Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il casolare Amaranto
Il casolare Amaranto
Il casolare Amaranto
E-book230 pagine3 ore

Il casolare Amaranto

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Luckas, giornalista affermato, è un uomo appagato e sicuro di sé almeno

sino a quando non incrocia sulla sua strada Clara, una giovane ed

esordiente pittrice, una donna enigmatica e dal forte carisma.

Tra i due si innescherà uno strano gioco fatto di ripicche, dispetti e

sciocche rivendicazioni che sfocerà in un amore travolgente e

appassionato ma Clara è sposata con un russo emigrato in Italia dedito

alla contraffazione d'opere d'arte e ritenuto una sorta di "Padrino" nel

traffico degli affari illeciti.

Sarà proprio il timore verso quest'uomo che li porterà a consumare il

loro amore di nascosto ma sarà proprio la forza di quest'amore che li

convincerà, successivamente, a uscire allo scoperto.

Da quel momento in poi, per i due amanti, nulla sarà più come prima, le

loro vite cambieranno per sempre e con esse anche il loro destino.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2020
ISBN9791220310802
Il casolare Amaranto

Correlato a Il casolare Amaranto

Ebook correlati

Narrativa romantica di suspense per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il casolare Amaranto

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il casolare Amaranto - Annalaura Littero

    CAPITOLO 1

    Mi domandai perché?

    Cos’è che mi aveva impedito sino ad allora di fare ciò che volevo.

    Vagavo nel salone della mia casa, dove la scia del suo profumo aleggiava ancora, dove il silenzio sembrava piombare ogni qual volta restavo solo.

    A pranzo sarebbe tornata ma probabilmente non mi avrebbe trovato. Era giusto che le dicessi qualcosa? Era giusto che le dessi almeno una spiegazione?

    Quanto potevano servire le parole consolatorie di chi ti sta lasciando?

    Non c’erano parole che avrebbero potuto evitare il dolore che le avrei inflitto, come non c’erano parole che lei avrebbe potuto usare per trattenermi dall’andare via. Avevo la sensazione di aver sprecato la mia vita sino a quel momento sebbene lei l’avesse riempita d’amore.

    Non avevo nulla da rimproverarle, nulla per cui colpevolizzarla ma nonostante tutto volevo andare via da lei.

    Guardai la nostra foto appesa alla parete, una delle prime scattate assieme. Avevo mentito anche quel giorno? Avevo solo creduto di amarla?

    Più volte l’avevo chiesto a me stesso e più volte non avevo saputo darmi una risposta.

    Piegai le maniche della camicia e la riposi nella valigia, guardai il vecchio orologio a cucù appeso sulla testata del letto, finalmente non avrei udito più neanche il suo ticchettare.

    Raccolsi le ultime cose che avevo lasciato sparse per casa incluso il bizzarro cappello che mi aveva portato di regalo, qualche mese fa, da uno di quei mercatini di paese a cui le piaceva tanto andare.

    Chiusi il borsone e lo tirai giù dal letto. Presi le chiavi della mia auto e prima di uscire di casa guardai il divano rosso che insieme avevamo acquistato; la immaginai, seduta tra quei cuscini, piangere la mia assenza.

    A volte si spera di soffrire più di quanto si possa far soffrire l’altro per poter dire anch’io sto male, per potersi sentire sollevati dall’aver inflitto dolore ma io non stavo male neanche un po’, neanche all’idea di come disperatamente l’avrebbe presa.

    Prima ancora di uscire da quella casa mi sentivo rinato, libero da ogni vincolo o costrizione, libero di seguire il mio istinto che sino ad allora avevo cercato di reprimere.

    Avrei ricostruito la mia vita e l’avrei fatto senza di lei perché solo ora mi rendevo conto che nei miei progetti lei non c’era mai stata.

    Lasciai sul tavolo della cucina una rosa, era il mio saluto silente.

