Edera
Di Dony T.
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Anteprima del libro
Edera - Dony T.
risalire.
1
È un magnifico pomeriggio e mi sto crogiolando sotto i primi
raggi di sole primaverili che si fanno spazio tra le lunghe intermi-
nabili fredde giornate.
Finalmente i manti stradali non sono più gelati, i cappotti sono
definitivamente chiusi negli armadi e gli alberi riacquistano i loro
colori brillanti. Ma più di ogni altra cosa il mio corpo si sta riscal-
dando.
Non sono un vampiro, ma abitare in un paese in cui i rigidi mesi
invernali superano di gran lunga quelli estivi mi rende qualcosa di
simile.
In poche parole, l’inverno non è la mia stagione preferita.
Certo, ammirare le chiome delle piante che imbruniscono e la neve
candida che ricopre ogni superficie è uno spettacolo affascinante,
fintanto che non si protrae per lunghissimi mesi e non ti costi una
dolorosa caduta sul fondoschiena ogni qualvolta che sei costretta
ad uscire di casa.
Ora però è tutto diverso. I colori sono più vivaci, i profumi dei
fiori e dell’erba appena tagliata si propaga per l’aria e il bel tempo
mi dona nuove energie facendo decollare il mio buonumore.
Con questa rinnovata felicità me ne sto seduta sulla panchina
del parco poco distante da dove abito con un libro chiuso appog-
giato sulle gambe che ho appena finito di leggere. Il modo miglio-
re per trascorrere una tranquilla e rilassata domenica pomeriggio e
anche il mio abbigliamento ne è la dimostrazione. Una felpa nera
con cappuccio, jeans aderenti dentro i quali è possibile ammirare il
mio fondoschiena morbido e un paio di scarpe di tela nera.
Prendo un lungo respiro per riempire i polmoni di aria fresca e
pulita, felice della mia scelta.
«Magnifica giornata» dico a me stessa mentre apro i miei occhi
marroni e il vento soffia trai i miei lunghi capelli castani facendoli
vorticare tutt’intorno a me.
Ammiro il sole che si sta nascondendo dietro le cime delle mon-
tagne, indice che ho indugiato troppo ed è tempo di tornare a casa.
Per quanto sia piacevole restare, arriva sempre il momento di tor-
nare alla realtà.
Mi alzo in tutta la mia misera statura di un metro e cinquanta-
sette centimetri ed esco dal prato percorrendo una stradina ghiaio-
sa.
La strada del ritorno è costeggia da una serie di ville singole
circondate da giardini e siepi, dalle cui abitazioni non proviene al-
cun rumore, come del resto in tutta Valessa. Pur essendo tardo
pomeriggio, si odono solo i primi canti degli uccellini e il rombo
di qualche sporadica macchina che passa nelle vicinanze. Potrebbe
benissimo apparire un paese fantasma per uno che passa casual-
mente da queste parti.
Mentre percorro per la milionesima volta la via del ritorno, non
mi stanco mai di ammirare, non poco invidiosa, la bellezza delle
costruzioni e le foglie di edera che vi si arrampicano come se vo-
lessero prenderne il possesso.
Dal modo sproporzionato in cui talvolta crescono, posso solo
dedurre che i loro occupanti ne apprezzano il loro fascino o abbia-
no perso la battaglia contro di esse anni prima.
Mi fa sorridere l’idea di quello che abbiamo in comune io e
quelle piccole foglioline sempreverdi venate di bianco.
Primo fra tutti il nome: Edera.
Mi chiamo proprio così. Pochissime mamme avrebbero avuto il
coraggio di affibbiarlo alla propria figlia e la mia rientra tra que-
ste: incurante della sua particolarità, aveva combattuto per questo
nome sin dal primo mese di gravidanza.
Scelta azzeccata, perché proprio come loro sono una ragazza
che non si arrende alle prime difficoltà e abbastanza caparbia da
perseguire obbiettivi impossibili.
Insomma, nessuna meglio di me sa cosa vuol dire essere estre-
mamente testarde.
..........................................
Ecco dove mi porta il mio lavoro questa volta, in un piccolo pa-
esino sperduto tra le montagne con un nome assurdo: Valessa.
Per arrivarci ho impiegato circa quattro ore di macchina, duran-
te le quali ho lasciato vagare la fantasia con la speranza che il luo-
go in cui il grande capo mi ha spedito possa avere almeno un qual-
che divertimento per un ragazzo ventiquattrenne della mia età.
