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La Rosa d’inverno
La Rosa d’inverno
La Rosa d’inverno
E-book330 pagine5 ore

La Rosa d’inverno

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Info su questo ebook

Una storia fuori dal tempo. Un misterioso cavaliere bloccato in un convento a causa di un inverno interminabile.

Un racconto di stampo fantasy che indaga su sentimenti ed emozioni nell’odissea della vita, in un continuo muoversi tra religione, logica, razionalità, follia, amore e passione.

L’autore, con uno stile particolare, confeziona un romanzo a tratti trascendentale, con riflessioni profonde scaturite osservando il lento deflusso dell’esistenza umana.

LinguaItaliano
Data di uscita19 dic 2016
ISBN9788856780642
La Rosa d’inverno

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    Anteprima del libro

    La Rosa d’inverno - Romolo Rotondari

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2016 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-8064-2

    I edizione elettronica ottobre 2016

    Prologo

    Nel tempo degli ululati della tundra, una slitta trainata da tre lupi volava veloce lungo una linea di un sentiero. Veloce volava sulla neve con meta ignota. Un branco di lupi tentò l’occasione ma la slitta aveva la sua meta.

    A notte fonda arrivò in una baita perduta, in queste vaste lande d’Indocina. La baita era spoglia, quattro pareti, un tetto e un focolare al centro. Il fumo vagava ovunque nella baita, padrona di se stessa e di ogni anima malcapitata, intossicava la vita. La giovane bimba con i tre lupi entrò e andò dritta davanti al focolare. Vi restò, con i tre lupi, per tutta la notte a vegliare sulla vita. Nella baita vi erano, oltre il focolare, anche due giovani cacciatori, una donna di vecchia data e il custode della baita.

    Al mattino, di buon ora, la giovane bimba era di nuovo in viaggio lungo il filo della vita.

    Nella decrepita baita due anziani cacciatori si svegliarono con dolori che la vecchiaia dona per dispetto. La donna ora una carcassa di ossa giaceva beata nel suo letto di fieno e il custode era agli ultimi attimi della sua penosa vita. Veloce era la pariglia in viaggio, senza meta, senza sosta, senza tregua e senza requiem. Veloce era il Tempo, morto era nella sua ombra. La slitta arrivò in quell’anno senza sosta in una piccola tribù persa nei vasti altopiani della mongolia. La slitta si fermò davanti una Yurta. La bimba pose il primo piede a terra e un pianto di nuovo nato echeggiò nel firmamento. Andò dalla Yurta ed entrò, si avvicinò al bimbo e si sedette a fianco con i tre lupi. Madre e padre con i sui parenti del nuovo nato non diedero anima a questa intrusa. Il bimbo prese con la sua manina la mano della bimba e la bimba degno uno sguardo al nuovo re. Gli occhi della bimba era blu vivo e irradiavano un freddo oltre l’orizzonte del lecito. Appena il bimbo tocco la sua mano gli occhi della bimba divennero due buchi neri e il focolare che ardeva al centro si spense. La famiglia del bimbo fece l’impossibile per rianimare il focolare ma la notte resto gelida in quella Yurta. Il padre diede al nuovo nato il nome di Temüjin un nome che valeva poco che niente, un nulla tra la gente, un nome da deridere. Le risate e beffe dei popoli tramutarono in pianti. Era nato in quella notte il tramonto e la bimba era la sua alba. I fiumi erano ora di sangue, le terre ero ora concimate dai cadaveri. Il regno del bimbo era l’inferno e la bimba il suo paradiso. Il Tempo volava veloce come la slitta. Le orde cavalcavano senza meta, assetate dal nettare della vita inseguivano l’innocenza degli angeli.

    L’acerbo frutto del bene e il male era stato consumato nel Tempo e la bimba era di nuovo in viaggio lungo i meandri della vita alla ricerca del suo frutto.

    L’albero della conoscenza del bene e del male, da quest’albero non devi mangiare, appena ne mangerai, morirai.

    Il sipario di Temüjin si chiuse per la storia e la bimba era di nuovo in viaggio con meta ignota.

