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Da schiavo a missionario: Tra Africa ed Europa, vita e scritti di Daniele Sorur Pharim Den (1860-1900)
Da schiavo a missionario: Tra Africa ed Europa, vita e scritti di Daniele Sorur Pharim Den (1860-1900)
Da schiavo a missionario: Tra Africa ed Europa, vita e scritti di Daniele Sorur Pharim Den (1860-1900)
E-book596 pagine7 ore

Da schiavo a missionario: Tra Africa ed Europa, vita e scritti di Daniele Sorur Pharim Den (1860-1900)

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«La civilizzazione e la cristianizzazione dell’Africa: ecco il grande problema di oggi. In qualità di figlio del deserto, ora missionario, ho giudicato mio stretto dovere di patriottismo esprimere pubblicamente il mio parere per allontanare le stravaganti opinioni che [gli europei] hanno della razza nera, proponendo il modo più giusto di studiare la questione». Comincia così uno degli scritti finora inediti di Daniele Sorur Pharim Den. Primo prete d’origine sud-sudanese, la sua è la voce critica di un africano del diciannovesimo secolo che arriva a delineare una visione originale di chiesa nera e di riscatto per il proprio continente. Ma chi era Sorur, e perché è così importante riscoprirne la figura ed il pensiero? Nato intorno al 1860 in un villaggio dinka dell’attuale Sud-Sudan, anche Pharim figlio di Den, come la più nota Bakhita (1869-1947), è ancora solo un bambino quando cade vittima delle tratte transahariane di schiavi e gli viene attribuito il nome di Sorur da un mercante di lingua araba. A circa tredici anni è liberato dal missionario Daniele Comboni, che lo battezza con il suo stesso nome e lo porta con sé in Italia, al Collegio Urbano di Propaganda Fide. Nel 1887, dopo aver terminato gli studi presso i gesuiti di Beirut, è ordinato sacerdote al Cairo. Fino alla morte per tubercolosi all’alba del 1900, si dividerà tra l’attività di insegnante in Africa e i lunghi viaggi di animazione missionaria e antischiavista in Europa. Con la sua vita ed i suoi scritti, alcuni dei quali giudicati all’epoca troppo audaci per venir pubblicati, Sorur ci offre oggi un prezioso punto di vista non eurocentrico sulla storia globale di fine Ottocento, accompagnandoci in un viaggio ricco di spunti di riflessione anche per ripensare il nostro tempo.
LinguaItaliano
Data di uscita22 gen 2021
ISBN9788838250651
Da schiavo a missionario: Tra Africa ed Europa, vita e scritti di Daniele Sorur Pharim Den (1860-1900)

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    Da schiavo a missionario - Giacomo Ghedini

    GIACOMO GHEDINI

    DA SCHIAVO A MISSIONARIO

    Tra Africa ed Europa, vita e scritti di Daniele Sorur Pharim Den (1860-1900)

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Copyright © 2020 by Edizioni Studium - Roma

    ISSN della collana Cultura 2612-2774

    ISBN 978-88-3825-065-1

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838250651

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    ABBREVIAZIONI

    PRESENTAZIONE

    NOTA INTRODUTTIVA DEI MISSIONARI COMBONIANI

    INTRODUZIONE

    PRIMA PARTE IL QUADRO STORICO

    I. LE «TRATTE NEGRIERE

    1. Le tratte atlantiche

    2. Nascita e sviluppo del movimento abolizionista

    3. Le tratte inter-africane ed arabe, breve digressione storiografica

    3.2. Abolizione delle tratte inter-africane ed arabe, legami con le origini del colonialismo in Africa

    4. La tratta araba tra Sudan ed Egitto ed il processo verso la sua abolizione

    II. L’EVOLUZIONE DELLA POSIZIONE DELLA SANTA SEDE SULLA SCHIAVITÙ DURANTE IL XIX SECOLO: DALL’ACCETTAZIONE ALLA CONDANNA

    1. La mediazione del cardinal Consalvi al Congresso di Vienna e le due lettere di papa Pio VII

    2. Papa Gregorio XVI, la bolla In Supremo contro la tratta e l’influenza dei missionari

    3. Gli anni del lungo pontificato di Pio IX: la spinta antischiavista dei missionari

    4. La rivoluzione dell’enciclica In Plurimis: Leone XIII ed il ruolo chiave del cardinal Lavigerie

    5. Dalla «Crociata Africana» del cardinal Lavigerie alla Rerum Novarum di papa Leone XIII

    III. LA CHIESA MISSIONARIA IN AFRICA NEL XIX SECOLO: ALCUNE QUESTIONI

    1. Le tre fasi della presenza missionaria nell’Africa del diciannovesimo secolo

    2. La rivalità con il proselitismo islamico e tra le diverse confessioni cristiane; il complesso rapporto con il colonialismo

