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Elettra
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E-book206 pagine2 ore

Elettra

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Info su questo ebook

Elettra è una giovane donna bellissima, colta e intelligente. Determinata a diventare giornalista, dopo gli studi e un tirocinio presso una testata di provincia, entra nello staff di una celebre rivista patinata diretta dall’ambiguo Luciano Schiavo. Per adeguarsi ai ritmi del nuovo lavoro si trasferisce a Milano lasciandosi alle spalle senza troppi rimpianti un incarico da insegnante. Più complessa la sua situazione sentimentale: un fidanzato perfetto abbandonato in favore di un amante innamorato della sua ex, da cui a sua volta è stata abbandonata.
L’avvenenza di Elettra, che spesso l’ha favorita, a volte si rivela un peso insostenibile. In particolare, quando il suo nuovo capo la fa oggetto di molestie sessuali.
Che fare? Denunciarlo o tentare di dimenticare e ricominciare ancora una volta? E soprattutto, quante volte si può trovare la forza per ricominciare?
Gian Carlo Fanori esplora con audacia la psicologia di una giovane donna in carriera costretta a fare i conti non solo con un mondo professionale in cui le attenzioni morbose del capo hanno scarsa possibilità di essere sanzionate, ma anche con se stessa e le proprie ambizioni.
LinguaItaliano
Data di uscita10 apr 2021
ISBN9788832928358
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    Anteprima del libro

    Elettra - Gian Carlo Fanori

    me.

    1

    Per decidere con calma cosa indossare, quella mattina mi ero alzata un’ora prima del solito. Avevo bevuto un caffè senza neppure sedermi, e dopo una rapida doccia ero andata a posizionarmi di fronte alle ante spalancate dell’armadio che impegnava un’intera parete della mia stanza. Possedevo un guardaroba piuttosto fornito, per quanto non di altissimo livello (la maggior parte dei miei abiti erano griffati Appiani Confezioni, il grande magazzino di Altea dove da tempo mi servivo, mentre altri me li aveva realizzati con le sue mani la mamma, che faceva la sarta), e per tale motivo volevo evitare di commettere errori.

    E questo benché, sia pure in modo vago, avessi percepito qualche nota spiacevole nella richiesta che il pomeriggio precedente mi aveva rivolto il mio capo Luciano Schiavo, il direttore del mensile Stile & Società per cui lavoravo come aspirante giornalista, a Milano, da poco più di tre mesi.

    Sei la prima a cui lo dico, Elettra, fra poco convocherò tutti in riunione per informarli, mi aveva detto dopo avermi accolto nel suo ufficio. "Il nostro formidabile editore mi ha comunicato poco fa che domani avremo ospiti in redazione. Intendo dire che con una delle sue abili mosse, Pietro Fornari è riuscito a strappare un servizio a Rete 01, destinato alla trasmissione Casi di successo; che, come è noto, è una delle più seguite nella seconda serata del venerdì. Non sappiamo ancora quando andrà in onda, se questa settimana o la prossima. O, parliamo della più importante televisione privata… ma alla fine per noi non fa molta differenza. La fisionomia del servizio dovrebbe essere la solita; ma nel nostro caso racconterà la storia del giornale, parlerà della fantastica annata che stiamo vivendo, spiegherà i progetti che abbiamo in cantiere. Per farla corta: verso le quattordici di domani una troupe della tele verrà qui per realizzare un filmato sulla sede. E io mi aspetto che tutti contribuiscano a dare la migliore impressione della nostra struttura."

    Beh, è normale, avevo detto io. Tutti capiranno senz’altro di dover…

    Ne sono convinto anch’io. In particolare, però, a me importa che lo faccia tu, m’interruppe lui.

    Io? In che senso? C’è qualcosa di specifico che posso fare?

    Niente di preciso. Sto solo dicendo che si tratta di un’occasione promozionale molto importante. E se per una volta rinunciassi al tuo abituale abbigliamento casual… disse, facendomi vergognare all’istante dei jeans e delle scarpe da tennis che portavo, abbinati a un golf di media qualità.

    Sgranai gli occhi. Cosa vuol dire, dottor Schiavo: che giudica il mio modo di vestire inadeguato?

    No, no. In generale non lo è. In questo caso, tuttavia, credo che dovresti…

    Tanto per essere concreti: come si aspetta che mi vesta, domani?