    La slitta volava di nuovo lungo le vie degli umani alla ricerca del suo pane quotidiano.

    A primavera inoltrata la pariglia attraverso un villaggio muto per poi solcare in una campagna viva e qui si fermò. La pariglia immobile su un sentiero attorniato da alberi aspettava l’atto. Al bordo di questo sentiero seduto su un sasso un ragazzo osservava malinconicamente questa strana costellazione, una bimba seduta in una slitta che fissava il vuoto che donava l’orizzonte e i tre lupi seduti che aspettavano con ansia un ordine. Il ragazzo dopo un attimo andò dalla slitta alla ricerca di una risposta sulle sue rovinose domande. La bimba, fredda, mai nata e mai morta, gli fece posta. Il giovane non capì subito ma poi accettò l’invito e sali in slitta, si sedette al suo fianco. La bimba girò il capo e lui attratto dal suo buio, gli diede spontaneamente un bacio sulle sue labbra. La sua vita volò veloce e lontano oltre ogni orizzonte. Gli occhi blu vivo della bimba divennero due buchi neri, due voragini ghiotti di vita, ma questa volta era diverso per la bimba, il bacio d’amore di questa vittima era l’origine della sua vita. La bimba diede ordine, e i tre lupi ripresero la corsa verso oriente.

    Capitolo 1

    È autunno, come ogni autunno, dolce e maestoso.

    Un opera d’arte nella sua bellezza, e un dramma nella sua freddezza.

    Siamo nell’anno domini? Ma chi lo sa? Gli anni passano come le stagioni e come le stagioni anche le storie.

    Ma una storia e scritta nel Tempo di nessuno, e questa storia è per coloro che sanno di avere l’Angelus Fuscus in sé. Angelo Ignavo – NERO.

    Questa storia è stata scritta in un’epoca senza epoca, dove il giorno era la notte, e la notte l’abisso del giorno, dove i sogni erano vaghi ricordi e gli incubi il pane quotidiano. Era quell’epoca dove i fanatici inseguivano se stessi e un ombra vagava sulla via crucis.

    Era tardo autunno, a quell’epoca. In quel mitico autunno, là dove la vita fallì e il rumore del mondo ebbe il suo volto pallido, un ombra percorreva le profonde vallate alpine. Lenta era questa malvagia ombra e senza respiro era la speranza.

    Un vento gelido e pungente, marcava solenne la stagione, e poco di buono prometteva in cospetto alla vita.

    Muta cade la vita nella morte.

    Senza amore, senza odio, cade la vita dall’albero.

    Variopinto è al morte per via, con pennello e tavolozza orna l’evento.

    L’ombra senza volto cavalcava un cavallo di razza, bianco puro, come la luce di un mattino di primavera e lento come un’agonia d’amore, il cavallo seguiva l’oscurità. La barda che portava era nera e malandata, stracciata ovunque dal Tempo e sporca di resti umani, marcava l’eternità. Lui era un’ombra di un incubo. Odorava di morte e di sangue e null’altro. Indossava un manto con maniche e cappuccio da frate, nero, sporco e stracciato, ornava il cavallo bianco come le tenebre un lume di una candela. Le sue manopole erano nere ruggine e ammaccate. Chi lo vedeva, vedeva tutt’altro che un nobile cavaliere d’epoca, ma qualcuno o qualcosa venuto dalle viscere umane. L’odio che portava in lui oltrepassava le più tetre fantasie di satana. Era lo specchio di chiunque aveva l’anima sporca, e la fine di ogni speranza per i credenti. Puzzolente di morte la sua anima strisciava tastoni, fredda e silenziosa, chinata dal peso dei suoi peccati, vagava nell’abisso delle anime. Breve detto, si presentava agli occhi dell’umanità cupo e minaccioso.

    Il tutto era ornato da uno spadone a due mani che portava alla schiena. Lo spadone aveva un particolare; la testa di moro superiore, era una mano scheletrica in oro massiccio che teneva un rubino. Questo era faccettato e per quei tempi una rarità.