    3. Il clero indigeno

    4. I moretti: bambini schiavi africani liberati e portati a studiare in Europa

    IV. DANIELE COMBONI, IL VESCOVO ANTISCHIAVISTA

    1. Un breve profilo biografico

    2. Il Vicariato Apostolico dell’Africa Centrale, dalla fondazione alla morte di Comboni (1846-1881)

    3. Comboni e l’antischiavismo

    4. Il villaggio cristiano di Malbes e il sacerdote africano don Antonio Dobale (1852ca.-1881)

    SECONDA PARTE: DANIELE SORUR PHARIM DEN, LO SCHIAVO DIVENUTO PRETE

    I. UNA BREVE RICOGNIZIONE STORIOGRAFICA

    II. LA VITA

    1. L’infanzia

    2. La schiavitù

    2.1. La cattura

    2.2. La separazione e il viaggio

    2.3. Il periodo da schiavo a El-Obeid

    2.4. La fuga

    3. La libertà presso la missione di Daniele Comboni

    4. Dall’Africa all’Italia

    4.1. La vita nella missione di El-Obeid

    4.2. Il viaggio verso l’Italia e la permanenza a Verona

    4.3. Il viaggio verso Roma ed il primo incontro con il papa

    5. Gli anni al Collegio Urbano de Propaganda Fide

    5.1. Aspetti positivi

    5.2. Aspetti negativi

    6. Di ritorno al Cairo

    7. A Beirut per terminare gli studi

    8. La laurea in teologia, l’ordinazione sacerdotale al Cairo, il primo breve ritorno in Europa

    9. L’assedio a Suakim

    10. Il secondo viaggio europeo, la grande avventura

    11. Di nuovo in Egitto

    11.1. Insegnante ad Helouan

    11.2. La breve parentesi dell’ultimo viaggio in Europa

    11.3. A capo della Gesira, la Colonia antischiavista Leone XIII

    12. La morte

    13. Una memoria ancora tutta da scrivere

    III. GLI SCRITTI

    1. L’epistolario

    2. Le opere autobiografiche

    2.1. Un Nero della nostra Missione fatto Sacerdote

    2.2. Memorie scritte dal R.P. Daniele Sorur Pharim Den

    2.3. Lettre de dom Daniel Sorur Dharim Den, prêtre nègre de l’Afrique centrale

    3. Le opere a carattere saggistico

    3.1. Qual è il mio paese natio?

    3.2. Le pene dei negri schiavi in Africa

    3.3. Che cosa sono i negri

    3.4. Lo stato reale dei negri

    3.5. Meine Bruder, die Neger in Afrika

    IV. IL PENSIERO

    1. I rapporti con l’universo femminile

    1.1. La condizione della donna tra i dinka

    1.2. La relazione con la madre e le sorelle

    1.3. Le amicizie femminili

    2. Nemico della schiavitù… e dell’islam?

    2.1. La posizione del Comboni

    2.2. La posizione del Sorur

    3. Contro il razzismo, l’universalismo cristiano

    4. Un teologo africano per una Chiesa africana

    4.1. Per la formazione di un clero indigeno africano

    4.2. Un precursore dell’inculturazione?

    4.3. Una teologia africana: Cristo liberatore e salvatore dei negri

    4.4. Precursore della teologia nera della liberazione?

    CONCLUSIONI

    APPENDICE I

    CHE COSA SONO I NEGRI

    APPENDICE II

    IMMAGINI, FOTOGRAFIE, MAPPE

    BIBLIOGRAFIA

    INDICE DEI NOMI

    CULTURA STUDIUM

    GIACOMO GHEDINI

    DA SCHIAVO A MISSIONARIO

    Tra Africa ed Europa, vita e scritti

    di Daniele Sorur Pharim Den (1860-1900)

    Presentazione di Gianpaolo Romanato

    Nota introduttiva dei Missionari Comboniani

    A mio padre

    ABBREVIAZIONI

    ACA Archivio monastero di Camaldoli Arezzo

    ACR Archivio missionari Comboniani Roma

    AMA Archives des Missionnaires d’Afrique (pères blancs), Rome

    ANB Archivio abbazia di Novacella Brixen/Bressanone

    APF Archivio Propaganda Fide, Roma

    SC Scritture riferite nei Congressi

    NS Nuova Serie

    APMN Archivio missionarie comboniane Pie Madri della Nigrizia, Roma

    ASV Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano

    AUSJ Archives Université Saint Joseph, Beyrouth

    PRESENTAZIONE

    di GIANPAOLO ROMANATO

    Frutto di una bella tesi di laurea, questo studio di Giacomo Ghedini recupera una figura di africano e di sacerdote – Daniele Sorur – che merita la nostra attenzione. Era un dinka dell’attuale Sudan del Sud che ignorava come si chiamasse esattamente, dove fosse nato e quando, anche se probabilmente attorno al 1860. Sapeva solo di essere stato strappato alla famiglia con la violenza, cosa allora molto frequente fra le popolazioni che vivevano lungo il Nilo, e reso schiavo di un arabo musulmano che gli aveva dato il nome di Sorur e l’aveva portato verso nord, a El Obeid, nel Kordofan sudanese. Era un adolescente quando riuscì a fuggire e si rifugiò nella missione cattolica fondata da Daniele Comboni. I nomi con cui volle essere identificato dopo il battesimo e la cristianizzazione ricordavano le esperienze fondamentali della sua vita: Daniele era stata la sua salvezza, Sorur la sua condanna.

    Comboni lo accolse, lo rieducò, ne intuì l’intelligenza e se lo portò in Italia, facendolo studiare a Roma, nelle migliori strutture cattoliche, e in Libano, dove perfezionò l’arabo. L’ex schiavo divenne sacerdote, imparò a parlare e a scrivere in molte lingue, si impadronì della classica cultura cristiana, girò tutta l’Europa e morì nel 1900, probabilmente di tubercolosi. Aveva circa quarant’anni. I suoi scritti, sepolti negli archivi, furono presto dimenticati. Questo libro di Ghedini, largamente fondato su documenti inediti, è dunque il primo lavoro completo su quest’uomo, fatta eccezione per un precedente intervento di Fulvio De Giorgi. Scopriamo così uno dei primissimi preti africani apparsi in Europa, che strabiliava il pubblico del tempo per la perizia con cui passava da una lingua all’altra, ma spaventava le pie donne, stupefatte e incredule davanti ad un nero che celebrava la messa e distribuiva la comunione.

    Daniele Sorur visse negli anni in cui esplodeva il colonialismo europeo e l’Africa cadeva preda delle grandi potenze. Dietro lo scramble for Africa, come si disse allora, c’era il profondo senso di superiorità dell’Europa. Un senso di superiorità che sconfinò spesso nel razzismo e che contagiò anche molti ambienti missionari. Quando studiai la figura di Daniele Comboni, ricordo che rimasi impressionato dai giudizi sprezzanti, oggi inimmaginabili, formulati sugli africani da molti suoi missionari. Comboni invece guardò all’Africa con il massimo rispetto, intuendo che in quel continente, che lo spirito europeo dell’epoca considerava alla stregua di vergine e ancora semiselvaggio, poteva esserci il futuro del cristianesimo. Ebbene, Daniele Sorur, lo schiavo divenuto sacerdote, predicatore e scrittore, fu il prodotto forse più compiuto e anticipatore del suo lavoro.

