Nella pelle di un altro
Di Aldo Luppi
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Anteprima del libro
Nella pelle di un altro - Aldo Luppi
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Intro
Nella pelle di un altro è la complessa avventura esistenziale dell’ingegner Arturo Marani, dirigente di uno zuccherificio ferrarese, insoddisfatto del proprio lavoro e in crisi con la famiglia. Ma in verità è la storia di un uomo in fuga da se stesso per il bisogno di cambiar vita, perché stanco della sua di vita. Di Aldo Luppi questa casa editrice ha pubblicato anche Il buio dopo la notte (racconti, 2020) e La Centuria. Frammenti e Stravaganze (2020).
NELLA PELLE DI UN ALTRO
I.
Il fiume. Quando ho qualche problema di difficile soluzione, vengo qui. Sotto il ponte scorre l’acqua verso il mare, mentre dietro di me, altrettanto veloci, transitano le auto nelle due opposte direzioni. Ho anche un po’ freddo e tiro su il bavero del soprabito, ma non mi sposto: devo riflettere e questo è il luogo più indicato, perché il Po lo sento amico.
«Ingegnere, c’è una chiamata per lei dalla Direzione Generale di Genova».
«Me la passi… Pronto? Sì, buona sera, presidente. Mi dica».
Un’interminabile chiacchierata in cui ho dovuto sorbirmi disposizioni che già conoscevo; poiché il Capo voleva accertarsi ch’io fossi veramente disposto ad attuarle come m’erano state comunicate. E intanto pensavo al Po, quando va giù il sole. Però, assentivo, ribadivo, accarezzavo la sua fiducia nella maniera più subdola.
Da quanto tempo me ne sto sul ponte? Sono fuggito dallo stabilimento perché mi sentivo soffocare e adesso dopo mezz’ora? un’ora? ritrovavo la calma per rifiatare. I nervi m’hanno giocato un brutto tiro. Osservo una barca ancorata all’altra sponda, quasi di fronte al circolo dei Canottieri; mentre l’acqua riflette le luci della sera per difendersi dal buio avanzante. Ho voglia di gettare sassi nel fiume, che procede inarrestabile la sua corsa trascinando con sé chissà quanti altri pensieri di gente in attesa di risposte. L’acqua mi ridà distensione, come sempre; e le domande si fanno meno pressanti. Ho raggiunto un primo risultato: l’irrequietezza di questi ultimi giorni, che in ufficio mi prendeva alla gola, sento che piano piano ridiventa governabile.
«Signorina ho pregato la segretaria al citofono, se telefona mia moglie, dica per favore che stasera rincaserò più tardi, Perciò, non m’aspettino per cenare. Grazie».
E nel frattempo continuavo a pensare al Po come valvola di sfogo. Il fascicolo che tenevo davanti, pieno di documenti e di cifre, non aveva più alcuna importanza. Domani, mi dicevo, se sarà il caso. Per cui, a un certo punto, mi sono alzato di scatto dalla scrivania, ho infilato il soprabito e, raggiunta la stanza della mia segretaria, ho detto: «Qualora chiamasse o mi cercasse qualcuno, signorina, prenda appunti. Io vado. Buona sera».
Eppure il chiodo fisso in testa l’ho ancora. Non sono stanco di lei; sono stanco di me, del mio lavoro, della mia vita. Giorni uguali, messi in fila l’uno dopo l’altro in un crescendo di noia che non so più controllare. Silvana non ha colpe; e l’invidio perché non smette di credere in ciò che sostenevamo entrambi quando ci siamo sposati. Invece il presente tradotto in un futuro di coppia definitiva, inattaccabile, per quanto mi riguarda, sta sgonfiandosi tristemente. No, non c’entrano altre donne, tanto meno una soltanto. C’entra lo zuccherificio, con le bietole che m’hanno consumato il cervello, rendendo il suo prodotto amarissimo; c’entra il reparto di cardiologia di mia moglie che a tavola, la sera, dovrei accettare volentieri come argomento di conversazione; c’entra nostra figlia Patrizia, che non riesco più a capire e a seguire nel suo farsi donna; c’entra… Non so cosa c’entri. Il fatto è che non funziono né come marito, né come padre, né come uomo.
Anche stamattina