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Conversazioni sul cinema
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E-book297 pagine5 ore

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Undici conversazioni tratte da altrettanti numeri di “Fata Morgana”. Undici conversazioni che sintetizzano il progetto intorno al quale è nata nella primavera del 2006 la rivista. Allora non abbiamo voluto accompagnare la nascita del quadrimestrale con un editoriale, convinti che se avesse funzionato si sarebbe presentato da solo. Ma qualcosa ora è giusto dire. Una rivista è in primo luogo un gesto (collettivo), tracciando il quale si viene a determinare un campo. Il gesto tracciato da “Fata Morgana”, che, all’inizio solo intuito, si è andato via via definendo, è quello che fa del cinema un luogo e un’occasione per pensare la contemporaneità, che non è semplicemente l’insieme di ciò che accade intorno a noi, ma è quello che in ciò che accade prende le forme di una emersione, concrezione da raccogliere intorno a un concetto: da quello di Bíos (del n. 0) a quello di Sacro (del n. 10). In questa prospettiva il cinema va pensato e colto in una sua specificità a-specifica, nella forma precipua in cui è capace di declinare la sua a-specificità, o, detto altrimenti, nella forma autonoma in cui sa declinare la sua eteronomia. E questo significa dunque pensare quei concetti a partire dal cinema e pensare quest’ultimo a partire da quelli. E allora il cinema diventa il luogo e l’occasione particolari a partire dai quali pensare l’universalità del concetto (come contrassegno del contemporaneo), e quest’ultimo la prospettiva attraverso cui pensare le forme proprie del primo. Evitare la doppia morsa di una specificità sterile o di una a-specificità pretestuosa: il cinema diviene allora la quintessenza di un modo di pensare il moderno, dove l’autonomia della forma estetica si afferma nella sua eteronomia, la sua individuazione si impone come dis-individuazione.
LinguaItaliano
Data di uscita18 set 2013
ISBN9788868220907
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    Conversazioni sul cinema - Žižek Slavoj

    CONVERSAZIONI SUL CINEMA

    Julio Bressane, Jean-Louis Comolli, Georges Didi-Huberman

    Roberto Esposito, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi

    Werner Herzog, Paolo Jedlowski, Jean-Luc Nancy, Jacques Rancière

    Paul Schrader, Slavoj Žižek

    Redazione del volume a cura di Alessandro Canadè

    Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni

    Direttore: Roberto De Gaetano; comitato scientifico: Sandro Bernardi, Francesco Casetti, Antonio Costa, Giorgio Tinazzi; comitato direttivo: Marcello W. Bruno, Alessia Cervini, Daniele Dottorini, Bruno Roberti; redazione: Alessandro Canadè (caporedattore), Daniela Angelucci, Vincenza Costantino, Vincenzo Cuomo, Massimo Iiritano, Andrea Inzerillo, Antonella Moscati, Ivelise Perniola, Simona Previti, Antonio Somaini, Luca Venzi; responsabile segreteria di redazione: Loredana Ciliberto; traduzioni in inglese: Simonetta De Rose; progetto grafico: Bruno La Vergata; editore: Pellegrini; sito web: http://fatamorgana.unical.it

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2013

    ISBN: 978-88-6822-090-7

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Siti internet: www.pellegrinieditore.it

    www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Indice

    Aprire un orizzonte su ciò che è negato. Conversazione con Roberto Esposito

    a cura di Roberto De Gaetano, Daniele Dottorini, Bruno Roberti

    Forse perché il cinema è esso stesso contemporaneità?. Conversazione con Jean-Luc Nancy

    a cura di Bruno Roberti

    Archivi che salvano. Conversazione (a partire da un frammento) con Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi

    a cura di Daniele Dottorini

    La trasparenza che nasconde. Conversazione con Jean-Louis Comolli

    a cura di Bruno Roberti

    Il ritmo dell’esperienza. Conversazione con Paolo Jedlowski

    a cura di Roberto De Gaetano

    Il limite come intervallo. Conversazione con Julio Bressane

    a cura di Alessandro Canadè e Bruno Roberti

    Essere esposti alla natura. Conversazione con Werner Herzog

    a cura di Daniele Dottorini

    Lo spazio curvo del desiderio. Conversazione con Slavoj Žižek

    a cura di

    Alessia Cervini, Daniele Dottorini, Bruno Roberti

    Temporalità e memoria del visuale. Conversazione con Georges Didi-Huberman

    a cura di Alessia Cervini e Bruno Roberti

    Le ragioni del disaccordo. Conversazione con Jacques Rancière

    a cura di Roberto De Gaetano con la collaborazione di Paolo Godani e Andrea Inzerillo