    Le riflessioni di questo prete dinka sulla condizione dell’uomo africano, del negro, come si diceva allora con disprezzo, le sue meditate demolizioni delle idee razziste in quegli anni tanto in voga, sostenute da una lucida intuizione della relatività delle culture, la sua capacità di ragionare da pari a pari con l’intellettualità europea, la sua appassionata difesa dell’uguaglianza degli esseri umani, dovunque si trovino – tutti aspetti ben delineati nelle pagine che seguono – ne fanno un unicum che era tempo di riscoprire. Ugualmente, ci stupiscono per la loro valenza anticipatrice le sue riflessioni, caute ma inequivocabili, sulla questione del celibato del clero, che in Africa si scontra con abitudini di vita e valori completamente diversi. La capacità di ragionare di questo figlio del deserto, per usare la sua autodefinizione, ponendosi a cavallo di due culture, di due mondi, rispettoso di entrambe ma non appiattito su nessuna delle due, è tanto più notevole se pensiamo che si muoveva – e con devota venerazione – all’interno di un cattolicesimo attardato in una sterile battaglia contro la modernità liberale, che si accodò con molto ritardo alle campagne antischiaviste ottocentesche, come si spiega nella prima parte di questo libro. Una figura originale e interessante, insomma, Daniele Sorur. Un precursore che meritava di essere dissepolto dagli archivi e tratto dall’oblio.

    GIANPAOLO ROMANATO,

    già professore di Storia contemporanea

    all’Università di Padova.

    Novembre 2019

    NOTA INTRODUTTIVA DEI MISSIONARI COMBONIANI

    DON DANIELE SORUR PHARIM DEN MISSIONARIO SUD SUDANESE, FIGLIO SPIRITUALE DI SAN DANIELE COMBONI

    Daniele Sorur ed Arturo Morsàl da me riscattati, battezzati, e dai miei missionari istruiti sono due giovani sui 13 anni di età d’ingegno e memoria distinta, di candidi costumi, e desiderosi di essere apostoli ai loro confratelli: li ho tenuti un anno nel mio Istituto di Verona, perché in Propaganda possano entrare negli studi delle latine, e secondo il giudizio del Rettore e Professori di Verona, potranno fare un’ottima riuscita da riuscire apostoli dell’infelice lor patria.

    Daniele Comboni, 1877, Scritti, n° 4683.

    «Chi sei tu?» gli domandò Monsignore. «Lo schiavo di un cammelliere» rispose il piccolo fuggiasco. «Chi ti manda?». «Iddio mi manda presso di te».

    Nigrizia, febbraio-marzo e maggio 1900.

    Così comincia il dialogo del primo incontro tra San Daniele Comboni, Padre-della Chiesa nel Sudan-Sud-Sudan e futuro fondatore dei Missionari Comboniani e delle Missionarie Comboniane, e l’ancora fanciullo Sorur, di circa 13 anni, quando questi arriva alla missione Cattolica di El Obeid (Sudan), dopo essere fuggito dalle mani degli schiavisti. San Daniele Comboni lo accoglie nella missione e, alcuni anni dopo, il 12 giugno 1874, festa del Sacro Cuore di Gesù, il ragazzo viene battezzato con il nome di Daniele. Il 25 marzo 1876 Comboni lo porta con sé in Italia. San Daniele Comboni muore a Khartoum il 10/10/1881. Qualche anno dopo, il giovane studente della Pontificia Università Urbaniana di Roma è ordinato sacerdote, nel 1887. L’11 gennaio 1900 muore al Cairo, a soli 40 anni di età.

    La vita e il pensiero di Daniele Sorur sono raccontati in maniera eccellente in questo volume del Dr. Giacomo Ghedini: Da schiavo a missionario tra Africa ed Europa, vita e scritti di Daniele Sorur Pharim Den (1860-1900). È soprattutto nella seconda parte del libro che la figura e la personalità di Daniele Sorur emergono in modo singolare. Profondamente deciso a seguire la chiamata di Dio, è disposto a lasciare tutto, anche gli affetti più cari, per liberare i suoi fratelli Africani e portarli alla fede nel Dio di Gesù Cristo. Comincia così l’attuazione del Piano di Comboni di Salvare l’Africa con l’Africa.

    I missionari comboniani sono riconoscenti al Dr. Ghedini per questo prezioso e accurato lavoro di ricerca, grazie al quale la vita e il pensiero di Don Daniele Sorur sono oggi maggiormente conosciuti e a disposizione di tutti. Ispirandosi a questa figura di sacerdote e missionario, possano i giovani vivere con passione la missione di Gesù nel Continente Africano, rispondendo con generosità alla chiamata di Dio per l’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo che trasforma la vita individuale e sociale e per l’abolizione di tutte le schiavitù e impegnandosi nella costruzione del Regno di Dio in un futuro sempre più luminoso per questo continente.

    Inoltre, ci auguriamo che, attraverso queste pagine, Don Daniele Sorur, missionario Sud Sudanese nell’Africa Centrale, possa tornare alla sua Africa, in mezzo al suo popolo nella chiesa locale nel Sudan, con gli stessi sentimenti di quel San Daniele Comboni che lo aveva riscattato dagli schiavisti e lo aveva ispirato nella sua vocazione missionaria: «Io ritorno fra voi per non mai più cessare d’essere vostro, e tutto al maggior vostro bene consacrato per sempre… Tutti avranno sempre eguale accesso al mio cuore» (Daniele Comboni, Scritti, n° 3158).

    Grazie, Dr. Giacomo Ghedini!

    C onsiglio Generale dei Missionari Comboniani del Cuore di Gesù

    Roma, novembre 2019

    INTRODUZIONE

    La civilizzazione e cristianizzazione della razza nera, ecco il grande problema d’oggi. […] Confesso che il tema è al di sopra delle mie forze, né avrei osato intraprenderlo, se in qualità di figlio del deserto – ora cristiano, cattolico, sacerdote, missionario – non avessi giudicato mio stretto dovere di patriottismo di esprimere pubblicamente il mio parere, per allontanare le stravaganti opinioni che si hanno della razza nera, proponendo il modo più giusto di studiare la questione della civilizzazione africana [1] .