Il mio battesimo è andato malissimo. Ho sbagliato uscita e mi
sono ritrovato a due paesi di distanza dalla mia meta. Colpa mia.
Non ho l’abitudine di verificare il percorso che devo affrontare,
così, come al solito, mi sono accontentato delle semplici indica-
zioni da parte dei miei capi, ma evidentemente per raggiungere
questa misteriosa Valessa non bastano.
Rassegnato, accendo il mio navigatore satellitare per poter ri-
trovare la strada giusta e qui il secondo errore. Il percorso segnala-
to è impossibile da seguire perché nella via indicata c’è un senso
unico e capisco immediatamente una cosa: qui la tecnologia non
ha speranza.
Spengo il navigatore e tra imprecazioni e maledizioni lo stacco
bruscamente dal vetro buttandolo sul sedile posteriore. Frustrato
apro il cruscotto e prendo la cartina che ho stampato da Internet.
Per mia fortuna sono stato abbastanza intelligente da voler cercare
una mappa di Valessa nel caso in cui mi fossi trovato in questa si-
tuazione. Qui i vecchi metodi sono gli unici che funzionano.
Il lato positivo dei piccoli paesi è che tutte le vie ti conducono
alla tua meta. Cerco l’indirizzo che ho memorizzato sulla cartina e
poi il punto esatto in cui mi trovo. Magnifico, a separarmi dalla
mia futura casa ci sono sole un paio di vie.
Mentre guido approfitto per guardarmi intorno e prendere degli
appunti mentali su Valessa, sugli abitanti e soprattutto per verifica-
re quanto siano retrogradi.
La prima cosa che noto è che per essere una domenica pomerig-
gio, in giro non c’è anima viva, tutto è fin troppo tranquillo per
me. Dove sono le splendide ragazza con indosso abiti succinti?
Dov’è il dolce andirivieni delle auto, il chiasso dei passanti e il
suono dei clacson? Se tutti i fine settimana sono così, impazzirò
nel giro di quindici giorni.
Abbasso il finestrino, pregando di sentire almeno qualche voce
di sottofondo dato che all’orizzonte non si vede nessuno. Tendo
l’orecchio, ma l’unico suono che percepisco è l’abbaiare di un ca-
ne in lontananza. Quando si dice vivere in un paese abbandonato.
Se non fosse per la presenza di auto appostate nei cortili o nei par-
cheggi avrei sicuramente creduto che gli abitanti abbiano abban-
donato Valessa in massa.
Giro nell’ultima viuzza e finalmente raggiungo l’indirizzo da-
tomi dal mio capo e sono sorpreso nel vedere l’abitazione in cui
risiederò per le prossime settimane. Si tratta di una grande villa a
due piani circondata da un immenso giardino. Con lo sguardo fis-
so, apro il cancello con il telecomando consegnatomi insieme alle
chiavi di casa qualche settimana prima dalla proprietaria, la signo-
ra Viola.
Una volta entrato resto in macchina per studiare la mia tempo-
ranea abitazione e darne una valutazione. Cerco dei possibili difet-
ti, in modo da avere altri motivi per cui lamentarmi, ma devo am-
mettere che è perfetta.
Senza scendere dall’auto prendo il cellulare per effettuare la mia
prima doverosa chiamata. Mirva, la colpevole del mio viaggio,
nonché mio angelo custode.
«Sono appena arrivato.»
«Spero che il viaggio sia andato bene.»
«Benissimo.» inutile dirle di aver sbagliato strada e che mi sono
dovuto affidare a delle cartine per arrivare fin qui.
«Com’è il posto? Non è troppo spartano per te vero?».
Non so se Mirva è davvero interessata a dove sono finito questa
volta, oppure lo sa esattamente e vuole prendermi in giro, fatto sta
che lascio correre. Non ho alcuna intenzione di arrabbiarmi quan-
do la disperazione ha il podio.
«Mi adatterò come sempre.» d’altronde non ci sono alternative.
«Chiama anche Viola, dovresti avere il suo numero di cellulare,
forse può darti qualche informazione utile sul posto. Adesso ti de-
vo lasciare, fatti sentire ogni tanto.» riattacca prima che possa ri-
sponderle per le rime.