    Per esprimere il sacro ci vuole un anti-cinema. Conversazione con Paul Schrader

    a cura di Alessandro Canadè e Bruno Roberti

    Undici conversazioni tratte da altrettanti numeri di Fata Morgana. Undici conversazioni che sintetizzano il progetto intorno al quale è nata nella primavera del 2006 la rivista. Allora non abbiamo voluto accompagnare la nascita del quadrimestrale con un editoriale, convinti che se avesse funzionato si sarebbe presentato da solo. Ma qualcosa ora è giusto dire. Una rivista è in primo luogo un gesto (collettivo), tracciando il quale si viene a determinare un campo. Il gesto tracciato da Fata Morgana, che, all’inizio solo intuito, si è andato via via definendo, è quello che fa del cinema un luogo e un’occasione per pensare la contemporaneità, che non è semplicemente l’insieme di ciò che accade intorno a noi, ma è quello che in ciò che accade prende le forme di una emersione, concrezione da raccogliere intorno a un concetto: da quello di Bíos (del n. 0) a quello di Sacro (del n. 10). In questa prospettiva il cinema va pensato e colto in una sua specificità a-specifica, nella forma precipua in cui è capace di declinare la sua a-specificità, o, detto altrimenti, nella forma autonoma in cui sa declinare la sua eteronomia. E questo significa dunque pensare quei concetti a partire dal cinema e pensare quest’ultimo a partire da quelli. E allora il cinema diventa il luogo e l’occasione particolari a partire dai quali pensare l’universalità del concetto (come contrassegno del contemporaneo), e quest’ultimo la prospettiva attraverso cui pensare le forme proprie del primo. Evitare la doppia morsa di una specificità sterile o di una a-specificità pretestuosa: il cinema diviene allora la quintessenza di un modo di pensare il moderno, dove l’autonomia della forma estetica si afferma nella sua eteronomia, la sua individuazione si impone come dis-individuazione.

    Questo ha una prima conseguenza: sottrarre i discorsi alla loro specificità settoriale, che tendono naturalmente ad accentuare la (presunta) autonomia del cinema; ma sottrarli anche alla loro generica a-specificità, che collocherebbe il cinema sotto il segno di una totale eteronomia. E per fare questo bisogna che un gesto istituisca un campo, in questo caso quello fra un concetto e le immagini, capace con la sua forza centripeta di raccogliere tutta la centrifugacità, effettiva o potenziale, dei discorsi che lo attraversano. Per questo crediamo che Fata Morgana, pur raccogliendo al suo interno contributi e discorsi di filosofi, registi, sociologi, antropologi, e naturalmente studiosi di cinema, abbia avuto la capacità di raccogliere e contenere nella forma di una unità aperta tutta l’eterogeneità di queste prospettive e pratiche discorsive, e non solo all’interno di ogni singolo numero, ma anche fra un numero e l’altro, pensati come se fossero i tanti punti luminosi (ci auguriamo) di una costellazione. Le conversazioni qui raccolte, che aprono ogni singolo fascicolo della rivista, sono conversazioni su un tema e sono conversazioni sul cinema, ma alla luce di quanto abbiamo detto la differenza non è cosi importante, anzi il luogo stesso della rivista è quello definito dalla loro indiscernibilità.

    Roberto De Gaetano

    Aprire un orizzonte su ciò che è negato.