    Il cavaliere, o quello che ne era rimasto di lui, giunse all’imbrunire della notte a un piccolo paese. Era un paese desolato, con case in pietra ammassate una a ridosso all’altra. Mentre cavalcava lentamente attraverso la via principale vide, senza interesse, alcune donne incappucciate che freneticamente seguivano il loro Tempo. Alcune di esse restarono con lo sguardo fisso su quest’ombra. Altre avvolte da un misterioso e sconosciuto gelo, caddero nel dolore dell’angoscia. Altre ancora tacquero per non attrarre l’attenzione di quest’ombra. E le più indaffarate, non lo degnarono nemmeno di uno sguardo.

    Fuori da questo paese abbandonato incominciò a piovere. Era una pioggia mista a neve, quella neve che cade pesante, come pezzi di lenzuolo inzuppati d’acqua.

    Cavalcava lentamente nel deserto dell’autunno. Più si inoltrava in questa valle stretta e cupa, più la pioggia svaniva per lasciar posto alla neve, e più la neve prendeva possesso della valle, più spariva al cavaliere, l’illusione di poter raggiungere il passo. Dopo un po’ si fermò a contemplare la neve che cadeva dal cielo. Cadeva lenta, come una processione funebre. La lenta danza dei fiocchi onoravano i futuri defunti. Era una vera magia, una cerimonia in suffragio dei viventi intrappolati in questa magica trappola. La morte stava calando dolcemente la sua bianca rete e i cuori dei fanciulli gioivano innocenti davanti al suo altare.

    Era ormai inutile per il cavaliere proseguire e inutile stare lì a contemplare questa magica trappola. Fece dietro fronte. Ogni scelta è penosa e questa era oltre la pena. La vasta solitudine che regnava in lui oltrepassava la desolazione.

    Incombe l’ombra dell’inverno, dolce nella sua freddezza e caldo nel suo evento.

    nulla ora pulsa, solo il sommo silenzio onora l’ora dell’evento.

    A notte fonda arrivò in quel piccolo paese sperduto, dove alcune ore fa aveva visto quelle donne indaffarate ma ora, nulla indicava un’anima viva. Né un lume, né un bisbiglio. Solo lo scroscio della pioggia marcava una vita. Una fredda e umida vita notturna. Scese dal cavallo e andò al portone dove aveva visto entrare e uscire le donne. Batté con vigore contro quel portone massiccio, ma nulla si mosse. Ritentò con più vigore e una piccola finestrella che era situata nel portone si aprì. Un volto di una donna anziana, malamente illuminata da una torcia, si affacciò con aria seccata.

    «Cosa volete a quest’ora?» disse con volgare menefreghismo.

    «Un rifugio per la notte!» rispose irto il cavaliere.

    La donna guardava il cavaliere con occhietti furbi, da piccola strega e chiese con tono aggressivo rendendo l’atmosfera oltre la depressione: «Solo?».

    E lui confuso da questa situazione strana e non abituale esclamò: «Sì… No, ho anche il cavallo!».

    «Uhm» disse la piccola strega seccata.

    La donna si guardò rapidamente intorno. Chiuse in seguito, senza ulteriori commenti, la finestra.

    Il cavaliere sentii qualche mormorio dietro il massiccio portone e poi il rumore che preannunciava l’apertura di questo portone. I grossi cardini scricchiolarono sotto il peso degli anni, mentre faticosamente il pesante portone si apriva.

    Oh che sgorbio disse fra sé il cavaliere. Ne aveva vista di oscenità, ma questo oltrepassava la morale.

    La vecchia donna fece cenno con la torcia di entrare nel cortile. Non disse nulla ma gli indicò dove doveva portare il cavallo. Una figura curva avanzava lentamente nel cortile e la strega dietro ad essa.

    Il cavaliere portò il cavallo in una piccola stalla dove vi era appena posto per due. Una volta sistemato il cavallo tolse la bisaccia e la sella dal dorso del cavallo e lo asciugò rapidamente con del fieno e gliene diede un po’ da mangiare.

