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Estetiche della verità. Pasolini, Foucault, Petri
Estetiche della verità. Pasolini, Foucault, Petri
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E-book288 pagine7 ore

Estetiche della verità. Pasolini, Foucault, Petri

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Se dovessimo individuare una parola chiave per descrivere il presente, verità sarebbe una candidata molto quotata. Assistiamo oggi a un’indiscutibile fascinazione per la verità: escono ogni giorno accorati appelli per ritrovare una verità delle parole, nonché una continua rincorsa a esibire una verità dei gesti e dei sentimenti, dei comportamenti e dei pensieri. Ma come mai in un’epoca definita “post-veritiera” l’influenza del termine verità è ancora così forte?
Questo libro analizza alcune immagini che hanno a che fare con la verità, quelle che si sono conformate alla sua presunta immediatezza – a partire dai reality show e dai social network, i grandi dispositivi confessionali di oggi – e soprattutto quelle che l’hanno affrontata in termini critici. Michel Foucault, Pier Paolo Pasolini ed Elio Petri sono le figure principali di questo libro: a loro si devono le riflessioni più significative sulla relazione tra potere e verità, elaborate – sorprendentemente – quasi in contemporanea. Tra la fine del 1975 e l’inizio del 1976, infatti, mentre il pensiero di Foucault conosceva una svolta significativa con La volontà di sapere, Pasolini e Petri realizzavano Salò o le 120 giornate di Sodoma e Todo modo: due film maledetti, censurati e rimossi, che mettevano in scena una spietata analisi delle due facce di questa relazione, divisa tra repressione totalitaria e cura pastorale.
Dialogando ampiamente con filoni di studio consolidati e ricerche pregresse, il libro propone un confronto tra queste tre figure all’incrocio tra cinema e filosofia, per esplorare poi come le riflessioni da loro sviluppate con immagini e parole rivelino un’attualità decisiva all’interno di molte questioni del presente e aprano nuovi percorsi di interpretazione. È dunque un libro su questi tre autori, su due film cruciali come Salò e su Todo modo, ma anche sul carattere particolare del cinema italiano nella rappresentazione del potere e, più in generale, sull’utilità della teoria del cinema per affrontare concetti e problemi centrali nel dibattito contemporaneo. Un volume rivolto a pubblici differenti, dagli studiosi e appassionati di cinema a quelli di filosofia critica, che intreccia un approccio specialistico e dettagliato con un’apertura prospettica
LinguaItaliano
Data di uscita20 nov 2020
ISBN9788868229610
Estetiche della verità. Pasolini, Foucault, Petri

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    Anteprima del libro

    Estetiche della verità. Pasolini, Foucault, Petri - Giacomo Tagliani

    Collana diretta da

    Roberto De Gaetano

    GIACOMO TAGLIANI

    Estetiche della verità

    Pasolini, Foucault, Petri

    Frontiere. Oltre il cinema

    Collana diretta da Roberto De Gaetano

    Comitato scientifico

    Gianni Canova, Francesco Casetti, Ruggero Eugeni, Pietro Montani, Dork Zabunyan

    Coordinamento

    Alessandro Canadè

    Volume stampato grazie ai fondi dedicati del progetto PRIN 2017 Archivi audiovisivi del Sud: la modificazione del paesaggio meridiano negli anni compresi fra il 1948 e il 1968 del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Palermo.

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBopk 2020

    da Pellegrini Editore

    Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    I. Il Potere Pastorale:

    tecniche e immagini

    Verità e politica

    È noto il compito che Foucault ha assegnato al suo lavoro: rendere intelligibile il funzionamento di quel dispositivo di verità che è prodotto dalla ragione occidentale e che si identifica in essa, per «sapere se è possibile costituire una nuova politica della verità» e «staccare il potere della verità dalle forme di egemonia (sociali, economiche, culturali) all’interno delle quali per il momento funziona»[1]. Il filosofo e l’intellettuale non dicono la verità – non possiedono e comunicano cioè un sapere che si accorda con un’ideologia – ma, al contrario, sono coloro che mettono a nudo i meccanismi di produzione e circolazione della verità, intesa nei termini di criterio di legittimità degli enunciati all’interno di una data società. Enunciati che, ovviamente, non sono separabili dalle pratiche e dalle tecniche che li accompagnano. La disarticolazione delle procedure che ne sorreggono le modalità di enunciazione, dunque, non serve semplicemente a confutare il loro statuto di verità, ma è l’operazione necessaria a costruire una politica alternativa della verità.