    Una rosa bianca come l’immagine pura che ne avevo, una rosa dal colore candido come l’essenza del suo essere.

    L’avevo acquistata nel piccolo chiosco di fiori vicino casa, l’avevo acquistata con tutt’altro spirito rispetto a quello che solitamente accompagna la volontà di un uomo nel regalare dei fiori a una donna.

    L’avevo scelta bianca, sì, perché nessun altro colore sembrava potesse rappresentare nel migliore dei modi le mie intenzioni e allora avevo optato per quella scelta che, più di ogni altra, mi era sembrata potesse esprimere al meglio la mia volontà di dirle addio senza rancori.

    Avevo optato per quella scelta anche per la percezione che, ad oggi, avevo della sua persona. La vedevo come un essere limpido, pulito, dall’animo integro e innocente; talmente incontaminato da risultare ai miei occhi addirittura trasparente.

    Così cristallina da brillare ma comunque incapace di suscitare in me le emozioni di quella vita a colori ricercata sin dalla mia infanzia.

    Il bianco, un colore certamente accomodante, rassicurante ma io volevo il rosso della passione, il giallo della gelosia, il verde della speranza.

    Quella rosa era il modo più cortese che avessi trovato per dirle addio dato che non avevo parole per giustificare il mio gesto. Era il mio modo cortese per dirle comunque grazie per la dedizione, l’affetto, la cura e l’interesse che aveva mostrato per me in questi anni.

    Era stata una donna impeccabile ma questo non era bastato a farmi redimere.

    Più volte provai a scrivere due righe da lasciare su un biglietto accanto al mio dono.

    Pensai e ripensai alle parole che avrei potuto usare ma nessuna parola mi sembrava giusta o comprensibile ai suoi occhi. Più volte accartocciai quel biglietto e provai a ricominciare. Più volte finii col gettarlo nella spazzatura.

    Alla fine decisi di non scrivere nulla, non volevo mentirle se significava addolcire quel momento né tanto meno volevo assestare il colpo se significava essere sincero.

    Presi il mio impermeabile e nel farlo mi accorsi di avere ancora in tasca la lista della spesa che mi aveva lasciato la sera prima. Accartocciai anche quella e la rinfilai da dove l’avevo presa.

    Attraversai il lungo corridoio che dalla cucina portava all’ingresso ancora avvolto da quel trambusto di pensieri che sembravo portarmi in spalla come un macigno, un peso che sembrò diventarmi improvvisamente più leggero alla vista dell’ultima soglia da varcare.

    Aprii la porta di casa e andai via senza ripensamenti, senza dubbi, senza paure e sebbene la mia mente continuasse a ripetermi che stavo commettendo una follia, il mio istinto continuava a dirmi che sarebbe valsa la pena commettere qualsiasi follia se fosse servita a farmi raggiungere la felicità!

    CAPITOLO 2

    Conobbi Clara quando avevo solo 28 anni e non dico che me ne innamorai da subito ma quasi.

    Ricordo che la prima volta che la vidi ne rimasi stregato, era straordinariamente bella.

    Capelli neri come la pece che le correvano ondeggianti lungo quasi tutta la curva della schiena, occhi scuri dal taglio inusuale per un’europea.

    Mi trovavo per uno dei miei tanti articoli a Venezia a una mostra di giovani artisti e mi fu fatta notare da un collega che l’aveva ritenuta uno degli astri emergenti del momento.

    La prima cosa che mi colpì è che fosse in compagnia del signor Komansky, un pezzo grosso, un russo emigrato in Italia definito una sorta di padrino negli affari del mondo dell’arte; si vociferava facesse traffici illeciti di falsi d’autore e, nonostante tutti sapessero, nessuno era mai riuscito a trovare sufficienti prove per incastrarlo. Non ci diedi troppo peso, tutti sapevamo anche che bazzicava queste mostre alla ricerca dei migliori talenti.

