La cerimonia del caffè: Riflessioni semplici sul vivere e il morire
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Anteprima del libro
La cerimonia del caffè - Michela Morgana
Note
Michela Morgana
LA CERIMONIA DEL CAFFÈ
Riflessioni semplici sul vivere e il morire
© 2021 Psiche Srl, Milano
Edizione: marzo 2021
ISBN: 9788832183122
Psiche Srl
Viale Abruzzi, 4 - 20131 Milano
Tel.(+39) 3921511536
e-mail: direzione@psichesrl.com
I libri di Psiche Srl sono disponibili qui:
http://www.psichesrl.com
Immagine di copertina di Michela Morgana
A Giacomo, dal quale non smetto mai di imparare, anche se non lo sa.
A chi non smette mai di imparare, miei compagni di viaggio.
Prefazione
Sono trascorsi dieci anni dalla pubblicazione di Il fango e il loto, e oggi Michela Morgana ritorna con La cerimonia del caffè a testimoniarci il suo percorso interiore di un decennio, nel quale la sua Spiritualità si è espansa in vari campi del sapere, sollecitando in lei riflessioni profonde di cui ci rende partecipi. Mettendo a confronto il sottotitolo del primo, Piccolo prontuario di riflessioni psico-buddhiste ad uso quotidiano (e qualche riflessione un po’ più ardita), con quello del secondo, Riflessioni semplici sul vivere e il morire, sembrerebbe che il percorso sia stato tutt’altro che teso verso la profondità, ma non è così.
L’etimologia della parola semplice
ci viene in aiuto. Leggiamo sul sito Una parola al giorno
https://unaparolaalgiorno.it/significato/semplice
Semplice
[...]
ETIMOLOGIA: dal latino simplex, composto dalla radice sem- uno solo
e da quella di plectere piegare
. Piegato una sola volta
.
[...]
L’etimo ci dice che il semplice non è un origami, piegato mille volte in maniera studiata: invece è qualcosa di piegato una sola volta. Ma perché l'immagine fondamentale dovrebbe essere quella del piegato-una-volta-sola e non invece quella del non-piegato? Parrebbe più logico. Ma questa immagine della piega singola è molto eloquente: il semplice non è qualcosa di già squadernato, palese, che si capisce da sé, senza alcuno sforzo. Il semplice è qualcosa che non è difficile da aprire alla propria conoscenza, ma che appunto va aperto.
[...]
Un messaggio semplice è pronto alla comprensione, ma è pronto alla comprensione di chi lo vuole intendere.
[...]
Forse è in questo senso che è da rivalutare l’apprezzamento delle cose semplici
, come è uso dire, siano esse piaceri, sentimenti, abitudini: per esercitare la comprensione, per intendere il segreto delle pieghe del mondo. (E se non sai aprire un foglio piegato a metà non potrai mai capire come si fa un origami.)
[corsivi e grassetto miei]
In un seminario tenuto a Bruxelles a un congresso sulla terapia multifamiliare, il mio amico Riccardo Canova, profondo conoscitore di questa tecnica e della teoria che ne è alla base, ha introdotto la sua relazione chiarendo la differenza tra le parole complesso
e complicato
. La preposizione latina cum con
accomuna i due termini, ma l’uno la associa al plexus intreccio
, l’altro al plectere piegare
, che già abbiamo conosciuto poco più sopra nell’etimologia di semplice
. L’intreccio è costitutivo del problema e dunque va colto per avviare un’ipotesi di soluzione, le pieghe
sono invece l’espressione di un modo in cui il pensiero può procedere, e possono sovrapporsi l’una all’altra e quindi complicare
il processo, allontanando sempre più la possibilità di vedere una soluzione.
La parola complesso
mi evoca un aforisma di Oscar Wilde che Stefano Bolognini pone all’inizio del suo bellissimo libro L’empatia psicoanalitica (Bollati Boringhieri, Torino, 2002).
Per ogni problema complesso
c’è sempre una soluzione semplice.
Che è sbagliata.