    Daniele Sorur Pharim Den

    Pharim, figlio di Den, di etnia dinka [2] , nasce intorno al 1860 in uno sperduto villaggio lungo il fiume Nilo, nell’attuale Sud Sudan. Ancora bambino, verso i dieci/undici anni, è reso schiavo da alcuni mercanti baggara [3] . Il suo padrone gli attribuisce il nome di Sorur: in arabo, gaudio/letizia. Un paio d’anni più tardi, riesce a scappare e viene liberato dal vicario della missione cattolica dell’Africa Centrale in persona, monsignor Comboni (1831-1881), il quale lo battezza attribuendogli il proprio nome: Daniele. Circa quindicenne, il giovane Sorur s’imbarca insieme al Comboni per l’Italia e, dopo un periodo di studi a Verona, entra come seminarista al prestigioso Collegio Urbano di Propaganda Fide, a Roma. Ammalatosi gravemente, viene mandato a terminare gli studi prima al Cairo e poi presso l’Università Saint Joseph dei padri gesuiti a Beirut. Nel 1887, è infine ordinato sacerdote al Cairo: uno dei primi preti africani ad essere incardinato direttamente in Africa. In seguito, nel 1887 e poi tra il 1889 e il 1891, compirà due viaggi in numerose città europee allo scopo di raccogliere fondi per la missione africana. Proprio in questo periodo scrive la gran parte delle sue opere. Negli ultimi anni si dedicherà invece all’insegnamento, prima nella città di Suakim, al confine tra Sudan ed Eritrea sul mar Rosso, poi ad Helouan, ed infine presso la colonia antischiavista di Gesira, a pochi chilometri dal Cairo. Qui lo coglierà la morte, per tubercolosi, l’11 gennaio del 1900. In appena quarant’anni di vita Pharim aveva viaggiato per tre continenti, appreso dieci lingue [4] , lavorato per integrare in una stessa identità esperienze di vita e culture molto differenti.

    La prima volta che ho incontrato la figura di don Daniele Sorur Pharim Den è stato quasi per caso. Iscritto al primo anno del corso di laurea magistrale in Scienze Storiche a Bologna, stavo svolgendo un periodo di ricerca presso gli archivi della casa madre dei missionari comboniani a Roma. Cercavo documenti sul tema del rapporto tra chiesa cattolica e schiavitù nel diciannovesimo secolo, che volevo sviluppare tramite una comparazione tra le vicende di due noti missionari: Daniele Comboni, il fondatore dei missionari comboniani e delle suore missionarie comboniane, e Charles Lavigerie (1825-1892), cardinale e fondatore dei Missionari d’Africa (padri bianchi) e delle Missionarie d’Africa (suore bianche). Tra le tante cartelle di documenti, mi capitò tra le mani un manoscritto dal titolo Che cosa sono i negri. Fatta una foto al bizzarro titolo ottocentesco, da mandare ad un amico, passai oltre, impegnato a controllare altri documenti. La sera, però, mi tornò in mente un (capitale) dettaglio: l’autore, che si era firmato come «Daniele Sorur Pharim Den», non poteva essere d’origine italiana! Così, il giorno dopo, per prima cosa, tornai a cercare quell’inatteso documento, scoprendo che effettivamente si trattava dello scritto di un prete africano, già schiavo. Dopo aver prolungato di qualche giorno il mio soggiorno a Roma per apprendere ulteriori informazioni sulla sua storia, contattai i miei docenti di riferimento e modificammo i piani per la tesi magistrale: invece che schiavitù e missioni in generale, al centro della ricerca sarebbe stato Sorur, lo schiavo africano divenuto prete e missionario.

    Sul giovane sacerdote dinka erano già state scritte alcune brevi biografie, ma mancava uno studio più approfondito ed alcuni suoi scritti erano ancora del tutto sconosciuti. In generale, Sorur era per lo più considerato uno dei tanti collaboratori della prima missione comboniana nell’Africa subsahariana di tardo diciannovesimo secolo: un piccolo pianeta che girava intorno alla stella luminosa del Comboni. Certo, è da quest’ultimo e dall’educazione tipica dell’intransigentismo cattolico dell’epoca che il Sorur aveva mutuato ideali quali la fermezza dell’impegno antischiavista per la rigenerazione dell’Africa alla luce del cristianesimo grazie all’impegno degli africani stessi. Tuttavia, man mano che cominciavo a conoscerne meglio la vita e il pensiero, mi andavo convincendo del fatto che Sorur si fosse appropriato di tali ideali in maniera originale e in primo luogo capovolgendo i ruoli di osservatore-osservato tipici degli scritti etnografici dell’epoca. A scrivere dell’Africa e dell’Europa era un africano e non un europeo; avviando una riflessione su se stesso e sul proprio popolo, egli si poneva come uno dei primi teologi del cristianesimo africano.

    La stessa vita di Sorur, come risulterà evidente anche al lettore, rappresenta «un evento storico-antropologico degno di attenzione» [5] , sia di per sé che in quanto diretta ispiratrice dei suoi scritti. Nondimeno, il prete africano fece indubbiamente parte di un’umanità subalterna: schiavo, orfano, ancora giovanissimo sottoposto ad un viaggio e ad un’educazione ferrea che lo sradicarono dalla propria terra e cultura d’origine… Non stupisce che per tanto tempo la sua figura sia rimasta ai margini della memoria. Ciononostante, la sua non fu un’esperienza di vita subita passivamente. Sorur non fu solo una vittima di processi storici e volontà superiori, ma un individuo dotato di straordinaria agency, capace di elaborare risposte personali all’interno di sistemi complessi. Egli si pose consapevolmente come soggetto attivo, protagonista della sua vita e delle sue battaglie, della lotta antischiavista e dell’evangelizzazione dell’Africa. Nel raccontare la propria esperienza di schiavitù e liberazione, costruì una robusta analogia tra la sua storia e quella del Continente Nero, che secondo Sorur era chiamato finalmente al riscatto, dopo essere stato a lungo costretto a quello che egli chiama uno «stadio retrogrado» proprio dalla schiavitù che da secoli pesava su di esso. La voce del giovane sacerdote dinka, a lungo ignorata, oggi può finalmente essere conosciuta e perfino interpellarci su questioni di grande attualità, quali le nuove forme di colonialismo, le migrazioni, la xenofobia a sfondo razzista, le tratte di schiavitù contemporanee, la nuova evangelizzazione.