    L’insistenza sul termine verità potrebbe risultare anacronistica; eppure, se dovessimo individuare una parola chiave per descrivere il contemporaneo, questa sarebbe una candidata sicuramente molto quotata. Assistiamo oggi a una fascinazione indiscutibile per la verità: ecco ogni giorno accorati appelli al ritrovare una verità delle parole, ma anche una rincorsa inesausta a esibire una verità dei gesti e dei sentimenti, dei comportamenti e dei pensieri. È certamente paradossale questo ritorno, a maggior ragione in un’epoca definita da più parti post-veritiera; eppure, questa parola circola tra i discorsi sociali con un’efficacia e una pervasività probabilmente senza pari[2]. Se la verità non può esistere che come proposizione logica in relazione alle condizioni di verificazione, ci dice la filosofia più accorta, al contrario l’esperienza quotidiana asserisce continuamente che la verità non può esistere che come stile di vita. Come gestire questa insanabile antinomia?

    Il credere «prima ancora che un prendere per vero è un prendere per buono»[3], ha scritto recentemente Salvatore Natoli; constatazione pienamente condivisibile, ma solo a patto di considerare il buono come espressione sensibile del vero, forma visibile che testimonia la congiunzione di un soggetto, di un fatto o di una situazione con un autentico presupposto. Quello che dunque è un problema etico – e che orientato sulle forme di vita definisce appunto il campo di un’etica del sé – diviene anche una questione che riguarda le specifiche estetiche della verità conosciute dalla contemporaneità, che hanno riattivato, spostandole, tecniche e pratiche sedimentate nel corso della storia a partire dall’Antichità classica attraverso la successiva rimediazione della Cristianità[4].

    Questa congiunzione, così efficace dal punto di vista retorico, governa oggi l’intero ordine dei discorsi, incluso quello politico; anzi, proprio quest’ultimo è forse il terreno sul quale ha meglio attecchito, sancendo il passaggio della questione fiduciaria dalle forme di elaborazione proprie del piano cognitivo a quelle tipiche del piano emotivo, ovvero dalla mediazione del sensibile all’immediatezza della sensazione. E dunque, i tentativi di incrinare la perfetta saldatura tra le forme della veridizione e le condizioni della veracità – «la dote di chi dice il vero, o è abituato a dirlo», recita il dizionario Treccani – sono costitutivamente un gesto politico di primaria importanza alla luce proprio dello spostamento subito recentemente dal concetto di verità. L’ossessione per quest’ultima e la parallela impossibilità di definirla in modo univoco – in quanto irriducibile a una semplice possibilità di verificazione, cioè di congruenza su base fattuale – sono forse l’incognita più grande che grava sul futuro della società odierna, attraversata dalla scomparsa di ogni istituzione dotata di autorevolezza epistemica che in qualche modo delega all’esperienza diretta la condizione necessaria e sufficiente per la presa di parola nel pubblico consesso[5].