    La vecchia era lì, appiccicata come un ombra, brontolava qualcosa, chi sa che cosa, mentre aspettava i comodi di quell’individuo notturno.

    Sistemato il cavallo, la donna lo condusse tra porte e corridoi, per giungere in una cucina perduta in questo labirinto notturno. Lì indicò al cavaliere una sedia e gli fece cenno di sedersi. Il cavaliere mise la sua roba sul tavolo e si sedette. Lei prese una ciotola di legno e andò al focolare ormai spento.

    Solo alcune braccia, lievemente calde, indicavano ancora il passato. Sopra quelle desolate scintille di calore, giaceva un pentolone. La vecchia rimescolò quel poco che c’era ancora e poi attinse senza carità, della minestra.

    Era poca roba, ma fece stranamente felice il cavaliere.

    Ci sono tempi, dove mangi da imperatore e tempi, dove mangi da mendicante. Ma è sempre bello poter mangiare si disse osservando quello strano liquido che ondeggiava nella ciotola.

    Strisciavano silenziosamente i pensieri del cavaliere mentre la vecchia lo guardava curiosa e scettica. Indossava ancora quello straccio di manto, col cappuccio da frate che gli copriva il capo, nascondendo così il suo volto. Quel poco di luce che cera non aveva la forza di schiarire il mistero che custodiva questo inzuppato manto, e questo faceva innervosire la vecchia ma stranamente non di più del lecito. Quasi fosse immune da questo morente. Mangiò e bevve rapidamente sotto quegli sguardi attenti. Una volta finito, la vecchia lo condusse nel fienile, che era situato sopra la stalla.

    «Potete dormire qui!» esclamò veloce come un fulmine.

    Il cavaliere non disse nulla. Avrebbe potuto insistere, per una camera degna del suo rango, non solo la camera, ma avrebbe potuto appropriasi dell’edificio intero con i pezzi d’oro e argento che aveva con sé, ma si accontentò di quello che il destino gli aveva offerto, un umile fienile.

    Il fautore della vita ti dona l’unica speranza nella fede.

    La certezza del fieno ti dona l’unica realtà di una fede persa.

    La sorte è una e unica, l’umiltà davanti la soglia del secondo.

    L’ultimo secondo della tua dannata vita ti dona la certezza di essere solo fieno e null’altro.

    Tolse dalla bisaccia dei vestiti asciutti, si cambiò, porse un po’ ovunque nel buio i sui umidi vestiti e spense con cautela la torcia. Si coricò nel suo nobile letto di fieno, fresco d’estate. Aveva il suo profumo speciale la morte, un profumo di vergine, inconfondibile nei millenni. Per uno di nobile famiglia, era il letto giusto, il letto di Cristo. La culla dello spirito.

    Era di nobile famiglia, con titoli ma niente possedimenti e poteri. Un vagabondo nel tempo degli ululati di Cristo. Veniva dall’oriente ed era diretto da suo fratello che si trovava oltre la muraglia alpina, ma il destino aveva scelto un’altra sorte per colui che non aveva nome, e che non poteva essere nominato per rispetto alla morale e alla decenza.

    Come coperta, oltre il fieno, usò lo stendardo di famiglia. D’accordo, non era così grande da coprirlo tutto, ma almeno fino alle ginocchia arrivava. Come mercenario nobile, era dovere avere con se lo stendardo di famiglia, se si voleva avere dei privilegi in vitto e alloggio presso i possenti signori, altrimenti era meglio essere un cane.

    Si addormentò subito e si svegliò presto. Caliginosa era la sua malvagità ma questa volta aveva dormito, e come aveva dormito, e sognato. Da tanto non aveva dormito così profondamente, e da tanto non aveva sognato. Queste sono notti per anime felici, senza ombre nei loro cuori.

    Era sdraiato su questo letto di nessuno e osservava l’impalcatura del tetto, ovunque l’occhio osservava, vedeva delle pesanti ragnatele.

    Penzolavano cariche dalla polvere, che il Tempo morto le aveva regalate.

    Qua e là, tra queste pesanti lastre di pietra, infiltrava un po’ di luce, senza vita dando un pizzico di tristezza in questa desolata vita.