Oscar Wilde
Riferendosi alla complessità l’idea di una soluzione semplice
è, come giustamente sottolinea Bolognini citando Oscar Wilde, fuorviante, perché elude il plexus
, l’intreccio costitutivo del problema. Ma riferendosi invece al plectere, al ripiegare
, che così frequentemente caratterizza il pensiero umano, l’idea di semplice
si pone nella prospettiva di voler sì aprire un discorso, ma cogliendo la sua piega
senza creare ulteriori complicazioni
.
La semplicità
delle riflessioni di Michela Morgana risiede nella sua capacità di andare all’origine dei problemi, cogliendone l’intreccio, il plexus, che ne costituisce l’essenza, e mantenendosi in una linearità di pensiero che evita di creare pieghe
non necessarie, che possono creare i cosiddetti labirinti della mente
, dai quali è difficile uscire, perché portano lontano, sì, ma da se stessi.
E in questo modo ci offre un’opportunità di conoscenza interiore essenziale
e per questo al tempo stesso semplice e profonda.
Roberto Carnevali
Ringraziamenti
Grazie a mio figlio Giacomo, che mi conduce e ispira a essere ciò che sono.
Grazie a mio padre Roberto, che mi ha insegnato a meditare portandomi a pescare, che ha sopportato la mia saccenteria giovanile, permettendomi di sbagliare continuando ad amarmi.
Grazie a mia madre Elisa, che mi ha insegnato la difficile semplicità e la tenacia dell’amore.
Grazie a mia sorella Mariateresa e mio fratello Massimiliano, Teri e Max
, così diversi e così Morgana
, insieme a me.
Grazie a mio marito Mario Miglietta, perché c’è.
Grazie a Giovanna Arrigo e Demostene Tartaro.
Grazie alle Maestre e ai Maestri del Dharma, agli amici del sangha Shinnyo, per la condivisione del cammino, in particolare grazie al reverendo Shitara Minoru, che dalla sua giapponesità con pazienza mi guida rispettando la mia italianità, e alla reverenda Naomi Visconti, intelligente e sensibile interprete e traduttrice dal giapponese all’italiano e viceversa, ponte vivente tra Oriente e Occidente; grazie a Mariko Hasumi, Sabrina Fraschini, Perla Ionescu, Daniela Maddalena, Elisabetta Maieron, Elisabetta Vitello.
Grazie agli amici, ai colleghi, ai pazienti, da tutti ricevo e imparo, anche in modo arduo, ma sempre significativo. In particolare grazie a Marina Amore, Ilaria Baldini, Letizia Bellaviti, Candida Cilli, Gabriella Fantini, Ugo Fasani, Carla Gianotti, Cesare Marangiello, Lorenza Morandotti, Sabrina Nervi, Silvia Pisante, Akim Rusu, Cristina Servello, Elena Vitali, Lia Zanin. Con loro vivere e lavorare è più luminoso.
Grazie a Maura Driussi che in ogni momento significativo per la mia famiglia è stata affettuosamente e professionalmente partecipe con l’arte dei fiori, e grazie a Patrizia Maschio che per professione e amicizia ha creato delicati gioielli che hanno veicolato il mio affetto per persone a me care.
Grazie a Emanuele Tomasini, la cui presenza mi motiva a non desistere dall’espormi nel comunicare e nello scrivere.
Grazie a Paolo Lagazzi, fine e poliedrico intellettuale che sa rimanere leggero nonostante il peso della sua vasta cultura. Con sua moglie Daniela Tomerini è un amico e un condomino che rende il vicinato davvero buono.
Grazie a Roberto Carnevali, amico prima che editore, incredibilmente instancabile e generoso di sé e del suo tempo. La versione finale di questo lavoro non sarebbe quella che è senza la sua cura, attenta e sempre affettuosa. Per i limiti ancora presenti, mia è la responsabilità.
Grazie a Claudio Iacono, continuo a sentirne la presenza pur soffrendo la sua mancanza terrena. Grazie a tutti i miei morti, ciascuno di loro sa perché.
Un grazie anche ai miei due gatti, Frida e Max, alle piante del mio balcone e del giardinetto condominiale, senza di loro la mia vita ritirata non sarebbe la stessa e il periodo di confinamento durante l’emergenza covid19 sarebbero stato meno sereno.