    La natura e la sua imponenza trionfano sulle tele di Clara Cantone. Un senso di verticalità tende ad esaltare le scene, l’esplorazione della natura diventa interprete e avvolgente... cominciai a scrivere sul mio taccuino. I suoi lavori erano davvero accattivanti ed era da tempo che non mi capitava di trovarmi di fronte a una tale originalità.

    Finito di trascrivere i miei appunti, decisi con Fabio mio assistente e caro amico, di fermarci a pranzo al Rugantino, uno dei ristoranti più vicini alla sede della mostra e forse anche uno dei più prestigiosi. Tra un antipasto e l’altro la rividi.

    Aveva preso posto al tavolo di fronte al nostro ed era ancora insieme al signor Komansky, provai a immaginare cosa le stesse proponendo.

    Nell’andirivieni delle varie portate il mio sguardo cadeva inevitabilmente sempre su di loro o, per meglio dire, su di lei ma mai una sola volta le vidi rivolgermi lo sguardo; mai una sola volta, neanche per sbaglio, indirizzò i suoi occhi verso me.

    Io ne ero rimasto completamente ammaliato mentre lei, a differenza mia, non si era neanche lontanamente accorta della mia esistenza.

    Era così concentrata ad ascoltare le parole del suo accompagnatore che sembrava non prestare attenzione a nient’altro ruotasse all’infuori della sfera del loro tavolo; nemmeno a me che, forse da ore, la stavo fissando.

    Poi, quasi come accade nei film, la vidi andar via in compagnia dell’uomo ma nell’uscire, sbadatamente, qualcosa le cadde dalla borsa.

    Non ebbi neanche il tempo di richiamarli prima che i due, in maniera frettolosa, si dileguassero tra gli stretti vicoletti cittadini affollati dai turisti.

    Solo dinanzi alla porta d’ingresso mi resi conto di avere in mano il suo portamonete.

    Cominciai a sbirciarci dentro: un paio di banconote, qualche ricevuta, documenti e alcuni bigliettini da visita su cui spiccava in neretto e a caratteri maiuscoli:

    CLARA CANTONE

    VIA XXII MARZO

    30121 VENEZIA

    Durante la mostra avevo sentito dire che la sua permanenza a Venezia sarebbe durata per tutto l’arco del mese e che, l’ambiziosa incantatrice, aveva affittato un piccolo studio dove continuava a dipingere ispirata dal fascino veneziano.

    Questo doveva esserne l’indirizzo, avevo pensato, e non so ancora per quale assurda ragione mi convinsi a recarmi in Via XXII Marzo il giorno successivo.

    Probabilmente qualcun altro al posto mio avrebbe consegnato il portamonete al gestore del locale nella convinzione che lei sarebbe tornata a cercarlo ma io no, io sentivo un impulso irrefrenabile che mi spingeva a restituirglielo personalmente, un impulso che, molto tempo dopo, capii fosse dettato dalla voglia inconscia ma già fortemente decisa di rivederla ancora una volta.

    Ricordo perfettamente che quella mattina pioveva ma quel cielo grigio non era riuscito ad offuscare lo scintillio di raffinatezza che solo poche città al mondo possono vantarsi di possedere. Non era la mia prima volta a Venezia eppure i miei occhi sembravano osservarla sempre con uno stupore nuovo. Tra calle, calette e caleselle (è così che i veneziani chiamano le loro vie) ci si ritrova immersi in un paesaggio che sa d’altri tempi, che profuma di storia mentre si viene trascinati dalla mole di gente che ogni giorno affolla la città. Ci sono calle più larghe e alcune così strette da farti credere di poterci rimanere soffocato dentro. Difficilmente si riesce a mantenere il senso dell’orientamento, è come un labirinto meraviglioso dal quale si sa come ci si è entrati e non si sa come uscirne ma io sapevo dov’ero diretto. Via XXII Marzo o, per meglio dire Calle Larga XXII Marzo, altro non era che la tanto rinomata e famosa via dello shopping di lusso.