Sta scherzando? E che informazioni utili posso ricavarne da un
paese come questo? Forse gli abitanti potrebbero dirmi dove trova-
re una mucca per avere latte fresco e insegnarmi a mungerla, ma
non altro.
Irritato compongo l’altro numero.
«Pronto?»
«Viola sono Giulio, voglio solo informarla che sono appena ar-
rivato alla villa ed è perfetta.» almeno questo è vero.
«Sapevo che le sarebbe piaciuta. Qualunque cosa di cui avesse
bisogno può chiamarmi.»
Dopo i soliti convenevoli e ringraziamenti la chiamata è termi-
nata.
Chiudo gli occhi e li riapro sperando di poter rivedere questo
buco di paese in cui sono finito sotto un’altra prospettiva. Non
succede nulla, tutto è come prima. Un paese circondato da troppo
verde, con troppo silenzio e troppo tranquillo per i miei gusti.
Scendo dalla macchina e percorrendo il vialetto d’entrata mi di-
rigo verso quella che diventerà la mia nuova abitazione per i pros-
simi mesi.
Giro la chiave nella toppa e dopo aver messo un piede nella vil-
la tiro un sospiro di sollievo. «Casa dolce casa.»
.................................
La mia casa si trova in centro a Valessa, in una piccola palazzi-
na di soli quattro appartamenti a pochi metri da tutti i servizi prin-
cipali. Una vera fortuna.
Entro dal cancello di ferro e, dopo aver attraversato il cortile in
comune, apro il portone e salgo le scale per raggiungere il primo
piano dove abito. Con infinito piacere metto piede nel mio paradi-
so privato.
Non è nulla di speciale. Una cucina nascosta da un muro, sog-
giorno e un corridoio che conduce al bagno, camera da letto, stu-
diolo e un balcone. È tutto quello che ho sempre desiderato soprat-
tutto, in considerazione del fatto che vivo da sola e che è unica-
mente mia.
I miei genitori si sono trasferiti quando mio padre è andato in
pensione, ma io essendo troppo legata al paese in cui sono nata e
cresciuta, ho deciso di compiere un passo per il quale in altre cir-
costanze molto probabilmente avrei aspettato: ho comprato casa.
Certo, non è sempre facile arrivare a fine mese con un solo sti-
pendio, un mutuo da pagare, le bollette e la spesa. Alcune volte
stringo un po’ la cinghia, ma i sacrifici ne valgono la pena. Non
c’è nulla di più gratificante di possedere qualcosa di proprio.
Mi dirigo in cucina e in pochi minuti mi preparo la cena.
Altro vantaggio di vivere sola è poter mangiare ciò che vuoi
quando vuoi. Certo, a volte mi piacerebbe poter cenare in compa-
gnia, avere qualcuno con cui chiacchierare e raccontare come è
andata la mia giornata (o su cui poter contare in caso di bisogno),
ma nella vita non si può pretendere tutto.
Soddisfatta, mi accoccolo sul divano con la cena sulle gambe e
il telecomando in mano, pronta per tuffarmi in una maratona di
film. Se non si può avere tutto, è meglio godersi al massimo quel
poco che si possiede.
2
Il negozio di cartoleria in cui lavoro deve assolutamente avere
le serrande alzate e la commessa pronta ad accogliere i primi
clienti per le otto in punto, senza ma né però.
La tradizione ha avuto inizio circa cinquanta anni fa, quando il
signor Merelli ebbe la fantastica idea di aprire la prima cartoleria
del paese e da allora gli orari di apertura non sono mai mutati.
Come soleva dire lui "aperto dalle otto di mattina fino a mezzo-
giorno e poi, Dio volendo, dalle due del pomeriggio alle sei di se-
ra. Non un minuto prima, non un minuto dopo." La puntualità è da
sempre la caratteristica che contraddistingue il negozio.
Purtroppo, a causa dell’età troppo avanzata, alcuni anni prima
era stato costretto ad andare in pensione e il negozio era passato in
mano alla nipote, Viola. Lei, nonostante avesse già un’ottima atti-
vità avviata di vendita d’oggetti d’antiquariato, non aveva avuto il
coraggio di far chiudere per sempre un pezzo di storia di Valessa
così aveva trovato un modo pratico per gestire entrambe. Assume-
re una commessa, ossia me. Ed eccomi qui a lavorare nella carto-
leria I ricordi
.