    Nell’avvicinare la figura di Sorur si può forse tentare anche qualcosa di più della redazione di una semplice e tradizionale biografia.

    Quello del diciannovesimo secolo era un mondo che ormai si avviava a grandi passi verso la globalizzazione odierna [6] . Proprio allora, l’Africa entrava pienamente a far parte del sistema-mondo di matrice europea, benché già da tempo vi fosse coinvolta, principalmente come fornitrice di schiavi. Intorno al 1830, all’espansionismo economico europeo in Africa andarono a sommarsi con maggior rilevanza anche quello scientifico e religioso, con l’organizzazione di importanti spedizioni esplorative ed evangelizzatrici [7] . Anche la chiesa cattolica, uscita dal periodo storico di contrazione coincidente con la caduta dell’ Ancien Régime [8] , guardò all’Africa con grandi aspettative e vi inviò centinaia di missionari. Quando, negli ultimi decenni dell’Ottocento, alla somma di tutti questi interessi si aggiunse anche una competizione su scala globale tra le grandi potenze europee stimolate dall’ideologia nazionalista, ne nacque una nuova forma di imperialismo che portò queste ultime, in conferenze come quella di Berlino del 1884-1885, a spartirsi l’Africa a tavolino. Una connotazione significativa del colonialismo di fine Ottocento fu la ricerca di una sua giustificazione morale, che potesse colpire e motivare l’immaginario delle nascenti opinioni pubbliche. La si trovò anzitutto nella lotta contro le tratte degli schiavi cosiddette arabe ed interne al continente africano, espandendo il raggio d’azione del movimento abolizionista sorto originariamente contro le tratte atlantiche [9] . Quello che si era già affermato come «il più grande fenomeno di volontariato riformatore della storia» [10] , divenne così «la prima lotta internazionale a favore dei diritti dell’uomo» [11] . Un ruolo di primo piano nel sostenere e fornire giustificazione morale a questa campagna fu svolto dai missionari, che da decenni si confrontavano con la schiavitù sul campo africano e godevano di una certa autorevolezza derivante dal loro ministero. In particolare, tra i cattolici, assai rilevante fu la figura del già citato cardinal Lavigerie, arcivescovo di Algeri e Cartagine, che, tra il 1888 e il 1891, condusse su mandato esplicito di papa Leone XIII una campagna antischiavista per gli stati europei allo scopo di sensibilizzarli sulla questione e promuovere allo stesso tempo un rafforzamento della posizione della Chiesa tanto in Africa quanto in Europa. Abolizionismo, missioni e colonialismo andarono quindi sempre più spesso, in modo più o meno consapevole a seconda dei casi, ad intrecciarsi [12] .

    Con la sua vita e le sue riflessioni, Sorur si delinea come un caso esemplare di questo contesto in evoluzione, ma allo stesso tempo dotato di proprie specificità. Attraverso la lente della sua parabola biografica e di pensiero, si rendono percorribili almeno due ulteriori fruttuose strade. La prima è quella di approcciare le importanti tematiche storiografiche citate dal punto di vista di un africano, il che è piuttosto infrequente, dato lo sbilanciamento eurocentrico delle fonti sull’Africa: i suoi scritti, alcuni dei quali rimasti inediti e presentati qui per la prima volta, sono dei documenti di grande rarità, se si considera che «per quanto riguarda l’Africa dell’Ottocento e dei primi del Novecento abbiamo poco materiale scritto di natura o provenienza locale, africana» [13] . La seconda opportunità potrà condurre a riabilitare la memoria e valorizzare il contributo intellettuale di questo giovane sacerdote africano di fine Ottocento, rendendolo un prisma attraverso il quale riflettere l’universale nel particolare, il globale nel locale, e viceversa. Raccontare la sua (micro)storia ci consentirà di interrogare e lasciarci interrogare dalla (macro)storia, nella convinzione che, come suggerito da Carlo Ginzburg, «un’analisi ravvicinata di un singolo caso di studio può aprire la strada a teorie assai più vaste (se non globali)» [14] .

    Questo studio è suddiviso in due parti. La prima funge da contestualizzazione delle vicende del Sorur all’interno del corso di quella storia più ampia e globale di cui sopra, con un approccio mirato a tenere uniti i fili e trovare i collegamenti all’interno di un campo di ricerca molto vasto e complesso. Nella necessità di selezionare delle chiavi di lettura, ci si è soffermati soprattutto sul lungo percorso globale verso l’abolizione della schiavitù e sull’evoluzione della posizione della Chiesa a riguardo. Particolare attenzione è stata dedicata anche alle dinamiche di sviluppo della colonizzazione e delle missioni in Africa, con l’approfondimento della figura di Daniele Comboni, maestro di Sorur ed uno dei principali missionari cattolici del diciannovesimo secolo. Un posto speciale lo si è riservato ad una prima descrizione del fenomeno, finora poco studiato, dei cosiddetti moretti: bambini subsahariani che, come il Sorur e la più nota Bakhita (1869-1947) [15] , vennero portati in Europa nel corso dell’Ottocento.

    La seconda parte del libro è interamente dedicata a Daniele Sorur: dopo una breve rassegna della letteratura disponibile sulla sua figura, intrecciando le fonti ne viene ricostruita una biografia, forse la parte più originale e completa della ricerca. In seguito, si propone una sintetica ricognizione dei suoi scritti ed evidenziano alcuni elementi fondamentali del suo pensiero. In particolare, per quanto riguarda le opere, la valorizzazione della traduzione tedesca di fine Ottocento del suo ultimo manoscritto, intitolato Meine Bruder, die Neger in Afrika [16] , di fatto finora ignorata dalla storiografia, può consentire rilevanti apporti integranti gli studi passati. Per quanto concerne il pensiero di Sorur, infine, si è scelto di porre l’attenzione su tre tematiche chiave: la natura del legame che egli vedeva tra schiavismo e islam; il suo approccio antropologico alla questione del razzismo degli europei verso gli africani; il suo contributo alla nascita di un cristianesimo, di una teologia e di una Chiesa neri e africani. Si è dedicata inoltre qualche pagina anche al modo in cui il sacerdote africano si approcciava all’universo femminile.