    Dopo essere stato trascinato come una sardina dalla corrente del flusso turistico, sembrai riprendere fiato solo in Piazza San Marco. Qui, dove la calca sembra diradarsi appena, dove gli spazi sembrano ridare aria, tornai ad assaporare il fascino di quella città immortale costruita sull’acqua. Tra elementi artistici e architettonici unici nel panorama mondiale, accelerai il passo, la lieve pioggerellina cominciava a diventare sempre più insistente.

    Quando giunsi dinanzi al portone indicatomi dal bigliettino trovato, ringraziai l’architetto per averlo provvisto di una tettoia.

    Un palazzotto sicuramente degli inizi ‘800 ristrutturato da poco.

    Le pareti chiare e appena inumidite dal maltempo, un grosso cornicione che faceva d’appoggio a un gran numero d’impavidi piccioni, le finestre dai vetri oscurati in modo da non poterci sbirciare dentro, alcune aperte altre nascoste da caratteristici infissi in legno bianco fatti a listoni di media grandezza.

    Poi quel portone, così imponente, dal colore scuro come sembrava essere diventata l’acqua dei graziosi canali veneziani per via della pioggia battente.

    Ci misi qualche secondo prima di trovare il suo nella lunga lista di nomi che figuravano sul campanello e qualche altro ancora prima di suonare, volevo essere sicuro di cosa dire.

    Chi è? - era la prima volta che udivo la sua voce e, seppure per citofono, mi piaceva.

    Era calda, decisa, quasi come me l’ero immaginata.

    Deglutii.

    Sono il signor Colai, un giornalista che era ieri alla mostra…

    Non rilascio interviste. Per qualsiasi cosa è pregato di rivolgersi al mio ufficio stampa! e, prima che potessi aggiungere altro, in maniera sgarbata e arrogante riattaccò senza lasciarmi dire un'altra sola parola.

    Bell’inizio pensai, una gran presuntuosa che appena cavalcata la cresta dell’onda già si dava arie.

    Il mio ufficio stampa? Ma quale ufficio stampa?

    Doveva essere già un miracolo se qualcuno si ricordava il suo nome.

    Indispettito da tale boriosa affermazione, guardandomi bene dal non farmi notare da nessuno, presi il porta monete e lo conficcai con forza nella terra molle e bagnaticcia del vaso di gerani che era accanto alla porta; premetti con le dita sino a farlo affondare il più possibile in quella fanghiglia melmosa. Senza pensarci due volte mi scrollai dalla mano i residui di terra appiccicosa sfregandola appena sui pantaloni ormai umidi. Estrassi dal borsello il mio taccuino e cominciai a scrivere, successivamente presi il biglietto e lo incastrai nella targhetta su cui figurava il suo cognome. Prima di andare via, però, lo rilessi velocemente con lo sguardo:

    "Ci sono molte probabilità che in futuro sia lei a pregare me di farle un’intervista. Nel frattempo si diletti a scavare, nella terra dei gerani c’è qualcosa che le appartiene.

    Con i miei ossequi, il signor Colai".

    Sotto, non chiedetemi perché, il mio numero di telefono poi, da permaloso quale sono, me ne tornai a casa più o meno soddisfatto.

    CAPITOLO 3

    Il mio lavoro procedeva a gonfie vele e il mio talento, devo ammetterlo, mi rendeva il numero uno in quello che facevo. In quegli anni ero giovane e ambizioso, la mia carriera era la mia priorità, la scalata al successo la mia meta imprescindibile e malgrado fossi un uomo piacente non avevo tempo per relazioni stabili, solo incontri occasionali il più delle volte voluti per soddisfare la mia voglia di sesso. Passavo le mie giornate in viaggio tra un paese e un altro alla ricerca di sensazionali notizie da raccontare al mondo e questo mi appagava più di ogni cosa.