Infine grazie ai lettori, che se sono arrivati sin qui, qualunque valutazione diano del mio lavoro, mi hanno comunque dedicato il loro tempo.
Introduzione
Sono passati ormai diversi anni dall’uscita de Il fango e il loto, anni intensi, pieni di avvenimenti sul piano nazionale e internazionale, anni di pratica professionale, di studio, di pratica buddhista e di vita, anni di gioie e dolori personali e di quanti mi circondano, che direttamente, o anche se solo indirettamente, mi riguardano, di perdite ed addii, di nuovi incontri, anni del conservare e proteggere e del lasciar andare ciò che va lasciato andare, del fare spazio a nuove, diverse acquisizioni, del dare luce ai giovani che avanzano, imparando ad apprezzare la discreta bellezza dell’ombra, la morbidezza del mio autunno, cercando di renderlo dono fecondo, come le foglie che si accendono di caldi colori nell’aria che si raffredda per poi cadere e nutrire la terra, in un ciclo continuo di senso e di bellezza, grata per quanto ancora posso imparare e ricevere, da molti, anche da quei giovani che mi fanno desiderare di dare.
Sul finire della stesura di questo testo, è scoppiato il Covid-19 che ha impattato in modo drammatico sulle nostre vite, in Italia e in ogni parte del mondo. Questo ha reso necessario aggiornare e integrare alcune riflessioni che tengono conto dell’impatto massiccio che questo virus e le sue conseguenze hanno avuto sul tessuto sociale e sulla psiche collettiva, oltre che per i vissuti soggettivi di ciascuno.
È da questo punto della mia vita e del mio sentire che presento questo mio lavoro di scrittura, frutto del mio peregrinare tra letture varie e molteplici, riflessioni solitarie e condivise, delle varie forme d’arte che mi hanno consolato, disturbato e provocato, nutrito e ispirato, di tutto il mio vivere di questi anni, come credo sia sempre, implicitamente, per qualunque opera, che non può che contenere l’intero essere del suo autore per poi lasciarselo alle spalle, in una propria, raggiunta autonomia.
Nei capitoli che compongono questa opera percorro il formarsi delle mie riflessioni attraverso quanto ha concorso ad esse attraverso le opere di artisti e pensatori che mi hanno ispirato. Vista la natura saggistica del testo, i primi rimangono spesso più impliciti che non i secondi, ma sono di non minore importanza, anzi spesso ne hanno di maggiore, per l’immediatezza di intuizioni che l’arte offre, quando ci rende possibile contemplare, sentire e comprendere verità che solo la riflessione a seguire può farci capire con l’intelletto.
Siamo in un’epoca di grandi e veloci mutamenti e continuiamo a vivere le nostre vite cercando, come da sempre gli esseri umani fanno, di comprendere gli ancora numerosi misteri della natura, del cosmo e di noi stessi. Dal genio alla persona cosiddetta comune, la ricerca di comprensioni e soluzioni per un buon vivere, personale e collettivo, accompagna l’esistenza di ciascuno. La cerimonia del caffè cerca di essere un luogo simbolico di incontro tra pensieri, talvolta piccoli, semplici, talaltra più complessi e strutturati, ma tutti volti a una maggiore comprensione del nostro esistere. Come il titolo vorrebbe indicare, in una facilmente riconoscibile risonanza con la ben nota cerimonia del tè, c’è il desiderio di rendere conto tanto all’Oriente nel suo essermi maestro di pensiero e pratica, soprattutto grazie al buddhismo, quanto all’Occidente, nel quale sono nata e cresciuta, in cui vivo e in cui verosimilmente morirò, per essermi fondamento esistenziale, legata ad esso dalla mia storia personale e da quella dei miei antenati. Come noto il caffè in Occidente non è solo una bevanda, ma è anche un luogo di incontro e confronto, facilita la socialità e la condivisione di esperienze, pensieri, emozioni. Luogo di incontro informale e proprio per questo libero, elastico, potenzialmente fucina di anche grandi espressioni di pensiero, tanto da aver dato vita nel settecento italiano alla famosa rivista dei fratelli Verri che ne aveva il nome mentre oggi è presente come rubrica di un famoso quotidiano italiano. Luogo dunque reale e simbolico che qui propongo come amichevole.