    Completano il volume due appendici: una prima edizione dello scritto principale del Sorur, Che cosa sono i negri, e una rassegna di immagini, fotografie e mappe. Rimasto lungamente inedito, il testo di Sorur proposto è di carattere saggistico, elaborato nel corso del tour europeo compiuto tra il 1889 e il 1890. Si tratta di uno scritto di grande valore documentario, dove l’autore si rivolge direttamente agli europei, reclamando per sé il diritto di porsi come avvocato della propria gente. I neri, sostiene Sorur, non devono assolutamente essere considerati come inferiori per natura, bensì come vittime della schiavitù, dalla quale potranno emanciparsi realmente solo tramite una vera civilizzazione (quella cristiana, che per Sorur è altra cosa da quella europea) [17] , da effettuarsi per mano di quegli stessi africani che da essa siano già stati raggiunti.

    L’appendice iconografica finale potrà forse aiutare a focalizzare luoghi e protagonisti.

    Molte sono le persone e gli studiosi da ringraziare, senza il cui aiuto questo lavoro non sarebbe stato possibile. Anzitutto il professor Umberto Mazzone, titolare della cattedra bolognese di Storia delle Chiese e dei Movimenti religiosi, e la professoressa Charlotte de Castelnau-L’Estoile, docente d’Histoire des missions d’évangélisation modernes a Paris 7 Diderot. Sono stati i miei relatori di tesi magistrale ed ora mi seguono per il dottorato, sempre con grande disponibilità e competenza. Con loro ringrazio anche tutti quei professori e studiosi che mi hanno consigliato su specifici punti e con cui ho avuto modo di confrontarmi. In particolare Odile Goerg, docente di Histoire de l’Afrique a Paris 7 e mia correlatrice di tesi magistrale, e Francesca Sofia, responsabile del corso integrato italo-francese per l’Università di Bologna. Fra gli altri: Guido Abbattista, Giovanni Pizzorusso, Ilaria Porciani, Paolo Capuzzo, Fulvio De Giorgi, Caroline Sophie Bouchez, Christopher Korten, Andrea Pase, Roberto Regoli, Domenico Romani, Karin Pallaver, Andrea Toniolo.

    Ringrazio per la cortesia e la professionalità il personale degli archivi e delle biblioteche che ho visitato. Una gratitudine speciale va a quelli che ho disturbato più spesso: padre Piergiorgio Prandina e fratel Mario Camporese, comboniani.

    Vorrei dire grazie anche ai miei famigliari e a quegli amici e colleghi che in più di un’occasione hanno saputo accompagnarmi in questa fatica, chi con un aiuto concreto, chi con un incoraggiamento o anche solo una battuta di spirito. Grazie in particolare a mia madre Marina, mio padre Francesco e mio fratello Michele, ai miei zii Chiara e Stefano per l’ospitalità nei soggiorni romani, a Luisa, Serena, Cristina, Michele, Giacomo, Paolo, Maria, Claudia, Alice, Giorgio, Matteo.

    Un ringraziamento a parte va al professor Gianpaolo Romanato, già titolare della cattedra in Storia della Chiesa all’Università di Padova e mio relatore di tesi triennale. È a lui e alla sua monografia su Daniele Comboni che devo molta della mia passione per la materia: dai suoi insegnamenti sono partito, a essi spesso ritorno. Lo ringrazio anche per l’aiuto in vista della presente pubblicazione e per la gentile presentazione.

    Ringrazio infine il dottor Bocchetta e la Casa Editrice Studium per la fiducia e la paziente guida, ed i missionari comboniani, specie padre Jeremias dos Santos Martins e tutti quelli che nel corso degli anni ho conosciuto personalmente, per la collaborazione, il sostegno e la cortese nota introduttiva. Per la prima volta nella storia della Congregazione, l’attuale Superiore generale comboniano (padre Tesfaye Tadesse, eletto nel 2015) è un africano: questo avrebbe probabilmente fatto piacere a Daniele Comboni, e ancor di più a Daniele Sorur Pharim Den.


    [1] D.P.D. Sorur, Lo stato reale dei negri, ACR, A/30, 2.10, pp. 1-4.

    [2] I dinka sono il principale gruppo etnico del Sud Sudan, stato autonomo dal Sudan a partire dal 2011, dopo una lunga guerra i cui strascichi si fanno ancora sentire. Per un approfondimento sull’organizzazione sociale e la religione dinka resta fondamentale G. Lienhardt, Divinity and Experience: the Religion of the Dinka, Oxford University Press, Oxford 1961, p. 292. Nell’uso delle maiuscole si è cercato di seguire l’uso italiano, tranne che nelle citazioni, dove si è conservata la forma utilizzata nella stessa. Si potrà dunque trovare ad esempio scritto Dinka in citazioni, ma l’autore nel testo utilizza dinka.

    [3] D.P.D. Sorur, Memorie scritte dal R.P. Daniele Sorur Pharim Den, in A. Benetti, Don Daniele Sorur «Salvare l’Africa con l’Africa», cit., p. 6. I baggara sono un popolo sudanese di lingua araba e religione musulmana che nel XIX secolo praticava ripetute razzie schiaviste verso il sud del Nilo e quindi in particolare le aree abitate dai dinka.

    [4] Madrelingua dinka, Sorur imparò anche l’aka (una lingua sudanese-nilotica), l’arabo (quello scritto e diverse varianti di quello parlato), l’italiano, il latino, il francese e l’inglese, arrivò a comprendere discretamente il tedesco e aveva studiato greco ed ebraico biblici.