    Conversazione con Roberto Esposito

    a cura di

    Roberto De Gaetano, Daniele Dottorini, Bruno Roberti

    Fata Morgana, Bíos, n. 0, 2006

    Iniziamo con la presentazione della nozione di bíos: perché, secondo te, è diventata centrale nel dibattito contemporaneo, a cosa è dovuta la sua centralità?

    La nozione di bíos, in sé, è una nozione antichissima, aristotelica. Il momento culminante del rapporto tra bíos e sapere si è avuto agli inizi dell’Ottocento quando è nata la biologia. Successivamente, nel Novecento, quella che è andata crescendo è la connessione tra il tema della vita e altri linguaggi, in particolare il linguaggio della politica. Oggi c’è anche una forte componente bioetica, si parla ad esempio di biodiritto o di biotecnologia; insomma, la vita, la nozione di vita e l’esperienza della vita biologica si sono accampate nel cuore, sia del sapere, sia delle pratiche dell’esperienza contemporanea. Perché ciò è accaduto, perché soprattutto oggi assistiamo a questo fenomeno? Perché sono venute a cadere – all’inizio un po’ alla volta e poi di schianto – le grandi mediazioni – istituzionali, culturali, categoriali – che costituivano la struttura del sapere-potere moderno, quindi la mediazione del diritto, la mediazione delle rappresentanze politiche. Quando tutto questo – sotto la spinta dei grandi fenomeni di globalizzazione, quindi la crisi degli stati sovrani e dei diritti sovrani – è esploso, ecco che politica e vita si sono, come dire, toccate. Sono venute meno le grandi mediazioni moderne; anche rispetto alla tecnica, naturalmente, che costituisce un altro grande tema.

    Il tema del tuo libro, Bíos, mi sembra che possa essere declinato in relazione al concetto del dispositivo-cinema come macchina di sapere e anche come macchina di potere nel Novecento. Tu parli dell’estremizzazione della categoria di immunità e della sua inversione verso l’autoimmunità, vale a dire che, quanto più la vita viene protetta tanto più questo meccanismo di protezione, quindi di immunità, si estremizza, si rovescia, diventa autoimmune. C’è un rapporto tra il lavoro della morte e il cinema che viene messo in luce da Bazin prima (quando dice che il cinema è un dispositivo che non può filmare la morte), e poi sintetizzato in una frase di Cocteau per il quale il cinema è «il lavoro della morte ventiquattro fotogrammi al secondo». Nello stesso tempo, il cinema mantiene anche l’idea di un dispositivo che conserva, preserva la vita, rende in qualche modo immortale l’apparenza della vita, e nello stesso tempo vampirizza, succhia vita e quindi in qualche modo è un dispositivo che nel momento in cui conserva, distrugge. Leggendo soprattutto gli ultimi due capitoli del tuo libro, ho pensato che il dispositivo del cinema di per sé sarebbe analogo a un dispositivo totalitario, nel senso che è un dispositivo che salva la vita nel momento stesso in cui la distrugge. Vorrei sapere cosa ne pensi.

    Intanto, sono molto coinvolto da questo tema, per quanto io non sia un esperto di cinema, e sono anche stato colpito dalla frase che hai detto prima relativamente ai 24 fotogrammi al secondo. Qualcosa che mi viene in mente: anzitutto si potrebbe dire, per esempio, che un altro apparato che rende immortale ma insieme vampirizza è il museo, nel senso che preserva dal tempo ma nello stesso tempo blocca, fissa, immobilizza. In secondo luogo, l’occhio interno dell’uomo è incapace di vedere la morte, quanto meno la propria morte. Questo è un grande tema filosofico: che l’uomo pur essendo, come dice Heidegger, un «essere per la morte», tuttavia non può né vedere né addirittura pensare la propria morte. Tra il soggetto e la morte c’è una congiunzione fortissima, il soggetto è per la morte ma ha anche uno schermo che ne blocca la visibilità.

    Tra l’altro Bazin, quando parla di ontologia del cinema, insiste proprio sul fatto dell’occhio che non può vedere la morte.