    "Questo non lo so, dovrai deciderlo tu. Dico solo che una mise più… Non vorrei dire sexy; quantomeno più femminile, ti valorizzerebbe parecchio. Sei una bella donna, e non capisco la ragione per cui ti ostini a portare abiti così modesti. Allo stesso tempo gioverebbe all’immagine del giornale. Stile & Società si occupa di bellezza, di moda; per noi la forma è fondamentale, no? E tutti si aspettano che lo dimostriamo anche nel modo di presentarci."

    Sì, chiaro… avevo detto io, anche se faticavo a cogliere un collegamento tra il mio look e l’immagine della rivista. Ma che altro potevo fare… Se non era una pretesa formale, poco ci mancava.

    Non esageriamo, dissi studiandomi allo specchio. Mi tolsi la minigonna che avevo indossato, gettai in un angolo le scarpe dal tacco alto con cui l’avevo abbinata.

    Quelli erano capi che stazionavano da anni nel mio armadio come nuovi. Li avevo acquistati a San Rocco, dove allora abitavo, insieme alle mie amiche Lara e Katia; per altro senza averli nemmeno indossati alla festa cui eravamo state invitate.

    Sei pazza? mi chiesi. Non è proprio il caso di aggiungere altri dodici centimetri.

    Sarei stata troppo appariscente, meglio evitare.

    Già la gente non smetteva mai di osservarmi. Mentre ridevo, parlavo, mangiavo... Qualunque cosa stessi facendo. Anche quando vestivo jeans conciati da buttar via, una maglietta informe, non vedevo il parrucchiere da settimane.

    D’altra parte, con centosettantaquattro centimetri di statura e sessantatré chili di peso, distribuiti obiettivamente in modo ottimale, occhi azzurri e capelli castani, che amavo portare lunghi, ero destinata ad attirare gli sguardi. A detta del mio ex fidanzato Matteo, professore di storia dell’arte, dunque esperto del ramo, con un viso come il mio Raffaello e Perugino sarebbero venuti alle mani per avermi come modella.

    Dovevo ammettere che Madre Natura con me era stata alquanto generosa. A volte mi dicevo che forse lo era stata fin troppo. Io mi sarei accontentata di una figura gradevole, non c’era bisogno di tanto spreco. Avrei evitato una quantità di situazioni antipatiche. Tanta invidia, in special modo.

    Pensare che io mi ritenevo tutt’altro che perfetta, e varie parti del mio corpo le avrei sostituite volentieri. Non sei mai contenta, mi diceva la mamma quando mi sentiva lamentare del mio aspetto, soprattutto tra i tredici e i sedici anni, ogni volta che ero di cattivo umore e nulla mi andava bene. Ma a giudicare dall’attenzione che le persone mi dedicavano da sempre, le mie imperfezioni dovevano essere evidenti solo a me.

    Era raro che un uomo mi passasse accanto senza squadrarmi. E spesso a squadrarmi ci si mettevano pure le donne.

    Gli uomini mi guardavano da quand’ero poco più che bambina. Chi in maniera discreta, specialmente se si trovavano in compagnia di una donna, chi in maniera plateale. Avevo la sensazione che non fossero pochi quelli pronti a passare ai raggi X la mia camminata dopo avermi incrociato.

    Io non amavo tutta quella considerazione, come certi forse ritenevano. Non ero per niente esibizionista; in molti casi ero timida, addirittura. Naturalmente questo non faceva di me una fanciulla casta e solitaria, anzi… Non rammentavo periodo più lungo di un mese che avessi trascorso senza un ragazzo al mio fianco.

    È che apparire, che tanto sembrava importare a un gran numero di donne, a me stava a cuore pochissimo. In molte situazioni avrei preferito passare inosservata.

    Ma non pareva possibile.

    Così da un pezzo avevo imparato a ostentare indifferenza verso l’interesse che suscitavo nel prossimo, a ignorare le parole o le frasi di cui alcuni uomini mi facevano oggetto, specie se in gruppo. Molti tra i tipi che provavano l’impulso di esprimermi il loro apprezzamento lo facevano in modo educato, altri no. Per fortuna si trattava di un’esigua minoranza, sia pure in aumento. Per la verità, mi ero sentita dire di tutto.

    Portare una gonna corta, nel mio caso significava guai in vista.

    Possibile che in pubblico non potessi accavallare le gambe senza pescare un cristiano intento a scrutarmi, nella nobile speranza di cogliere qualche dettaglio del mio abbigliamento intimo?