    [5] R. Di Falco, Un missionario africano in Europa. Il caso di padre D. Sorur (18…-1900), Tesi di laurea, Università degli Studi L’Aquila, L’Aquila 1998, rel. Prof Valerio Petrarca, (una copia depositata presso ACR), p. 7.

    [6] C. Bayly, La nascita del mondo moderno: 1780-1914, trad. it. a cura di Mario Marchetti e Santina Mobiglia, Einaudi, Torino 2007, p. XIX.

    [7] W. Reinhard, Storia del colonialismo, trad. it. a cura di Elena Broseghini, Einaudi, Torino 2002, p. 238.

    [8] G. Romanato, L’Africa Nera fra Cristianesimo e Islam. L’esperienza di Daniele Comboni, Corbaccio, Milano 2003, p. 50; J. Metzler, La Santa Sede e le missioni. La politica missionaria della Chiesa nei secoli XIX e XX, San Paolo, Torino 2002, p. 35.

    [9] G. Romanato, L’Africa Nera fra Cristianesimo e Islam. L’esperienza di Daniele Comboni, cit ., p. 340; O. Pétré-Grenouilleau, Abolizionismo e diritto d’ingerenza per cause umanitarie, trad. it., in «Passato e Presente», LXXXII, 2011, p. 97.

    [10] C. Bayly, op. cit., p. 121.

    [11] O. Pétré-Grenouilleau, Abolizionismo e diritto d’ingerenza per cause umanitarie, cit., p. 92.

    [12] C. Prudhomme, Stratégie missionnaire du Saint-Siège sous Léon XIII (1878-1903), Ecole française de Rome Palais Fornèse, Roma 1994, pp. 392-395.

    [13] I. Taddia, Autobiografie africane. Il colonialismo nelle memorie orali, Angeli, Milano 1996, p. 17.

    [14] C. Ginzburg, Microhistory and World History, in The Cambridge World History, vol. VI, The Construction of a Global World, 1400-1800 CE, part 2, Patterns of Change, ed. by J. H. Bentley, S. Subrahmanyam, M. E. Wiesner-Hanks, Cambridge University Press, Cambridge 2015, p. 462. Le traduzioni da testi in inglese, francese, spagnolo e portoghese sono opera dell’autore; quelle dal tedesco di Cristina Iorno, dall’arabo di Laura Cecchin.

    [15] Giuseppina Bakhita, d’origine sudanese, venne schiavizzata ancora bambina e quindi fu portata in Italia dal console Callisto Legnani. Entrata nella congregazione religiosa delle Figlie della Carità (canossiane), visse gran parte della sua vita a Schio (Vicenza). L’1 ottobre del 2000 è stata proclamata santa, prima donna africana ad assurgere agli altari. Ad una prima ricognizione, non risultano ancora presenti studi scientifici su Bakhita, si possono leggere però la sua autobiografia e alcune rielaborazioni più o meno attendibili della stessa, tra cui R.I. Zanini, Bakhita. La schiava divenuta santa, San Paolo, 2014. Si veda la figura n° 9.

    [16] D.P.D. Sorur, Meine Bruder, die Neger in Afrika. Ihr Wesen, ihre Befähigung, ihre jetzige traurige Lage, ihre Hoffnungen. Ein ernstes Wort an Europas Christen von P. Daniel Sorur Pharim Den, früherer Sklave, jetziger Missionar. Nach dem italienischen Manuskript besorgte und mit einer Vorrede versehene deutsche Ausgabe von Dekan Schneider, W. Helmes (Humanus), Münster 1892.

    [17] Quella del cristianesimo come unica vera fonte di autentica civiltà è un’idea che in quegli anni viene espressa anche dallo stesso papa Leone XIII, si veda C. Prudhomme, Stratégie missionnaire du Saint-Siège sous Léon XIII (1878-1903), cit., p. 392.

    PRIMA PARTE IL QUADRO STORICO

    I. LE «TRATTE NEGRIERE

    Tutto il male che corrode oggi la povera Nigrizia proviene da doppio fronte: dalle discordie che regnano fra tribù e tribù; e dalla schiavitù. Il primo non potrà essere superato, se non quando sarà tolto il secondo. La schiavitù è l’ultimo ed il più grave ostacolo alla civilizzazione della razza nera [1] .

    Daniele Sorur Pharim Den

    Il tema della schiavitù è senza dubbio uno dei più ricorrenti, negli scritti di Sorur. Per tutta la vita, infatti, avrebbe continuato a riflettere su di essa, sulle sue implicazioni materiali e spirituali sul popolo africano, su come debellarla; fino alla fine si sarebbe impegnato concretamente per combatterla, attraverso conferenze e raccolte fondi in giro per l’Europa e azioni sul territorio africano, come il ministero svolto presso la colonia antischiavista della Gesira. Emblematica la sua scelta di adottare come cognome proprio il nomignolo arabo – Sorur – datogli dal suo ex padrone. Un gesto a prima vista inspiegabile, ma con una sua coerenza se consideriamo che il giovane sacerdote africano nel ricordare il proprio essere stato schiavo poteva ribadire «l’identità cristiana come una liberazione e non come un tradimento», e così «riconciliarsi simbolicamente con la propria gente, con la propria famiglia, con le proprie origini» [2] .

    La schiavitù, nelle società precapitalistiche, era piuttosto diffusa, a differenza del lavoro libero salariato, che in passato «è sempre rimasto un fenomeno discontinuo ( spasmodic), casuale, marginale» [3] . Nel corso dei secoli, lo sfruttamento ha assunto diverse forme. Lo storico Jan Lucassen ne individua tre principali: quella privata su piccola scala; quella privata su larga scala; quella statale su larga scala [4] . La più facilmente riconoscibile e tipica forma di schiavitù è la seconda, legata alle tratte atlantiche e alla più nota tra le organizzazioni del lavoro schiaviste, quella della piantagione.

    La tratta è la prima fase del sistema schiavista e consiste nel reperimento forzato di nuova forza-lavoro. Gli uomini ridotti in schiavitù in Africa subsahariana venivano trasportati dalla loro terra al luogo in cui sarebbero stati venduti e avrebbero dovuto lavorare come schiavi. La distanza delle tratte, lunga come un oceano o anche molto breve, era comunque rilevante nel marcare una dissociazione, nell’uomo reso schiavo, tra la sua vita precedente, da libero nella terra d’origine, e il suo futuro di schiavo [5] .