Per quanto possa sembrare noioso, è un lavoro piacevole. Certo,
se avessi l’ambizione di diventare ricca sfondata non è la scelta da
fare, ma già da tempo ormai ho capito che i soldi non possono ap-
pagarci completamente.
Intenta a riordinare gli scaffali con la meticolosità imposta dal
mio capo, mi accorgo della presenza di un cliente solo quando mi
saluta. «Ciao Edera »
Mi giro e all’entrata, con un grosso sorriso stampato sulla fac-
cia, fa capolino il mio amato amico. Tom.
È un bellissimo ragazzo che supera il metro e ottanta, un fisico
scolpito grazie ai molti sport che ha praticato per anni, degli ad-
dominali da capogiro (i quali purtroppo in questo momento sono
coperti da una maglia a maniche lunghe), gli occhi di un profondo
nero intenso dentro i quali potersi affogare e i capelli i più setosi
che abbia mai toccato.
A completare la magnifica opera c’è un fondoschiena da far in-
vidia ai bronzi di Riace, fasciato da un paio di jeans aderenti che lo
mettono in risalto ancora di più per il piacere di tutte le donne.
A volte, essere la migliore amica di un bel pezzo di ragazzo
come lui è una sfortuna.
« Ciao a te.» e automaticamente ricambio il sorriso mollando
tutto quello che sto facendo per andare da lui. «Che bella sorpresa.
A cosa debbo la tua presenza?»
«Ho pensato di portarti uno spuntino per la merenda, così fai
una pausa.» si avvicina al bancone e posa un misterioso sacchetto
di carta.
«Grazie.» la mia voce è incerta, non sapendo quali tentazioni si
celano al suo interno.
«Spero non ti dispiaccia.» come al solito ha colto la mia incer-
tezza. «Non ti preoccupare è solo una mela. Ho pensato che la
frutta vada bene dato che sei perennemente a dieta. O anche questa
è entrata nella lista dei cibi proibiti?»
«L’ accetto con molto piacere» la tiro fuori dal sacchetto e sen-
za esitazione addento con un morso la sua superficie liscia e luci-
da. Con il boccone ancora in bocca ribatto alla sua battuta. Non sia
mai che lui debba avere l’ultima parola. «Non sono a dieta e tan-
tomeno censuro i cibi. È solo che voglio stare attenta a non riac-
quistare i chili che ho perso. Ho impiegato un bel po’ per elimina-
re la zavorra e non ho alcuna intenzione di riprenderla. Questo non
vuol dire che ogni tanto non cada in tentazione.».
«Lo so» conferma con falsa voce scocciata. «Come potrei di-
menticarmene, me lo ricordi tutte le dannate volte che ti sprono ad
ingurgitare qualcosa di troppo calorico come la fantastica torta di
cioccolato che prepara mia madre.».
Tutto d’un tratto diventa serio e il suo sguardo si concentra su di
me indeciso se dire ciò che ha in mente o lasciar perdere.
«Cosa c’è? Qualcosa non va?».
«Stavo pensando che anche con qualche chilo in più stavi bene.
Certo, adesso hai un fisico quasi da urlo. No, non controbattere.»
interviene prima che possa aprir bocca. «Sai che non ti mentirei
mai, ancor meno per compiacerti. So che odi l’ipocrisia e
l’accondiscendenza, ti conosco da troppo per poter commettere un
errore del genere.»
«Va bene. Il tuo discorso era quasi perfetto come il mio fisico.»
è impossibile trattenersi dal sorridere, soprattutto se si è certi che
chi ha commentato non è in grado di mentirti.
Ho impiegato ben due anni per cambiare fisicamente e ottenere
una linea più sottile. Mi sono costati letteralmente fatica e sudore e
ora il mio migliore amico mi viene a dire che ero affascinante an-
che prima con qualche chilo in più?
Per la miseria perché si è svegliato solo adesso? Avrei rispar-
miato tempo ed energie e molte altre paranoie. O forse, sono pro-
prio per quest’ultime che se n’è stato sempre zitto. Quante volte
mi aveva dovuto ascoltare mentre mi lamentavo perché un vestito
non mi entrava? Quante volte mi ha dovuto consolare mentre fis-
savo depressa un fisico perfetto che mi passava davanti gli occhi?
Ed ecco spiegato perché non aveva proferito parola. Capiva che
stavo facendo qualcosa che poi mi avrebbe fatto sentire meglio
con me stessa.