    Qualcosa si mosse in un angolo e quel qualcosa attirò la sua attenzione.

    «Aha!» esclamò. «Due topi furtivamente in viaggio».

    C’erano tempi in cui li avrebbe cacciati, accoppati e mangiati con gusto, ma non oggi. Sentiva che il destino era dalla sua parte. Si alzò, fece quello che sempre c’era da fare e poi prese la sua roba, e cercò la via per la cucina.

    Di giorno o di notte, due estremi che lo portarono a una tragica conclusione.

    Quale corridoio e quale porta, portano alla retta via? Ma! si disse.

    Prese la prima porta ed entrò proprio là dove non doveva entrare. Nel luogo più proibito per gli esseri maschili, nel locale più sacro e intimo, dove le bellezze più sacre erano libere come al giorno della nascita.

    Fortuna volle che a quest’ora non c’era nessuna delle donne nel locale bagno.

    Girò, aprì, passò, scese qui e là e alla fine si trovò nel cortile.

    «Perfetto, perfetto!» esclamò irritato.

    C’erano circa un piede di neve fresca. Era ormai chiaro e irreversibile per lui: l’attraversata del passo se lo poteva scordare e questa neve era il preludio di un inverno apocalittico. Uno di quelli che capitavano ai soli dannati, perduti, e dimenticati da Dio. Era inspiegabile l’orrore della prima nevicata, eppure era evidente l’evitabile.

    Oh destino, oh Tempo, cosa hai in servo? si disse deluso.

    Andò alla stalla.

    «Vecchio mio!» disse al cavallo.

    Il cavallo girò la testa, e osservò il cavaliere con i suoi enormi occhi.

    «Dove andiamo ora?» disse ancora al cavallo.

    «Bon Di’!» sentì dietro le sue spalle.

    Era quella piccola diavoletta di ieri sera. Questa voce da arrabbiata e incontentabile, la poteva riconoscere ovunque.

    Il cavallo fece cenno di sì col capo e il cavaliere capì che era saggio rimanere qui tra queste donne fino alla primavera. Si girò lentamente. La vide con la luce del giorno e dovette correggere la sua negativa impressione di ieri sera. Non era quello sgorbio che aveva visto con la luce della torcia, ma un’anziana signora piccola, magra e assai nervosa.

    «Oh bella donna, ditemi, chi è la vostra padrona?» chiese alla vecchia.

    Fu un insulto alla sua immagine. La signora lo guardò con quei occhietti, vogliosi di vendetta, eppure il cavaliere voleva, per una volta nella sua vita, essere gentile e non ispido.

    «Chi servite?» chiese di novo il cavaliere.

    «Maria!» esclamò.

    «Maria! Portatemi da lei».

    Seccata rispose alla sua esclamazione: «Maria! È la madre di Cristo, e noi serviamo lei e il signore Dio!».

    «Ah… Dio!» esclamò il cavaliere, e con voce minacciosa aggiunse, «in nome di Dio ho ammazzato donna, in nome di Dio ho strisciato tra le ombre dell’inferno, portatemi da colei che comanda questo harem».

    L’anziana signora lo guardò seccata, e lui aggiunse con voce tonante e l’anima infuocata di odio verso la vita.

    «Sono conosciuto come il furore di Dio. L’innominabile!» come si presentava il cavaliere, parlava da sé.

    La diavoletta fu muta e paralizzata da un segreto. Aveva davanti a sé il diavolo, l’imperatore degli abissi più profondi dell’universo conosciuto. Il suo povero defunto marito aveva partecipato a una crociata alla ricerca del suo figlio, e da lui conobbe la storia e il mito di un cavaliere che veniva nominato, il furore di Dio, l’innominabile. Dalla descrizione che il suo povero defunto marito fece, e vedere ora quest’ombra di fronte a sé fu una rivelazione. Che scherzi del destino. La donna lo guardava con quegli occhietti scuri, nervosamente in movimento alla ricerca del suo volto che era in gran parte nascosto dal pesante cappuccio di frate. Se solo potesse vedere colui che le diede un brivido nell’anima e un raggio di sole nel cuore. Era ferma come un monolite. Lui le si avvicinò, l’abbraccio e le bisbigliò: «Portami da lei».