    E ringraziando il Cielo non mi era mai successo nulla di grave, nessuno era mai andato oltre le parole.

    Ora basta, mi dissi. Questa storia dell’abbigliamento incomincia a seccarmi; non so cosa scegliere… Ma in fin dei conti, perché mi devo preoccupare così tanto? Cosa farà oggi da noi Rete 01, tutto sommato mi coinvolge assai poco.

    Pensai piuttosto al lavoro che mi attendeva in redazione. Stavo preparando contemporaneamente due articoli. In tutti e due i casi ero a metà dell’opera, il che lasciava presagire una giornata di dura applicazione e stress alle stelle.

    Ecco una caratteristica del mio lavoro: essere affascinante e insidioso allo stesso tempo. Poi, alla tastiera, per me le ore volavano; tanto che non mi sembrava vero che più di novanta giorni fossero trascorsi da quando Stile & Società mi aveva assunta come giornalista. Calma, assunta non era il termine esatto, in realtà il periodico mi aveva offerto solo una borsa di studio semestrale; che per giunta prevedeva una retribuzione scarsa a dir poco, il minimo per mantenermi in una città come Milano.

    Ma quando Luciano Schiavo, il responsabile del giornale, mi aveva illustrato la proposta, non mi ero scoraggiata davanti alla prospettiva di quel magro stipendio, tra l’altro inferiore a quello che in quel periodo percepivo insegnando in una scuola professionale di Altea; mi ero arresa senza discutere, consapevole di avere un’opportunità eccezionale. Se tutto fosse andato per il verso giusto, così disse il direttore durante il nostro colloquio, quella borsa di studio sarebbe stata l’anticamera del praticantato; in sostanza, del mio effettivo inserimento.

    Ero stata ben lieta di accettare.

    Borsa di studio o no, lavoravo da mattina a sera, anche fino a tardi; e già dopo un mese solo un fine osservatore avrebbe notato qualche differenza tra la mia prestazione e quella dei colleghi inseriti in modo regolare.

    Ma non mi pesava; stavo facendo il lavoro dei miei sogni, con l’ulteriore soddisfazione di averlo ottenuto con le mie sole forze. Ed ero felice di farlo.

    Non potrebbe essere diversamente, mi dissi, pensando alla strada che avevo percorso per arrivare sino a lì. Una strada lunga e tutta in salita. A partire dal fatto che provenivo da una famiglia modesta, nonché da un minuscolo, anche se per me incantevole, borgo ligure: San Rocco delle Fonti, un paesello popolato da meno di cinquemila anime situato nel comprensorio di Altea, la cui unica ricchezza era il mare. A San Rocco (che doveva il suo nome a un miracolo attribuito al Santo, il quale nel corso di un anno di feroce siccità pareva aver fatto sgorgare dal terreno decine di fonti di acqua purissima) le possibilità per un giovane di costruirsi un futuro erano pressoché inesistenti; specie per una visionaria come me, che da quando ero bambina desideravo diventare giornalista. E con quella convinzione in testa, da sempre sapevo che un giorno a San Rocco avrei dovuto voltare le spalle.

    Intanto da San Rocco mi ero allontanata già durante gli anni universitari: alla fine del liceo avevo proseguito gli studi nella prospera Altea, la più vicina sede universitaria, persa nell’entroterra. Per un po’, con mezzi vari, avevo viaggiato tra le due località, divise da una trentina di chilometri, ma su quel percorso la vita del pendolare equivaleva a una condanna, e dal secondo anno a Altea mi ci ero trasferita, condividendo un appartamento con due compagne di corso.

    Pendolarismo a parte, a spingermi verso Altea era stato anche il fatto che mentre a San Rocco di giornali non avreste trovato neanche l’ombra, i circa sessantamila alteani potevano contare su Il Giornale di Altea, un quotidiano fondato la bellezza di novant’anni prima dall’aristocratica famiglia Burgo Rovatti, che ancora ne deteneva la proprietà e almeno formalmente lo dirigeva.

    E da tempo io avevo deciso che le pagine di quel giornale un giorno avrebbero ospitato la mia firma.

    Meditavo giorno e notte di farlo, ma fu solo quando pochi mesi mi separavano dalla seduta di laurea che presi il coraggio a due mani e chiamai Il Giornale di Altea per offrire la mia collaborazione.

    Non conoscevo nessuno che mi potesse introdurre, e solo dopo molte insistenze riuscii a estorcere un appuntamento al caporedattore Pier Luigi Magenes. Nonostante il direttore responsabile fosse uno dei Burgo, era noto che fosse lui a gestire il giornale, l’uomo con il potere reale.