Continuo a risistemare gli articoli nei vari scaffali e per rag-
giungere gli ultimi posizionati più in alto sono costretta a prendere
uno sgabello. Niente da fare. Arrivare all’ultimo ripiano per siste-
mare il peluches che ho in mano è una missione impossibile.
Per qualche motivo ignoto, Viola non si decide di comprare una
scala nonostante gli scaffali arrivino fino al soffitto. Forse per lei
non è un problema raggiungere l’ultimo scaffale con la sua altezza
statuaria, ma per una come me è impossibile.
Non rientrando nelle mie intenzioni slogarmi una spalla, per una
frazione di secondo mi balena un’idea fattibile: arrampicarmi.
Mossa dal dubbio mi volto per vedere dove è Tom.
Per tutto il tempo è rimasto a guardare i miei svariati falliti ten-
tativi con le braccia incrociate sul petto, uno sguardo divertito e
con le labbra incurvate leggermente all’insù. Che maligno, è pro-
prio un sorriso quello che sta trattenendo.
Solo quando lo fulmino con lo sguardo si decide di farsi avanti.
«A che servono gli amici se non li usi? Lascia fare a me.» avvici-
nandosi a me e allungando un braccio per prendere il cagnolino di
pezza. Solo quando cedo al suo aiuto sale sullo sgabello ritrovan-
doci attaccati per non cadere.
«Grazie ci avrei impiegato un’eternità.»
«No. Ti saresti arrampicata e peggio ancora saresti caduta per
terra sul tuo delicato fondoschiena perché lo scaffale non è molto
solido e stabile.» questa volta non trattiene la risata. «Non fare
quella faccia offesa» si affretta a giustificarsi notando comparire
un broncio sul mio viso come se fossi stata rimproverata senza al-
cun motivo. «L’ho capito appena hai fissato i scaffali. Ti conosco
troppo bene e so ciò che ti passa per la testa.».
Dopo la sua affermazione non posso far altro che fare gli occhi
dolci e alzarmi sulle punte dei piedi per stampargli un bacio sulla
guancia liscia perfettamente rasata. Dopo aver preso la sua razione
di ringraziamenti Tom scende con un salto, si gira verso di me e
posizionando entrambe le mani sui miei fianchi mi solleva posan-
domi a terra come se non pesassi niente.
«La tua gentilezza è sempre gradita» dico una volta atterrata e
liberata dalla stretta di Tom. «Sei venuto solo a portarmi la mela e
aiutarmi a mettere il peluche al suo posto o c’è un altro motivo?»
«Per la verità sono venuto qui per aspettarti e accompagnarti a
casa.»
«Buona idea. Stasera ho voglia di un accompagnatore.»
«Sono a tua completa disposizione» facendo seguire le parole
con un inchino del capo d’altri tempi con la mano destra aperta sul
cuore.
«Meglio che finisca, così possiamo andare.»
Dopo aver sistemato la vetrina nella quale ho messo penne sti-
lografiche e carta da lettere, il tutto posizionato con estrema atten-
zione alle sei, in punto serro il negozio avviandomi per strada af-
fiancata da Tom.
Come al solito, prendiamo la strada più lunga, così da poter
chiacchierare un po’.
Alcune volte camminiamo per svariati minuti senza parlare,
come se la sola reciproca compagnia sia sufficiente. Con alcuni
non hai bisogno di aprir bocca per comunicare, basta uno sguardo
o un comportamento per farti capire cosa passa nella testa
dell’altro.
«Ehi, non ti ho più chiesto come va all’università. Fammi indo-
vinare sei il primo del tuo corso.»
Tom frequenta l’università di ingegneria navale, cosa che ha
stupito un po’ tutti, me per prima, considerando che può essere as-
sunto nell’azienda del padre.
Meglio ancora, la sua bellezza gli avrebbe permesso di diventa-
re attore o modello, scelte che per il dispiacere di molteplici ragaz-
ze ha sempre disdegnato affermando che "preferisco far strada nel
mondo grazie alla mia intelligenza e non attraverso qualcosa di ef-
fimero e passeggero". È proprio vero, chi può permettersi di fare
determinate scelte non le fa e chi le brama non ne ha.
«Va bene. Per il momento non ho esami in vista e la mia media
non ha subito variazioni.» mi informa con voce indifferente, come
se frequentare un’università del genere fosse cosa a portata di tutti.