    La monolite si mosse e lui la seguì. Attraversarono il cortile dove giaceva la neve vergine e immacolata. Camminando in quella soffice neve fu colto da una curiosità infantile. Si voltò a osservare le orme di lei e le sue.

    è speciale l’effetto che fanno le proprie orme; vedere queste orme nella neve, nel fango, nella terra fresca. Orme di un essere umano in un Tempo stabilito e passato, un sigillo per l’eternità.

    Osserva le tue orme. Sono le tue e solo le tue. Sono uniche al mondo. E da esse sai che sei la vita.

    Arrivarono alla porta principale. Entrarono e attraversarono un corridoio per poi svoltare a destra entrando in una sala dove una giovane donna stava lavorando.

    In quel convento vi regnava un gelo viscido e appiccicoso, un ottimo habitat per lui, se non fosse popolato dal suo opposto, da queste strane creature, traditrici dell’umanità.

    Ella si voltò, lo guardò con uno sguardo critico, e poi andò da loro. Bisbigliò brevemente con la diavoletta per poi rivolgere la sua attenzione su di lui. Il cavaliere spiegò la situazione. Propose per la durata del suo soggiorno forzato di lavorare per il vitto e l’alloggio. Ma lei non volle accettare. Il cavaliere scoprì il suo viso dal cappuccio, tolse una manopola, cercò nel taschino del suo manto l’anello e glielo mostrò. L’anello, oltre che un’ornamento era anche un sigillo, con inciso lo stemma di famiglia. Lei lo osservò attentamente e poi accettò mal volentieri la sua proposta.

    «D’accordo cavaliere! Potrà restare fino al giorno in cui il passo sarà di nuovo transitabile» disse la superiora.

    Nessuno in quel momento poteva sapere che l’inverno sarebbe stato un inverno fuori dell’immaginazione umana. Durò oltre maggio.

    Il Tempo può essere corto come lungo. Dipende come pende, e dipende dai punti di vista.

    Un secondo, un solo secondo. Che cosa è un solo secondo!

    Sono l’inizio di una vita, e sono la fine di una vita.

    Sono una vita, e sono una morte.

    Solo un secondo? Un unico secondo?

    La diavoletta lo portò in una camera situata sopra la stalla. Era piccola.

    Un letto con del fieno che fungeva da materasso. Una coperta che ricopriva il fieno e un’altra, per coprirsi. Un davanzale, sopra ad esso, una croce attaccata al muro. Due nicchie e una finestra senza vetro, dove tutto quello che non doveva entrare, entrava.

    Posò la sua roba sul letto poi gli fece ancora vedere dove poteva lavarsi e fare quello che ognuno di noi doveva fare durante la sua vita. Conobbe in seguito anche gli altri locali, la cucina, il refettorio, la piccola cappella, i vari locali, il loro laboratorio e naturalmente la dove non doveva mai e poi mai mettere la sua anima. Nei loro dormitori.

    Dopo il giro d’orientamento ritornò nella sua umile e piccola camera. Tolse dalla bisaccia le sue cose, e un libro. Era un libro con una copertina in cuoio nero ornato con uno strano simbolo in oro, e dei teschi. Questo libro era per lui la vita. Gli era stato donato da un’ombra nella terra santa. In quel luogo, dove nacque il mito della resurrezione, della forza e spirito divino. Un libro sacro e proibito all’umanità, scritto negli albori dell’universo e custodito dagli eletti nel corso del Tempo. Un libro che ti prende ogni persuasione intima di un concetto morale e che porta alla certezza assoluta, escludendo tutti i presupposti del nostro spirito donando nel contesto la forza del razionale. Era un libro che prendeva ogni più immaginabile sogno della vita. Era il libro dell’ordine del Tempo.

    Il contenuto era una forza, un enorme se non assurda forza, in bene o in male. Conoscere e sapere usare tale forza è sacro agli umani.