    Si tratta di un insieme di preoccupazioni sulle quali si era già soffermato Foucault nel penultimo dei suoi corsi al Collège de France, il primo dedicato al governo di sé e degli altri, nel quale la genealogia dei rapporti tra soggetto e verità era indirizzato specificamente a indagare la dimensione pubblica dei discorsi. Sebbene molto restio ad avanzare parallelismi tra il passato e il presente, nella lezione del 2 febbraio 1983 Foucault esplicita fugacemente l’attualità della sua prospettiva, apparentemente sempre più circoscritta al passato remoto. Qui, sotto la lente foucaultiana finisce il rapporto paradossale tra dir-vero (la parresia, sulla quale ritorneremo più avanti) e funzionamento della democrazia, divisa tra una dynasteia (il problema del gioco politico, delle sue regole e dei suoi interpreti, ovvero la politica come esperienza) indicizzata al discorso vero e una politeia indicizzata all’equa ripartizione del potere. Come conciliare la possibilità che tutti i cittadini possano prendere la parola in un pubblico consesso (isegoria) e il fatto che nella pratica politica vi siano effettivamente dei discorsi veri, in quanto dotati di alcuni requisiti e riconoscibili come tali?

    Ebbene, in un’epoca come la nostra – in cui si ama tanto sollevare i problemi della democrazia in termini di distribuzione del potere, di autonomia di ognuno nell’esercizio del potere, in termini di trasparenza e di opacità, di rapporto tra società civile e Stato – credo sia forse bene richiamare questa vecchia questione, che è stata contemporanea al funzionamento stesso della democrazia ateniese e alle sue crisi: cioè della questione del discorso vero e della cesura necessaria, indispensabile e fragile che il discorso vero non può non introdurre in una democrazia. Una democrazia che rende possibile il discorso vero e che al tempo stesso lo minaccia senza posa[6].

    I momenti di esplicita critica del presente sono rari in Foucault, ma forniscono indicazioni preziose per una possibile estensione dell’orizzonte di senso di una ricerca così articolata e tuttavia distante nel tempo. Riassunto oggi sotto l’indeterminato rapporto tra post-verità e fake news nell’ambito dei social network, questo quesito non può però prescindere da un’altra questione più profonda, quella della relazione che lega soggetto e verità nella cornice delle dinamiche di governo, di sé e degli altri. È noto che dagli anni settanta Foucault ha eletto tale relazione a proprio bersaglio analitico e polemico privilegiato, presentandolo come compito urgente e inemendabile. Lo aveva anticipato nel primo dei corsi al Collège de France, incentrato attorno alla volontà di sapere, sottolineando il carattere politico della verità come strumento di creazione di asimmetrie all’interno delle società:

    La verità è ciò che permette di escludere; di separare quello che è pericolosamente mescolato; di distribuire in maniera esatta l’interno e l’esterno; di tracciare i limiti tra ciò che è puro e impuro. La verità ormai fa parte dei grandi rituali giuridici, religiosi, morali, richiesti dalla città. Una città senza verità è una città minacciata. Minacciata dalle mescolanze, dalle impurità, dalle mancate esclusioni. La città ha bisogno della verità come principio di partizione. Ha bisogno di discorsi di verità che mantengano le partizioni[7].

    È in questa cornice – che virtualmente abbraccia tutto il percorso del secondo Foucault – che il potere pastorale si innesta come forma specifica di governo attraverso la verità. In quanto tale, definisce delle rigide partizioni riassunte nella celebre formula che identifica l’introduzione del concetto di biopotere nell’analisi foucaultiana: «al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte»[8]. L’effetto di questa dialettica – a tratti paradossale e di difficile ricomprensione entro uno schema unitario – è la creazione di «un regime dal doppio regime: conciliatore con chi sta dentro, spietato con chi sta fuori. Così è ogni regime pastorale il cui volto benevolo si associa alla mano correzionale, cioè repressiva»[9]. E ciò è possibile perché i tre paradigmi che scandiscono l’analitica del potere sviluppata da Foucault – vale a dire la sovranità, la disciplina e la governamentalità – non sono forme reciprocamente escludentisi (nonostante la loro comparsa in tempi diversi e la loro necessaria distinzione), ma si integrano e si compenetrano lasciando affiorare in rilievo, di volta in volta, tratti specifici.