    Ero stato assunto per il MilanoNews uno dei quotidiani più venduti all’epoca, molti avrebbero fatto carte false per quel posto e me ne rendevo conto, per questo mi ci dedicavo anima e corpo.

    Nonostante fosse passato un po’ di tempo dal mio incontro con Clara, a volte mi era capitato di pensarla. Scioccamente avevo creduto che prima o poi mi avrebbe chiamato per scusarsi e ringraziarmi per averle restituito ciò che aveva perduto ma inutile dirvi che quella chiamata non era mai arrivata nonostante io ci avessi sperato.

    Non mi ero più occupato di arte da allora ma ogni tanto ne avevo sentito parlare da qualche collega con lo stesso entusiasmo che aveva colpito me la prima volta che avevo visto i suoi lavori e così tra un articolo e l’altro le mie giornate passavano e i ricordi di lei sbiadivano fino a quando, però, il destino non me la volle ripresentare davanti. Quel destino che ancora oggi non rinnego ma che mi sono ritrovato a maledire più volte.

    Ero stato chiamato dal giornale per presenziare a una delle più grandi dimostrazioni internazionali sulle nuove tecnologie ospedaliere, ne ero entusiasta anche perché avrei avuto l’onore di intervistare tre tra i più grandi ricercatori sanitari mondiali. Ero lusingato che avessero scelto proprio me, elettrizzato dal ruolo che mi era stato assegnato e fortemente motivato dagli argomenti che saremmo andati a trattare.

    Dormii poco quella notte preso com’ero dalla preparazione delle interviste e la mattina, di buon’ora, mi recai in aeroporto smanioso di decollare su quell’aereo che mi avrebbe portato a Londra.

    Vagavo tra i corridoi affollati di gente. Tutti come me con a carico il proprio bagaglio, tutti come me esagitati dalla voglia di partire ma allo stesso tempo annoiati dalle lunghe ore di attesa che intercorrono dall’arrivo in aeroporto all’effettivo momento del decollo.

    Prima di fare il check-in decisi di fermarmi a sorseggiare un caffè al più grande dei quattro bar presenti nella sala d’attesa e, con mia enorme sorpresa, un’hostess che passava di lì mi riconobbe.

    Ma lei è il signor Colai? mi aveva chiesto.

    Si le avevo risposto imbarazzato e allo stesso tempo infastidito dalla sua lieve invadenza. Ero al telefono e fui costretto a mettere in attesa il mio interlocutore.

    Leggo sempre il giornale per cui scrive e adoro i suoi articoli!

    Con un cenno della testa le avevo sorriso lusingato dal complimento appena ricevuto poi, voltandomi dall’altra parte, avevo ripreso la mia conversazione snobbandola senza pensarci troppo.

    Salii sull’aereo dirigendomi spedito in prima classe, odiavo viaggiare fianco a fianco di grassoni sudaticci o di donne profumate di lacca piuttosto che di colonia; per questo sceglievo sempre la prima classe, sedili larghi e confortevoli sufficientemente staccati tra loro e, di conseguenza, nessun contatto forzato con l’altro passeggero, il mio spazio era fondamentale.

    Presi posto accanto all’oblò, mi piaceva guardare la terra dall’alto e, mentre sistemavo il mio tavolino, due gambe mozzafiato catturarono la mia attenzione. Presi a salire con lo sguardo sino a percorrere la vita sottile fasciata da un procace tubino nero, i seni prosperosi e tondeggianti, al collo una lucidissima collana di perle bianca…Clara.

    Credo di essere rimasto paralizzato e incredulo per qualche secondo, era la passeggera del sedile 2c, esattamente quello accanto al mio. Ma come diavolo era potuto accadere?

    In men che non si dica decisi di ignorarla e far finta di niente d’altronde io la conoscevo ma lei non mi aveva mai visto, almeno lo

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1