitetiche nella relazione con i loro modelli. L’ansia tassonomica di quegli anni ancora improntati dallo strutturalismo ci suona ormai lontana: lo stesso Genette dichiara comunque che la sua monumentale analisi testuale tende non a confermare, ma a scompaginare e a smontare la sua griglia iniziale; e nel finale come al solito aperto (una costante in tutta la sua produzione[19]), prima della dedica a Theolonius Monk, ammette che di tutte le sue classificazioni tipologiche salverebbe in fondo solo l’opposizione fra trasformazione e imitazione: come se riadattare una singola opera o riprodurre uno stile fossero le due anime di ogni intertestualità.

    Nove anni dopo i Palinsesti, nel suo saggio sul postmoderno Fredric Jameson scrive: «La scomparsa del soggetto individuale, insieme alla sua diretta conseguenza formale, ossia la sparizione progressiva dello stile personale, genera oggi la pratica quasi universale di quello che si potrebbe chiamare pastiche». Sarebbe dunque il genere più tipico del postmoderno, di un’epoca cioè che non conosce più una norma comune fra autore e lettore, ma una pluralità infinita di linguaggi; un’epoca insomma in cui non è più possibile la parodia, perché non c’è più uno stile individuale forte, che può essere sovvertito e abbassato in un atto di appropriazione e omaggio; esisterebbe solo un linguaggio impersonale, fatto di mille superfici e giochi citazionali, senza più una netta distinzione fra originale e copia[20]. E in effetti non a caso, storicamente, una delle prime definizioni di pastiche, apparsa nell’area delle arti figurative, è proprio quella di un’opera che non è né un originale né una copia. Stranamente Jameson tralascia tutta la tradizione cinque-seicentesca del pastiche, e ne attribuisce la paternità al Thomas Mann del Doctor Faustus (1947), richiamando anche a monte l’importante dicotomia adorniana fra la sperimentazione progressista di Schönberg e l’eclettismo irrazionale di Stravinskij, che è innegabilmente un grande precursore del postmodernismo. L’opposizione fra parodia e pastiche rispecchierebbe quella fra le due epoche e le due poetiche del Novecento: il modernismo con i suoi stili arditi, inimitabili e idiosincratici, e il postmodernismo con il suo «saccheggio indiscriminato di tutti gli stili del passato» (quello che in architettura si chiama «storicismo»), e con il suo primato del «neo»[21]. Se si passa invece ad altri teorici del postmoderno, come Linda Hutcheon, la terminologia cambia radicalmente (ma meno la sostanza): la parodia diventa un concetto ampio, che include ogni riscrittura basata sulla differenziazione, sulla distanza critica, sul cambiamento di contesto; si distingue quindi poco dal pastiche, solo per il suo essere meno imitativa e più bi-testuale (molti dei casi da lei trattati potrebbero rientrarvi comodamente: Brecht-Weill, De Palma, Greenaway, Picasso)[22].

    La questione nominalistica conta, ovviamente, assai poco. Mi sembra però che Jameson forzi un po’ troppo la mano sulle formule ad effetto, come accade anche quando afferma che nel modernismo predomina il tempo, nel postmodernismo invece lo spazio (difficile dire a questo punto cosa verrà dopo). Sono certo formule che servono a sintetizzare il cambiamento epocale di cui tratta nel suo saggio, ma rischiano

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