    In piena epoca governamentale, assistiamo infatti a una rinnovata vitalità degli altri due paradigmi, come le questioni relative alla sorveglianza, ad esempio, testimoniano ampiamente[10]; allo stesso modo, il dispositivo politico della sovranità «non solo sembra tutt’altro che destinato a dileguarsi, come pure con qualche precipitazione ci si era affrettati a pronosticare, ma, almeno per quanto riguarda la maggiore potenza mondiale, esso pare estendere e intensificare il proprio raggio d’azione»[11] pur nella necessaria rimodulazione del proprio profilo. Ed è il pastorato il luogo dove una giunzione fra i due termini si rende possibile: «come il modello sovrano incorpora in sé l’antico potere pastorale – il primo incunabolo genealogico del biopotere –, così quello biopolitico porta dentro la lama tagliente di un potere sovrano che al contempo lo attraversa e lo sopravanza»[12]. È proprio questa biforcazione a definire la specifica complementarità di Salò e Todo modo: dove nel film di Pasolini è l’aspetto repressivo a prendere il sopravvento, in quello di Petri sono le forme della condotta finalizzate alla pienezza del sé a muovere l’intreccio. Ma, come vedremo dettagliatamente, queste attitudini si scambiano incessantemente di posizione, delineando un profilo tanatopolitico come orizzonte di senso comune a queste diverse pratiche che lascia affiorare un interrogativo inquietante sulle prospettive future della politica globale.

    La verità del pastore

    Nell’introdurre una «storia della governamenta

    lità»[13], Foucault ne indica l’origine in un modello arcaico di pastorato cristiano, proponendosi di analizzarlo attraverso le trasformazioni subite nel passaggio dall’Oriente precristiano all’Occidente moderno. La metafora del pastore per designare chi è alla guida della città sarebbe mutuata dalle culture medio-orientali tramite la mediazione ebraica, che riserva tale appellativo a Dio nella sua relazione con gli uomini, istituendo dunque un potere di stampo tipicamente religioso che si configura «come modello e matrice di procedure di governo degli uomini»:

    Il pastorato inizia con un processo assolutamente unico nella storia e di cui non c’è traccia in nessun’altra civiltà: il processo grazie al quale una comunità religiosa si costituisce come Chiesa, cioè come un’istituzione che aspira al governo degli uomini nella loro vita quotidiana, col pretesto di condurli alla vita eterna in un altro mondo, non limitandosi a un gruppo circoscritto, a una città o a uno stato, ma rivolgendosi all’umanità intera. Una religione che aspira al governo quotidiano degli uomini nella loro vita reale, col pretesto della loro salvezza e su scala mondiale: questa è la Chiesa, e non si conoscono esempi simili nella storia delle società[14].

    La portata del pastorato si delinea qui nella sua ampiezza: universalità temporale (la dimensione escatologica) e totalità spaziale (l’universalità della chiamata divina) che si diffonde sino ai più reconditi anfratti della quotidianità umana, evidenziando il legame essenziale con la Chiesa cattolica. La correlazione tra potere politico e religioso non viene proposto però tanto nei termini di un’alleanza strategica, quanto piuttosto sulla permuta di procedimenti e di tecniche che fanno sì che l’esperienza temporale della Chiesa in quanto Stato sia solo un caso specifico all’interno della sua aspirazione di governo. Se la Controriforma è il momento di avvio della concrezione delle problematiche di governo religioso e politico, con l’aspirazione alla conoscenza capillare delle gesta e dei sentimenti per correggere possibili deviazioni dalla norma[15], è nel XVIII secolo che emerge una forma sostanzialmente unitaria non più limitata a un semplice gioco di scambi e di permute, ma che assume il problema del governo come regolamentazione della vita dell’individuo sin nei suoi aspetti più minuti. L’essere umano costituisce il risvolto e l’oggetto su cui si applica un tale potere, venendo considerato contemporaneamente un individuo ben preciso e parte di un’unità omogenea e molteplice, il gregge. L’individuo è dunque sottoposto a un processo, scandito dalle tre tappe dell’identificazione analitica, dell’assoggettamento e della soggettivazione, che mobilita «la storia delle procedure di individualizzazione umana in Occidente», o meglio, l’intera «storia del soggetto»:

    Un soggetto assoggettato attraverso reti ininterrotte di obbedienza e soggettivato estraendo da lui stesso la verità che gli viene imposta. Mi sembra quindi che siamo di fronte alla costituzione del soggetto occidentale moderno, che rende senza dubbio il pastorato uno dei momenti decisivi nella storia del potere nelle società occidentali[16].