    Il terzo elemento forse più esterno, più da riferimento sociologico, è il fatto che il totalitarismo – e uso questo termine per intenderci, perché io non amo usare l’espressione totalitarismo che assimila esperienze come nazismo e comunismo che sono molto diverse tra loro –, tutti i totalitarismi, hanno dato un rilievo particolare al cinema all’interno dell’apparato pubblicitario, di propaganda. Una connessione tra cinema e totalitarismo c’è sia sul piano esterno sociologico, sia sul piano effettivamente interno. L’ultimo riferimento che mi viene in mente – per esaurire questa costellazione – è il Panopticon. In fondo, la macchina da presa è come un Panopticon che guarda senza essere guardato, è uno strumento di controllo e, in ultima analisi, di morte, perché blocca e fissa.

    Riprendo una tua frase: «Il modo che la vita ha di difendersi dalla morte non è quello di conservarsi tale (paradigma immunitario) bensì di rinascere in guise diverse (paradigma generativo)». Mi viene in mente un saggio degli anni Cinquanta di Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, nel quale Morin attribuisce al cinema due capacità, vale a dire due modi di sfidare la morte. Uno attraverso la costruzione di doppi, esattamente quello a cui si faceva riferimento prima parlando di Bazin: io duplico la realtà, la preservo, e allo stesso tempo la immobilizzo: preservandola la uccido. L’altro modo invece vede il cinema non soltanto costruito sul doppio, sull’immobilizzazione di un reale dato come preesistente, ma sul principio di metamorfosi, perché sullo schermo le immagini si avvicendano, si accavallano, si susseguono. Ed è un principio, da questo punto di vista, generativo: un’immagine muore e ne nasce un’altra; è un meccanismo di morte e rinascita. Allora, mi viene in mente che la macchina cinematografica può imporre da un lato questo modello, questo paradigma immunitario a cui tu fai riferimento, ma dall’altro presenta anche questa sorta di paradigma generativo, dato appunto dall’avvicendamento costante di immagini sullo schermo, per cui una muore e l’altra rinasce.

    Sì. Mi viene in mente, per tornare alle categorie fondative del mio lavoro degli ultimi 10-15 anni, l’idea di immunitas e l’idea di communitas, che sono l’una il rovescio dell’altra. Probabilmente, se il paradigma immunitario è quello dello sdoppiamento e della sovrapposizione, il paradigma della comunità è quello dell’esposizione. La comunità è ciò che espone ciascuno all’alterità e quindi lo espropria, lo mette fuori, è un meccanismo di esteriorizzazione. E il cinema si potrebbe dire si colloca esattamente nel punto di confine tra questi due paradigmi, perché da un lato uccide, sdoppia e presuppone, dall’altro, però, espone attraverso questo movimento continuo di metamorfosi. Il tema della nascita io lo ricavavo proprio dal rovesciamento dell’apparato omicida nazista che punta a uccidere la vita nel suo stato nascente (la sterilizzazione, le forme tese a prevenire la nascita). Il diritto del nazismo è questo: io non faccio più nascere certe persone. Quindi naturalmente il discorso sulla nascita mi interessa in contrapposizione a questo blocco del nazismo e anche perché fenomeno biologico. Anzi, è fenomeno biologico che conferma il carattere protettivo e di muro del paradigma immunitario: nella nascita il dispositivo immunitario della madre si apre a questa presenza esterna del figlio, è un elemento di complicazione e di apertura comunitaria, è un uno che si sdoppia in due.

    Rimanendo su questo aspetto, nel capitolo sulla tanatopolitica tu citi espressamente tre testi letterari, scritti a poca distanza l’uno dall’altro, che sono Il dottor Jekyll e Mr. Hyde, Il ritratto di Dorian Gray e Dracula. Mi hanno colpito perché questi tre testi, insieme a un quarto che tu non citi ma che forse potrebbe entrare nel discorso, Frankenstein di Mary Shelley, sono stati visti, all’interno delle teorie del cinema, come una sorta di figure estetiche anticipatrici del cinema. E tu riconosci proprio il carattere di anticipazione che questi testi hanno avuto rispetto poi a una pratica politica che si è invece sviluppata nel Novecento. Rimanendo all’interno di questo ambito, mi viene da pensare anche che, ad esempio, il cinema tedesco degli anni Venti, nel decennio precedente all’avvento di Hitler, è stato costellato, disseminato di figure che direttamente rimandano a quei testi di cui accennavo sopra. Ti volevo chiedere se, questo parallelismo di temi e figure possa entrare in rapporto con quella che poi è stata la produzione di una «estetizzazione della politica», riprendendo la frase benjaminiana: se il nazismo, cioè, abbia attinto a una serie di immagini già presenti per costruire in qualche modo questo sistema, o se, quella che era una situazione così diffusa, che quindi aveva delle radici molto profonde nella società e nella cultura del tempo, sia stata in qualche modo assunta dal nazismo, trasformata e poi riutilizzata.

