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Un'altra vita
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E-book166 pagine2 ore

Un'altra vita

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Info su questo ebook

La vita spesso compie giri tortuosi prima di portarci dove era destino arrivassimo. E a volte questo destino arriva da molto lontano, nello spazio e nel tempo...
LinguaItaliano
Data di uscita12 gen 2021
ISBN9791220314787
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    Anteprima del libro

    Un'altra vita - Alberto Olivieri

    info@youcanprint.it

    Io non sono un uomo coraggioso. O perlomeno non nella accezione che di solito si dà di questo termine. Sono solo uno abbastanza deciso. Io non sono un uomo che ha particolari pregi o difetti, ma non sono un uomo medio e tantomeno mediocre. Sono quello che chiamano, per molti versi, un uomo comune. Però so mantenere una promessa e rispettare impegni, so dedicarmi e prendermi cura. Anche lei era così. E quindi la nostra storia non poteva essere che una storia comune, se così possiamo dire. O almeno in apparenza. Questa storia la racconterò mettendoci tutto il bagaglio personale di vissuto, perché sia veramente chiaro cosa accadde e cosa provammo. Alla fine mi viene da dire che forse così comuni non lo eravamo, noi come tutte le altre persone, perché ogni storia è un caso a sé, e perché sono praticamente infinite le combinazioni, le fatalità che la vita si è divertita a proporci quotidianamente e che avrebbero potuto farci prendere strade completamente diverse, e che non si sarebbero incrociate mai... e per molto tempo è stato così...

    Ero abbastanza stanco, ma non nel fisico, ero stanco psicologicamente, della vita che facevo, del mio lavoro, della mia vita sentimentale. Nulla che non sia comune probabilmente ad almeno un paio di miliardi di persone. E con questa stanchezza mi trascinavo, apparentemente con una buona energia, nei giorni, nei mesi e negli anni della mia vita. In realtà avrei voluto cambiare, ma non sapevo come, e soprattutto, mi terrorizzava il fatto che rompere, tagliare i ponti potesse far soffrire qualcuno. No, non sono un figlio del mahatma o simili santoni professanti la non-violenza, sono solo uno che aveva patito e conosceva l’amaro sapore del dolore, il significato della parola soffrire. E come si sa, solo chi non ha sofferto può fregarsene del dolore altrui.

    Non sapevo come uscire da questo vicolo cieco, da questo percorso obbligato che sembrava, in qualche modo, scritto da altri, stabilito da chi aveva delle aspettative nei miei confronti, da chi si aspettava che io facessi certe cose o mi comportassi in un determinato modo, e quindi spingevo avanti fiaccamente la mia vita, sentendo il peso di una pelle che avrei voluto cambiare, quasi fosse troppo stretta o ormai consunta e avvizzita. Avrei voluto cambiarla ma non sapevo come staccarmene, come romperla e lasciarmela dietro le spalle. Anni tutti uguali portando avanti relazioni ormai giunte al capolinea e alle quali per vigliaccheria e un mai ammesso comodo materiale, non riuscivo a mettere fine. Incastrato tra senso del dovere e paura della solitudine. Ma questa è la comune vigliaccheria che fa vivere vite spente e senza un vero significato a un sacco di persone, spesso le più insospettabili e apparentemente felici. Sì, perché parte di queste vite è anche una commedia che viene quotidianamente recitata a chi vuol far credere che è tutto a posto, che va tutto bene, perché si ha tremendamente paura della derisione, del compatimento. E a dire la verità, la maggioranza sembra insensatamente godere dei rovesci che la vita propina ai conoscenti, al vicino di pianerottolo o di porta che per qualche oscuro motivo o per piccolissimi sgarbi, verità sbattute in faccia, o beghe senza un vero motivo, segretamente ci stanno un po’ sulle scatole. Addirittura, paradossalmente, la gente ride delle disgrazie anche di quelli che considera i propri amici o parenti.

    Lavoravo in un’azienda di medie dimensioni, in provincia, con all’interno un centinaio di vite più o meno realizzate, che in cambio del loro tempo e di qualche sforzo mentale, oltre che di lavoro manuale, permetteva loro di continuare a far finta di avere un po’ di felicità e sbarcare il lunario. Niente di straordinario, una azienda che comprata vecchia e cadente era stata riconvertita e resa funzionante da un imprenditore che aveva avuto la vista lunga e era stato disposto a rischiare. Uno di quelli bravissimi a fare soldi, a cavare il sangue dalle rape, a vendere i ghiaccioli agli esquimesi, come mi diverto a dire. Con una considerazione del prossimo e una morale inversamente proporzionale alla sua capacità di guadagnare.

    Una mattina, una solita mattina di un solito giorno semitravolto da telefonate e mail, gente che entrava in ufficio e richieste di alcuni clienti, il mio collega Aldo, mi disse, incontrandomi alla macchina del caffè e dopo avermi salutato come ogni mattina, che c’era una grossa novità. Ma non specificò quale.