    Nonostante questo rilievo, il concetto di potere pastorale sembra rimasto più nell’ombra rispetto alla fortuna goduta dai termini biopotere e biopolitica, forse anche per la sua difficile collocazione nello schema analitico proposto da Foucault, situandosi contemporaneamente a monte (come modello astratto) e a valle (come tipo storicamente determinato e circoscritto). Eppure, nel presente, sono molti i casi che questo termine sembra illuminare con singolare ed efficace capacità descrittiva: si pensi soltanto alla questione delle guerre umanitarie condotte sotto l’egida del minore dei mali possibili[17]. Un concetto dunque sufficientemente ampio da mettere in risonanza e comparazione fenomeni anche molto diversi, ma abbastanza puntuale da operare una scrematura che esclude il superfluo e il ridondante dal campo analitico.

    Pastorato, governo e condotta sono i tre poli attorno ai quali si articolano le analisi elaborate a partire dal 1976, segnando uno spostamento decisivo rispetto a quel rapporto sapere-potere rimasto più impresso negli studi post-foucaultiani[18]. Oltre a ricostruirne la storia, Foucault ha stilato un tassonomia dei tratti peculiari del potere pastorale, un potere che «si propone di vegliare sulla salvezza di tutti facendosi carico di ogni elemento particolare, di ogni pecora del gregge», senza limitarsi a una funzione coercitiva e disciplinante verso il singolo, ma cercando piuttosto «di conoscerlo, di scoprirlo, di far emergere la sua soggettività e di strutturare il rapporto che questi ha con se stesso e con la sua coscienza»:

    Le tecniche pastorali del Cristianesimo per quanto riguarda la direzione di coscienza, la cura delle anime, tutte quelle pratiche che vanno dall’esame di coscienza all’ammissione attraverso la confessione (aveu), quel rapporto obbligato nei confronti di se stessi fondato sulla verità: mi sembra questo uno dei punti fondamentali del potere pastorale, che lo rende un potere individualizzante[19].

    La verità è dunque al centro delle preoccupazioni del potere pastorale, l’oggetto del contendere e il fine a cui tendere attraverso la direzione di coscienza, tratto saliente di questa forma di potere e prerogativa del suo custode, il pastore, il cui rapporto con il soggetto si realizza lungo due direttrici: da un lato, il pastore insegna alle pecore del gregge, proseguendo idealmente la tradizione dei maestri di verità e dei filosofi dell’Antichità; dall’altro, il pastore apprende dal suo gregge attraverso le tecniche confessionali. È in questo secondo aspetto che consiste la differenza rispetto alle pratiche antecedenti: l’obbligo per il fedele di esternare anche i più reconditi pensieri dipende da un procedimento assolutamente tipico del Cristianesimo, la confessione esauriente e permanente, un dispositivo discorsivo flessibile che prevede una determinata relazione fra il soggetto e lo spazio di enunciazione, e un regime di verità specifico. La confessione è una tecnica che diventa dunque imprescindibile dentro il potere pastorale perché produce una verità nuova, non conosciuta prima né dal pastore né dal soggetto, che «vincolerà in modo permanente il pastore al gregge e a ogni suo componente. La verità, la produzione della verità interiore, la produzione della verità soggettiva è un elemento fondamentale nell’esercizio dell’ufficio pastorale»[20].