    Sì, diciamo che «estetizzazione della politica» e «politicizzazione dell’arte» sono state le due grandi parole d’ordine su cui si è costruito il rapporto tra potere e immaginario del nazismo, da un lato, e del comunismo stalinista, dall’altro. Sicuramente c’è una connessione tra potere dispotico, potere totalitario e immagine. Esiste in particolare un saggio di Nancy e Lacoue-Labarthe (Il mito Nazi) che interpreta il nazismo da un punto di vista di una estetica politica, cercandone le radici nel primo romanticismo. Il nazismo si produce creando figure, è una figurazione e un’autofigurazione. Tutto questo lo trovo importante. Nella mia lettura, in particolare, al tema dell’immagine io ho sovrapposto il tema del corpo, perché altrimenti una lettura tutta fondata sull’immagine potrebbe far perdere l’elemento corporeo che è stato molto forte nel nazismo, appunto secondo quello che cerco di dire in particolare nel quarto capitolo. Addirittura il nazismo come raddoppiamento del corpo: l’anima è ciò che tiene insieme il corpo, l’anima è il sangue per il nazismo. Quindi, certo, il tema dell’immagine, però senza trascurare il tema della zoé, cioè del rapporto corpo-sangue-organismo. Tant’è che quando Deleuze parla del corpo senza organi vuole proprio destrutturare e ricostruire questa macchina corporea. Io trovo che sia il tema della carne il rovescio di tutto ciò. Sul tema dell’immagine voglio rifletterci perché effettivamente non l’ho fatto abbastanza. Dracula da questo punto di vista è straordinario, perché Dracula è l’ebreo, cioè colui che contagia, che fa circolare sangue impuro, viene dalla Transilvania dentro le metropoli. È proprio l’ebreo che viene poi crocifisso. Quindi si tratta di un rapporto evidente, fortissimo con quel cinema a cui facevi riferimento.

    Per riprendere una frase di André S. Labarthe, «Rovesciamenti, trasfusioni, montaggio: il cinema o sarà vampiresco o non sarà affatto».

    Ritorna qui quello che si diceva prima a proposito del doppio e del cinema…

    Quel momento particolare in cui tu rifletti su questi tre romanzi nasce da una riflessione sul concetto di degenerazione. Questo concetto di degenerazione – tu dici – può essere rovesciato nel suo dato trasformativo e quindi germinativo. Tu dici che la degenerazione – una cosa su cui aveva riflettuto anche Nietzsche – ha una capacità di trasformazione e di mutazione positiva e vitale. La degenerazione – dici – ha come una nervatura estetica, cioè il processo di degenerazione è innervato…

    Tant’è che il degenerato tipico, per Nordau, è l’artista, il genio.

    In qualche modo, se il cinema da un lato può essere un dispositivo, una macchina concentrazionaria e mortifera e, quindi, può rispondere a questa volontà di assoggettamento della vita e ancor di più alla volontà specifica del nazismo di innestare nella vita una sorta di biospiritualità, cioè far sì che questa coincidenza vita-morte diventi appunto una sorta di grado zero, ciò che i nazisti, tra l’altro, nel titolo di un film che tu citi, chiamavano esistenza senza vita (Dasein ohne Leben). Dall’altro lato la degenerazione come trasformazione, la dissoluzione come mutazione, questa idea di disfacimento – su cui per esempio Deleuze riflette a proposito del cinema di Visconti –, questa idea del cinema come processo degenerativo, trasformativo, non pensi che abbia a che fare poi con la possibilità di un rovesciamento in positivo, in cui oggi il cinema si rivela un’area di elaborazione di pratiche estetiche e politiche, dove questo rovesciamento della biopolitica in senso positivo può aver luogo? In fondo, la nascita e il corpo, il corpo e la carne, sono sicuramente due temi molto presenti oggi nel cinema, pensiamo a Lynch e a Cronenberg, e allo stesso Sokurov.