    Tornai alla scrivania, e trovai un messaggio del direttore che mi voleva vedere per avere notizie in merito a un intervento che era in corso in Canada. Andai subito, per togliermi quella seccatura dalla testa e potermi dedicare completamente alla organizzazione di varie altre cose, con i miei collaboratori più stretti. Entrai nell’ufficio e dopo avermi spiegato quale fosse la situazione canadese, Enzo, il direttore, mi disse di aspettare un attimo. Fece una telefonata e poi comunicò la novità importante che avrebbe cambiato il mio destino. Mi chiese se fossi disposto a trasferirmi per conto della ditta. Ma non si parlava di andare a qualche decina o centinaia di chilometri. Si trattava di andare in un altro continente: in America.

    Rimasi davvero impietrito, mai mi sarei aspettato una simile richiesta. Lui la giustificò con il fatto che ormai metà delle vendite venivano fatte negli Stati Uniti, e c’era bisogno che qualcuno andasse là a seguire direttamente tutti gli interventi, sia di prima installazione che di assistenza post-vendita in tutto quel continente. Io pensieroso lo ascoltavo, cercando di realizzare fino in fondo quale cambio avrebbe portato nella mia vita se avessi accettato. Si trattava di dare una svolta radicale, senza rimorsi o tentennamenti. Ovviamente la ditta si sarebbe accollata tutte le spese del trasferimento, e il mio stipendio, peraltro già buono, sarebbe aumentato di parecchio. Si impegnarono anche a tenermi il posto per sei mesi, e nel caso non mi fossi ambientato, potevo tornare alla base. In quel caso avrebbero cercato uno statunitense per ricoprire quel ruolo, ma sarebbe stata una ricerca lunga e difficile, e che non avrebbe dato frutti con certezza. Enzo mi disse che non dovevo dare immediatamente una risposta, ci potevo pensare una settimana, anche una decina di giorni. Ma poi avrei dovuto dire convintamente cosa avevo deciso. Ringraziai comunque per la fiducia che la proprietà e lui mi dimostravano, e che ne avrei cominciato a parlare la sera stessa con mia moglie.

    Mia moglie Sara, era come dire… interessata ad altro che non fosse la nostra vita insieme… d’altronde non si era sposata convintamente, lo aveva fatto perché io ci tenevo tanto… Sara viveva per il suo lavoro, che era anche la sua passione. Curava mostre di pittura in giro per il mondo, e collaborava con i maggiori musei italiani ed europei. Solo l’arte aveva significato per lei, e come spesso accade a chi si occupa di arte o di letteratura, tende a sostituire la vita reale con questi interessi, vivendo in funzione della loro passione. Quante colleghe di Sara erano zitelle o divorziate! Era quasi la normalità, e facevano alquanto scalpore i matrimoni di lunga durata, e che si potessero veramente chiamare tali, cioè che non fossero diventati solo una convivenza di comodo e quindi matrimonio solo di facciata. Io mi stavo ormai dimenticando com’era in realtà, o forse non l’avevo mai provata, la vita matrimoniale. E ovviamente questo aveva influito molto, e negativamente sul nostro rapporto, dato che lei non era mai riuscita compiutamente a vivere e corrispondere i miei sentimenti. E io avevo sofferto molto di questo fatto.

    Avevo pensato molte volte di troncare questa unione, ma per svariati motivi non lo avevo mai fatto. Anche per quel pizzico di vigliaccheria, più maschile a dire il vero, che rende difficile lasciare il partner con il quale non si va più d’accordo o per il quale non si prova niente di più che un affetto amicale. Non sarebbe stato questo legame a trattenermi qui, e d’altronde lei c’era così poco, che io mi ero chiesto molte volte se ero veramente sposato o se invece me lo era sognato il mio matrimonio.

    I pensieri si affastellavano nella mia testa, cercando già di prevedere ogni difficoltà o problema organizzativo, dato che ovviamente la mia deformazione professionale non poteva che manifestarsi immediatamente in questo senso. Ma poi iniziai anche a pensare al cambio radicale, al fatto di non vedere più le persone che vedevo tutti i giorni, al non dovermi più confrontare abitualmente con tutte le piccolezze già conosciute che caratterizzano gli esseri umani, e che nel luogo di lavoro si ingigantiscono inevitabilmente, dovendone sperimentare altre, più o meno grandi di queste ormai consuete. Ma anche al fatto di non poter più godere dell’amicizia e della complicità con alcuni miei colleghi, e soprattutto dei miei collaboratori più stretti. Gente con la quale avevo costruito dalle fondamenta tutto il reparto che dirigevo e una importante parte dell’azienda, con dedizione, suggerimenti, idee… e tantissime ore di lavoro.