    Dunque sei tu l’Elettra Bonaccorsi che mi tempesta di telefonate, mi disse quando infine riuscii a sedermi dinanzi a lui, in un’angusta saletta a pochi passi dall’ingresso del quotidiano. E vuoi fare la giornalista.

    Sì. È la mia grande aspirazione, dottor Magenes.

    Immagino, disse lui, poco convinto.

    Mica da oggi: sin da piccola. A undici anni già realizzavo un giornalino di alcune pagine che vendevo per pochi spiccioli ai miei vicini di casa. Da allora…

    Okay, senti… m’interruppe lui dando un’occhiata nervosa all’orologio. È inutile che stiamo a perderci in chiacchiere… vediamo piuttosto cosa sai fare. Prova a buttar giù un pezzo sulla Certosa di Lonate. La conosci, no? È stata fondata settecento anni fa, e sarebbe interessante verificare le sue condizioni attuali. Dall’ultima volta che ne abbiamo parlato è trascorso un decennio: è ora di riprendere il discorso, concluse Magenes, sollevando la grossa mole dalla sedia. Diecimila battute, non di più. Chiaro il concetto?

    Chiarissimo, avevo risposto io.

    Salutai Magenes meditando sul fatto che non avevo la più pallida idea di cosa ficcare in quel pezzo, e come scriverlo. Lui non mi aveva dato manco uno straccio di supporto, né io avevo avuto il coraggio di chiedergli alcuna indicazione.

    Infine, compresi che per sconfiggere l’ansia non mi restava che mettermi in moto e così feci. Con il pullman mi recai alla Certosa, poco distante da Altea, incontrai il padre priore; per mia fortuna una persona disponibile e gentile, che per oltre un’ora mi condusse alla scoperta del suo regno e mi fornì tutte le informazioni necessarie per realizzare l’articolo. Nel quale ricostruii la storia della grande Certosa, descrissi l’attività degli ultimi sei frati che l’abitavano.

    Con il lavoro sotto il braccio, quindi mi presentai a Magenes.

    Ah, sei già qui… disse quando fui al suo cospetto. Veloce.

    Il caporedattore divorò il pezzo con lo sguardo, leggendo ad alta voce solo alcune frasi, scelte chissà come qua e là: Si tratta di uno dei complessi monastici medievali meglio conservati… Nel tempo che non dedicano alla preghiera e alla meditazione, la vita lavorativa dei monaci si svolge nel laboratorio delle calzature, nella falegnameria, nella coltivazione dei campi… Nei secoli passati il monastero aveva uno scriptorium molto attivo, con decine di amanuensi impegnati nella copiatura di testi antichi e nella realizzazione di splendidi codici miniati. Ancora oggi sopravvive la tradizione di… Interessante… bofonchiò a lettura conclusa. Sembra di capire che l’unica differenza tra questa mezza dozzina di frati rimasti e i loro predecessori sia che costoro si muovono in macchina. Per il resto niente è cambiato, a parte il numero.

    Proprio così, dissi io.

    Brava Bonaccorsi. Mi piace. Buon inizio.

    Da lì prese il via la mia danza con Il Giornale di Altea.

    Il quale giornale era un foglio amato e rispettato, e per me un onore vedere i miei articoli comparirvi. Io avrei di gran lunga preferito occuparmi di cronaca, ma i ranghi nel settore erano completi; perciò, anche se la prospettiva non mi faceva impazzire dalla gioia, non mi era rimasto che tuffarmi nella pagina culturale, dove tre o quattro volte alla settimana il mio nome appariva in fondo ad articoli che raccontavano aspetti vari del passato di Altea, le imprese dei suoi più illustri protagonisti, affrontavano problemi vecchi e nuovi della città e aree circostanti.

    A lungo fu Magenes ad attribuirmi gli incarichi di lavoro. Però più volte lo sorpresi a corto di idee, e dopo qualche esitazione presi io stessa a suggerirgli argomenti da trattare.

    Con entusiasmo lo vidi accogliere la mia proposta di realizzare una serie di interviste ai personaggi alteani più noti.

    In successione incontrai il sindaco Giada Limonta, finita nell’occhio del ciclone per avere imposto il blocco del traffico in un punto nevralgico senza un’idonea concertazione con le rappresentanze dei commercianti, il deputato Rodolfo

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