    Sì. Quando hai incominciato a parlare, subito mi è venuto in mente, relativamente al rapporto tra arte, degenerazione e innovazione, un film come Morte a Venezia di Visconti. La degenerazione è la malattia che, da un lato, attira l’artista e dall’altro non è inscrivibile solo in un ciclo della morte perché da quella morte inevitabilmente rinasce vita. In un doppio senso la degenerazione ha poi un elemento di rilancio sul futuro: intanto perché la degenerazione è comunque innovazione, cioè si oppone alla conservazione, degenera ciò che non si conserva ma si innova (magari in forma mortifera); e poi, perché, anche sotto il profilo dei fenomeni organici, la decomposizione rientra nel ciclo della vita. Ecco, che il cinema possa essere un altro di quei dispositivi rovesciati, oltre la carne e la nascita, non ci avevo pensato quando ho scritto il libro. Io faccio riferimento, in un punto, a Bacon, come artista contemporaneo, ma Cronenberg effettivamente, anche se non l’ho detto, è interno al mio discorso, perché appunto Cronenberg, per me, è un po’ il corrispettivo di Bacon. Nell’impalcatura delle ossa la carne fuoriesce, questo è tipico di Cronenberg. Da questo punto di vista, sì. Quello che mi chiedo in maniera più problematica però è questo: sicuramente i contenuti e le forme di alcuni film, cinema e registi contemporanei sono dentro questo discorso; non so quanto lo sia il cinema come macchina del cinema, come apparato anche economico-produttivo. Su questo bisognerebbe pensarci, diffiderei di un accostamento immediato, da questo punto di vista. Invece come contenuto dei film – il contenuto dei film è la loro forma – vedo questo accostamento. Su questo rivolgo a voi la stessa domanda.

    Riprendo una formula che tu stesso utilizzi in Bíos, «gli effetti della biopolitica, o la soggettivazione o la morte». Il cinema come pratica ha inciso sui processi di soggettivazione, sulla soggettività-massa trasformata in soggettività spettatoriale, in pubblico. Benjamin ne L’opera d’arte lo dice: il cinema ha permesso che le grandi masse che abitavano le metropoli in quegli anni, invece di rimanere nel grigiore delle loro case, potevano affollare i teatri e le sale, e in questo riconoscersi e assumere una sorta di identità collettiva spettatoriale. Questo era un processo di soggettivazione, dopodiché queste masse che affollavano i teatri hanno cominciato ad affollare le trincee, hanno iniziato, con le guerre e i totalitarismi, non più a produrre soggettività nel senso foucaultiano, ma a produrre morte. Durante i totalitarismi e la guerra, il rapporto tra il cinema e le masse si sfalda. La grande utopia del cinema di poter rappresentare il pensiero ed educare le masse frana con i totalitarismi e il cinema di propaganda. Dalle macerie del totalitarismo nasce tutto un altro cinema, e si sfalda una volta per tutte questo legame tra potere, tecnologia e masse.

    Io partirei da Foucault, che tu appunto hai ricordato. Il discorso di Foucault si dirama in due direzioni divergenti: da un lato soggettivazione, dall’altro morte. Il potere produce o soggetti (cura di sé, tecnologia del sé, coscienza dei soggetti) oppure morte della soggettività, reificazione. Il mio tentativo è stato quello di tenere insieme questi due elementi che Foucault divarica. Ho tentato di farlo attraverso la categoria di immunizzazione, perché l’immunizzazione è esattamente ciò che producendo soggettività, proteggendo la soggettività, insieme la nega. Oltre un certo limite, quando

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