    L’insistenza di Foucault su confessione ed esame di sé – in quanto declinazione cristiana specifica dell’esercizio spirituale – è parte fondamentale del progetto di una genealogia del soggetto moderno che, nelle intenzioni del filosofo francese, dovrebbe arricchire una filosofia tradizionale del soggetto conferendogli una dimensione storica nonché una finalità diagnostica posta a compito principale della filosofia[21]. Per Foucault, così, si tratta di ricercare la natura di tali tecnologie e pratiche perseguendo un’analisi teorica dotata di una dimensione specificatamente politica. Lo spostamento da una dimensione transitiva delle forme della conoscenza – orientata dunque sul soggetto nella sua tensione verso l’oggetto – a una riflessiva – le possibilità cioè di modificare se stessi – è il punto centrale di questa impostazione. Rispetto alle aporie insite nell’idea contemporanea di verità, è dunque evidente la sua centralità all’interno del gioco discorsivo attuale.

    Questo passaggio determina anche l’individuazione di un’ulteriore tipologia di tecniche, almeno rispetto a quelle analizzate da Foucault sino alla prima metà degli anni Settanta, le tecnologie del sé appunto, l’insieme di pratiche che il soggetto mette in atto per conoscere, trasformare e migliorare se stesso[22]. Per analizzare la genealogia del soggetto nelle società occidentali è insomma necessario prendere in esame tanto le tecniche di dominio o tecniche del potere – la coercizione disciplinare – quanto le tecniche del sé, la cui interazione definisce la specifica dinamica tra soggettivazione e assoggettamento. Tra queste ultime tecnologie, le più importanti nelle società contemporanee sono quelle legate all’analisi interpretativa del sé[23]: è per questo che Foucault può parlare, con espressione ormai celebre, dell’uomo occidentale come «bestia da confessione»[24], a patto di ricordare che l’efficacia di tale pratica dipende essenzialmente dalla predisposizione del soggetto a rimettersi integralmente nelle mani del proprio confessore, operando un lavoro perpetuo di decifrazione interiore che affonda le sue radici proprio nella sfera degli esercizi spirituali codificati nell’Antichità, seppur con significativi spostamenti[25].

    Confessione ed esercizi spirituali

    La confessione è quel dispositivo che, nella prospettiva occidentale, veicola una verità su se stessi, in quanto tale non dimostrabile e non confutabile, presentandosi dunque dal principio come vera, stabilendo «l’identificazione tra colui che parla e la fonte, l’origine, la radice di questa verità» e definendo un processo «molteplice e complesso che è stato decisivo per la storia della verità nelle nostre società»[26]. Posta sin dal Medio Evo tra i riti principali da cui si attende la produzione di verità, questa si è iscritta all’interno delle procedure di individualizzazione da parte del potere, contribuendo in termini espliciti alla costituzione del soggetto singolare e conoscibile. Secondo Foucault, la confessione è un «rituale discorsivo» definito da quattro punti determinanti: la coincidenza tra il parlante e il soggetto dell’enunciato (dunque un io del discorso incarnato che pone il proprio sé al centro dell’argomentazione); il dispiegamento di un rapporto di potere dettato dalla presenza «almeno virtuale di un partner che non è semplicemente l’interlocutore, ma l’istanza che richiede la confessione, l’impone, l’apprezza e interviene per giudicare, punire, perdonare, consolare, riconciliare»; la presenza di ostacoli il cui superamento diventa la prova dell’autenticità della verità proferita; la produzione di modificazioni intrinseche nel soggetto che la proferisce, indipendentemente dalle conseguenze esterne. Inoltre, questa istituisce uno specifico effetto di verità attraverso l’autorità determinata non dalla tradizione che trasmette, ma «dall’appartenenza essenziale del discorso fra colui che parla e ciò di cui parla. Al contrario, l’istanza di dominazione non è dalla parte di colui che parla, ma da quella di colui che ascolta e tace. [...] E questo discorso di verità produce infine il suo effetto non in chi lo riceve, ma in colui al quale lo si strappa»[27].

    Per assumere questo assetto specifico, il rituale della confessione ha subito un’opera continua di trasformazione e affinamento, resa possibile dal mutamento del rapporto tra sé e verità intercorsa tra l’Antichità classica e i primi

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