«E il progetto che avevi in mente sta dando buoni frutti?».
«Ci puoi scommettere. Sono o no il ragazzo più geniale che tu
conosca?» adesso un luccichio appare nei suoi occhi.
Mi guarda pieno di soddisfazione e rimane lì ad aspettare la mia
approvazione con la felicità che spruzza da ogni molecola del suo
corpo. Sarà pure cresciuto, ma attende sempre un complimento da
parte mia come quando aveva dieci anni.
«Sono molto felice per te Tom.» esclamo con un grosso sorriso
e non c’è niente di più vero.
Se qualcuno si merita delle grandi soddisfazioni per ciò che fa
di certo è lui. Si è sempre impegnato per sfruttare al meglio le sue
capacità e non si è mai tirato indietro quando qualcuno aveva bi-
sogno di aiuto.
Mi fermo e lo stringo a me facendo passare le mie braccia in-
torno al busto, chiudendolo in uno stretto abbraccio, inspiro il suo
dolce profumo e appoggio la mia guancia destra sul suo petto. Al-
zo gli occhi fissandoli nei suoi. «Sapevo che ce l’avresti fatta.» e
resta ancora lì per un attimo a godere del calore del suo corpo.
.................................
Arrivata a casa mi accorgo che è ancora presto per mangiare e
gli ultimi raggi di sole mi invitano a fare una passeggiata prima di
cena, così vado nello studio, prendo la borsa di tela colma di libri
già letti e mi reco in biblioteca per un altro rifornimento.
La biblioteca si trova a circa trecento metri da casa ed è nuova
di zecca. Quella precedente era situata al centro del paese, molto
più comoda da raggiungere, ma troppo piccola per contenere mi-
gliaia di libri e ancor più impossibilitata a raccoglierne dei nuovi.
Uno sgabuzzino a confronto di quella odierna con sala relax, sala
riunioni, uffici e le enormi finestre tutt’intorno ad illuminarla. Non
c’è paragone.
Appena entro mi dirigo verso il fondo dove, in teoria, dovrebbe
esserci i libri dell’autore che sto leggendo. Ma, come ho detto, so-
lo in teoria, perché in pratica hanno spostato tutto per l’ennesima
volta e tentare di trovarli sarebbe uno spreco di tempo.
Torno sui miei passi e mi dirigo al bancone informazioni dove
Dalica, una donna molto più alta di me con lunghi capelli biondi,
occhi verdi e un perenne sorriso sulle labbra, sta catalogando i
nuovi arrivi.
«Ciao Dalica» esordisco sbuffando per far trapelare il mio di-
sappunto.
«Ciao Edera» mi studia un attimo. «Dalla tua faccia ne deduco
che hai notato la nuova disposizione dei libri. Abbiamo cercato di
sistemarli in modo migliore.», e mentre parla fa capolino un sorri-
so divertito .
«Allora non è nel vostro intento farci impazzire. Volete farci
giocare alla caccia al tesoro?»
«Non sarebbe una cattiva idea. Comunque, cosa ti serve?»
«Il seguito di questo libro, per favore.» porgendole l’ultimo let-
to dell’autrice Laurell Hamilton.
Con passo spedito, e senza necessità di consultare il programma
del computer, punta verso l’obbiettivo e mi consegna l’ambito li-
bro. Ringrazio e continuo a girovagare fra i vari scaffali con
l’intento di memorizzarne la nuova disposizione, per quanto dura-
tura possa essere.
La mia passione dei libri è nata quando ero ancora piccola e già
allora ero in grado di leggere un libro a tempo di record e più leg-
gevo più mi chiedevo che cosa potesse esserci scritto negli altri li-
bri. Quante incantevoli e fantasiose storie venivano raccontate,
quanti libri esistevano e soprattutto quanti di quelli esistenti sarei
riuscita a leggerne. Insomma sono ciò che in molti definirebbero
un topo di biblioteca.
Per il ritorno, a causa dell’ora tarda e del mio stomaco che re-
clama cibo, prendo la strada più breve e mi incammino verso una
viuzza secondaria che costeggia la casa non più abitata, se non in
sporadiche occasioni, della mia datrice di lavoro. Chiamarla casa è
riduttivo in considerazioni della sua bellezza e grandezza.
Costruita nei primi