    La realtà distrugge la vita; la soffoca. Solo i sogni permettono all’umanità di vivere, e sopravvivere nel loro assurdo destino.

    Ah questi sogni umani!

    Veloci sono i sogni. Prendono possesso delle anime e le scagliano nell’euforia.

    Dall’euforia segue l’eccitazione e dall’eccitazione l’esaltazione e dall’esaltazione l’eccesso e dall’eccesso l’esecuzione.

    I cinque E della dannazione.

    Questo libro lo mise in una delle due nicchie. Tolse la croce dal muro e lo pose sul libro. Decisamente i due simboli non andavano d’accordo, uno l’irrazionale e l’altro il razionale, ma la croce era più per i curiosi. Al posto della croce attaccò lo stendardo di famiglia.

    La finestra… a questo buco ci penserò più tardi disse tra sé mentre la osservava con disprezzo.

    Prese la biancheria, quei pochi panni che aveva, e andò alla lavanderia. Pose la sua biancheria sopra un tavolone lungo circa venti piedi e non vedendo nessuno nel locale andò alla ricerca di qualcuno che lo potesse aiutare. Stranamente non trovò in giro nessuno.

    «Sparite tutte!» esclamò stupito.

    Mentre era alla loro ricerca passò dalla cappella e le udì cantare. Cantavano con una passione divina, fuori da ogni norma umana. Non riuscì a resistere alla tentazione ed entrò furtivamente nel loro sacro grembo.

    Vide in un angolino oscuro una sedia. Per fortuna o per destino, si trovava sola, come se stava aspettando da un eternità, un’anima. Pareva messa appositamente lì per lui. Andò cauto alla sedia e si sedette con devoto rispetto. Si era seduto cautamente quasi avesse paura dell’attimo. Regnava uno strano silenzio in questo oscuro angolo dove la poca luce che penetrava attraverso le piccole e anguste finestre non riusciva a dare vita all’ambiente. Cantavano divinamente e il loro alito che si condensava al contatto dell’aria fredda, dava al tutto un tocco di magia. Si fermarono solo brevemente nel loro canto per una preghiera in latino. E poi di nuovo con le loro voci a far vibrare i cuori.

    Oh donne! Soave siete nel canto, dove solo le cupe fredde mura vi ascoltano. Dove eravate, quando le anime condannate avevano bisogno di voi, del vostro canto! Dove eravate, quando la vita perdeva il suo valore! Dove eravate in nome di Dio!.

    Si addormentò e sognò la Palestina. Calda e piena di vita, dove colui che fu crocefisso fu nato.

    Avevano finito la loro messa e nell’uscire notarono la macchia. Avvolto in questo manto col cappuccio che copriva il suo viso, non era un bel spettacolo per coloro che non l’avevano ancora visto e la loro reazione nel vedere questa figura oscura e repellente, fu tutt’altro che rassicurante. Spaventate e in panico, ma rapidamente orientate dalla superiore, tornò la calma. Venne svegliato dalla superiora con degli scossoni. Bruscamente strappato dal suo adorato sogno, il cavaliere si tolse il cappuccio e disse, ignaro sul suo effetto negativo che aveva fatto sulle anime di quei fragili fiori: «Vorrei poter lavare i miei panni, se permettete signora! Poi sono ai vostri ordini».

    «Suor Citta, cavaliere! Siamo suore e siamo in un convento» disse suor Cittae continuò, «Suor Elisabeth! Il cavaliere vorrebbe lavare i suoi panni. Fagli vedere dove può trovare il necessario. Cavaliere! Andate con lei e poi venite da me!» concluse suor Citta leggermente imbarazzata.

    Anche per la superiora era inusuale e scomodo avere tra il suo gregge, anche se temporaneamente un individuo del sesso maschile.

    Il cavaliere si alzò e accompagnato dai bisbigli, seguì la suora.

    Qualcosa in lui stava per morire e qualcosa stava nascendo. Stava obbedendo come un bambino alla sua madre. Una carcassa di anima

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