    Il tema delle tratte di schiavitù dei neri e della loro abolizione è ad oggi uno dei più frequentati, nel vasto campo della global history [6] . L’interesse storiografico si spiega facilmente, dal momento che esse hanno riguardato quattro continenti (Africa, Europa, America, Asia) e sono state centrali nello sviluppo del mondo moderno. Circa 11/12 milioni di neri africani furono trasportati come schiavi nella tratta atlantica, per mano per lo più di mercanti europei, tra il 1450 e il 1850 [7] ; intorno ai 17 milioni caddero vittime delle cosiddette tratte arabe, transahariane o orientali, tra il VII e il XX secolo; approssimativamente 14 milioni nelle tratte interne all’Africa centrale stessa in un periodo di tempo molto lungo e non facilmente precisabile [8] .

    La lotta alle tratte e alla schiavitù fu una rivoluzione dai molti volti, con rapide accelerazioni ma anche alcune brusche retromarce. Il movimento abolizionista tuttavia, sorto intorno al XVIII secolo in Occidente, si diffuse lentamente ma inesorabilmente, divenendo «una delle prime, se non la prima, organizzazioni concepite su scala internazionale […] al di sopra dei singoli stati» [9] .


    [1] D.P.D. Sorur, Che cosa sono i negri, ACR, A/30, 2.1-8, p. 89.

    [2] F. De Giorgi, Tra Africa ed Europa: Daniele Sorur Pharim Den, in «Archivio Comboniano», XLII, 2004, 1, p. 82.

    [3] M. Van der Linden, The origins, spread and normalization of free wage labour, in Free and unfree labour – The debate continues, ed. by T. Brass e M. Van der Linden, Peter Lang, Berne 1997, p. 511.

    [4] J. Lucassen, Free and unfree labour before the Twentieth century a brief overview, in Free and unfree labour – The debate continues, ed. by T. Brass e M. Van der Linden, Peter Lang, Berne 1997, p. 48.

    [5] C Lefebvre, Un esclave a vu le monde : Se déplacer en tant qu’esclave au Soudan central (XIXe siècle), in «Locus, Revista de História», XXXV, 2012, p. 119; O. Pétré-Grenouilleau, Les traites négrières: Essai d’histoire globale, Gallimard, Paris 2004, p. 21.

    [6] O. Pétré-Grenouilleau, Les traites négrières, ou les limites d’une lecture européocentrique, in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», LII, 2005, p. 30; O. Pétré-Grenouilleau, Les traites négrières: Essai d’histoire globale, cit., p. 459.

    [7] Inizialmente soprattutto verso l’Europa e le prime colonie sulle isole atlantiche, poi, dopo il 1492, principalmente verso le Americhe. Cfr. A. Almeida, Les réseaux de la traite ibérique dans l’Atlantique nord (1440-1640), in «Annales», IV, 2008.

    [8] O. Pétré-Grenouilleau, Les traites négrières, ou les limites d’une lecture européocentrique, cit., p. 38.

    [9] M. Dorigny, Les abolitions de l’esclavage, Presses Universitaires de France, Paris 2018, p. 20.

    1. Le tratte atlantiche

    Le tratte atlantiche furono «un’impresa economica e finanziaria di enormi proporzioni» [1] , alla base del commercio triangolare tra Europa-Africa e Americhe. Sono le più note al grande pubblico, probabilmente anche a causa di uno sguardo storiografico ancora orientato da quei paesi occidentali che ne furono i protagonisti [2] .

    Di fronte alle enormi distese di terre americane coltivabili a monocolture intensive, la scelta di utilizzare il lavoro schiavista giunse in qualche modo automatica per i coloni proprietari terrieri. Ciò che non era scontato era da dove ricavare tale manodopera. Gli amerindi alla lunga non si erano rivelati adatti: falcidiati dalle malattie contagiose trasmesse loro dagli europei, spesso non avevano la tenuta fisica per lavori di fatica, tentavano sovente la fuga essendo vicini alle proprie terre d’origine ed infine erano sempre più tutelati dalla Chiesa e dalle corone europee [3] . Così, gli europei si volsero allo sfruttamento degli africani subsahariani, abituati alle condizioni climatiche tropicali, considerati fisicamente più resistenti e forse meno tentati dalla fuga in quanto separati dalle proprie terre d’origine da un oceano [4] . Ciò che ne derivò fu una vera e propria deportazione di massa [5] , di proporzioni tali che autori come Aimé Césaire sono arrivati a parlare dell’America dell’epoca come di un «universo concentrazionario» associabile ai campi di concentramento nazisti [6] .

    Iniziate nel corso del sedicesimo secolo, intorno al 1525-30 per l’America spagnola, al 1570 per quella portoghese e a seguire per le altre [7] , le tratte atlantiche videro il loro apice nel Settecento, quando viaggiò circa il 52% del totale degli schiavi trasportati. L’ultima nave carica di schiavi solcò l’Atlantico nel 1867 [8] . In media circa il 15% dei trasportati moriva per malattia o suicidio durante il viaggio [9] . Per comprendere quanto drammatiche fossero le condizioni del viaggio, basterà pensare alle misure, allora definite umanitarie perché migliorative rispetto a quelle precedenti, che l’Inghilterra impose per legge nel 1799: non più di quattrocento schiavi per nave con soli cinque piedi (un metro e mezzo) di spazio assegnato a ciascuno [10] ! I principali luoghi nei quali i mercanti di schiavi compivano le loro retate erano l’Africa centro-occidentale, Golfo del Benin e del Biafra, Costa d’Oro, Sierra Leone e Senegambia [11] . Gli schiavisti, spesso africani a loro volta [12] , setacciavano le zone interne raccogliendo lunghe carovane di vittime in catene per portarle verso la costa. Qui gli schiavizzati venivano smistati e marchiati a fuoco per il viaggio in mare, imbarcati nei numerosi centri di raccolta costieri in

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