    Decisi di non pensarci più per quel giorno, e di lasciar decantare l’emozione e la sorpresa dentro di me. Domani sarei stato più sereno e calmo, e avrei potuto cominciare a vedere la faccenda da tutti i lati, valutando bene i pro e i contro, e che non riguardavano esclusivamente la mia vita professionale. Passai così una giornata impegnatissima, sforzandomi di non tornare su quel pensiero, che rischiava da subito di diventare ossessivo e che mi avrebbe portato a prendere delle decisioni non ponderate e dettate solo dall’emozione. A dire il vero non mi dovetti sforzare molto, poiché in quei giorni i problemi erano talmente tanti e di ardua soluzione, che difficilmente avrei avuto tempo per pensare ad altro che non fossero le mie occupazioni abituali.

    Solo una cosa in fondo continuavo a chiedermi: come l’avrebbe presa Sara? Cosa avrebbe detto? Avrebbe fatto difficoltà, si sarebbe opposta, oppure avrebbe detto semplicemente: Ah, okay, vai pure, sai anch’io pensavo di trasferirmi a Milano o a Roma per avere meno da viaggiare per il mio lavoro…. Questo sì mi tormentava abbastanza, ma non avrei avuto una risposta immediatamente. Anche perché dovevo riuscire a capire se tutta la faccenda interessasse a me per primo.

    La sera tornai a casa più stanco del solito. Mi sembrava di avere un peso sulle spalle molto pesante da portare, e avevo un leggero nodo in gola. Sara era rientrata quel giorno da una mostra organizzata a New York, dopo essere stata in quell’alveare per una decina di giorni. Entrai e la salutai come al solito, con un piccolo bacio a fior di labbra, come eravamo soliti fare, quasi che in quel gesto fossero contenute tutte le parole che avrebbero costituito un vero e articolato saluto. Lei era visibilmente stanca, ma anche allegra, di quell’allegria che ha chi è tornato nel suo confortevole nido per qualche giorno, per ritemprarsi dalle ore di viaggio, dai disagi che inevitabilmente deve sopportare chi viaggia e vive periodi fuori casa, e ai quali, in fondo, non ci si abitua mai, o almeno non completamente. Lei mi guardò attentamente, poi chiese con quasi un leggero stupore: Cos’hai Carlo? Mi sembri strano.... Come spesso accade le percezioni femminili si spingono un po’ al di là del comprensibile, e lei spesso intuiva i miei stati d’animo. A dire il vero io non facevo nulla per nascondere i miei stati d’animo, e questa abituale incapacità di finzione mi impediva maggiormente di nascondere ciò che provavo anche quando lo avrei fortemente voluto.

    Te ne parlerò nei prossimi giorni, Devo prendere una decisione importante e devo rifletterci sopra, poi chiederò anche cosa ne pensi tu, visto che riguarda anche te.

    Ah. Va bene. Sei riuscito a incuriosirmi, devo dirlo. Io per questa settimana starò a casa. New York mi ha distrutto. È folle quella città, e altrettanto bella, forse anche per questo motivo.

    Mi feci una doccia, rimuginando gli avvenimenti della giornata, e non riuscendo a fissare il pensiero su una sola cosa, decisi di smettere di pensare al lavoro. Mangiammo qualcosa, a Tv spenta e ascoltando musica. Facendoci trasportare sulle note di un pianoforte suonato da un famoso compositore giapponese.

    Come è andata a New York? chiesi dopo aver finito di mangiare.

    Bene, le cose sono andate meglio di quanto sperassi… è venuta un sacco di gente già il primo giorno di apertura, forse perché Sorolla è popolarissimo in quella città.

    Mi fa piacere e sono davvero contento per te, Sara. E non hai visto nessuna faccia conosciuta?

    Sì, a dire la verità è capitato da quelle parti, lui dice per caso, quel mio collega canadese… Samuel… Ricordi? Lo hai conosciuto anche tu, a Roma...

    Sì, me lo ricordo bene, anche se è stato qualche anno fa. Ricordo anche che ti corteggiava nonostante la mia presenza… Quando scoprì che ero tuo marito divenne paonazzo… Ricordi come ne abbiamo riso?

    Sara, sorrise, con un sorriso aperto, ricordando un episodio davvero divertente della nostra vita…

    L’ho rivisto con piacere, sai? È stato davvero molto carino e ha insistito moltissimo per portarmi a cena… ovviamente mi ha invitato dopo essersi assicurato che tu non ci fossi… ahahahaha.

    Risi anch’io. Pensai che Samuel fosse ancora, e nemmeno molto segretamente, innamorato di Sara, e che se io per qualche motivo avessi tolto l’incomodo… mi sorpresi a chiedermi se provassi gelosia, anche solo pensando all’ipotesi che Sara stesse con altro uomo. Ma non mi volli rispondere. A volte la constatazione di determinate verità può ferire, anche se le scopri tu stesso. Darsi delle risposte a delle domande, che non gli altri, ma la tua vita, ti pone, può spostare l’equilibrio nel quale ti muovi, nel quale, bene o male, tutti

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