Il frutto degli incontri (con persone, testi, video, conferenze, mostre e ogni altro arricchimento di cui ho beneficiato in questi anni) e del riflettere, diventa oggi in qualche misura questa nuova proposta di condivisione sui temi del vivere e del morire. Condivisione semplice, senza pretese, sintetica, nella mia misura, ma meditata, curata e offerta amichevolmente, così come auspico che punti di vista differenti dai miei e critiche mi venissero mosse nel medesimo spirito o almeno civilmente.
Ogni capitolo del libro può essere letto in modo autonomo rispetto agli altri, non necessariamente in modo consequenziale, anche se io propongo un ordine di lettura, e alcune riflessioni possono ritrovarsi in più di un capitolo, per come sono legate al tema affrontato. Può quindi accadere di imbattersi più di una volta in uno stesso tema, trattato in modo più o meno esteso a seconda dei capitoli, e da angolature differenti. Per cominciare vengono esposte riflessioni su soggettività e intersoggettività, corpo e psiche, preliminari al prosieguo degli altri argomenti trattati. Il secondo capitolo è dedicato ai generi, all’essere donna o uomo e alle implicazioni soggettive che questo dato biologico comporta all’interno di una cultura e di una società, alla luce anche di quanto biologia, psicologia e cultura, anche religiosa e spirituale, possano essere o meno allineate tra loro su questo tema. Questi primi due capitoli sono in una certa misura una ripresa e un ampliamento di quanto affrontato ne Il fango e il loto, in particolare quello sui generi, tema solo nuclearmente posto all’attenzione in quell’opera e che in questa trova maggiore dispiegamento di riflessioni. Segue il capitolo terzo quale intermezzo orientale con la rivisitazione della figura di Yasodhara, moglie del Buddha Sakyamuni, da un punto di vista femminile e femminista, in un ampliamento delle riflessioni sul femminile espresse nel secondo capitolo e qui riprese attraverso la lente della spiritualità buddhista.
Su basi ancora prevalentemente bio-psicologiche, il quarto capitolo apre a una riflessione sul rapporto tra psicologia, psicoterapia e spiritualità, non solo dal punto di vista del rapporto tra buddhismo e psicologia occidentale, come già espresso più specificamente ne Il fango e il loto, ma in un senso più ampio e generale che abbraccia sia la dimensione religiosa che quella laica e atea che si possono trovare nelle diverse posizioni di studiosi, clinici, scienziati, e degli esseri umani in generale, con un occhio che guarda in particolare all’approccio occidentale alla spiritualità e alle sue problematiche, per poi aprirsi all’Oriente, nel capitolo sesto. Nel quarto capitolo viene inoltre introdotta una riflessione sulla morte che viene poi proseguita e maggiormente approfondita nel capitolo seguente, focalizzato sul lutto, la morte e il morire. Nel sesto capitolo viene offerto uno sguardo su come viene intesa e vissuta la morte nel buddhismo esoterico Shingon e Shinnyo. Con la diaspora dei lama e dei buddhisti tibetani dato dall’invasione del Tibet ad opera della Cina, c’è stata una forte diffusione degli insegnamenti del buddhismo tibetano anche in Occidente, tanto che è ormai famoso, almeno come titolo, Il libro tibetano dei morti. Pur essendo il buddhismo tibetano molto importante, non è l’unico, esso appartiene al filone mahayana e all’interno di questo segue la via vajrayana, ha cioè, oltre a quelli essoterici, una parte di insegnamenti esoterici, molti dei quali riguardano proprio la morte. Al buddhismo esoterico appartengono il buddhismo tibetano, le scuole Tendai, Shingon e Shinnyo, queste ultime tre attualmente radicate in Giappone. Ricordiamo che tutte le scuole buddhiste seguono linee di trasmissione che riconducono al Buddha storico, al Buddha Sakyamuni, e che ogni scuola pone al proprio centro un particolare aspetto dell’Insegnamento del Buddha (un particolare sutra dell’intero canone) rispetto agli altri. Mi sono dilungata con questa premessa per contestualizzare e spiegare la scelta di offrire un punto di vista sulla vita e sulla morte legato a scuole buddhiste meno note in Occidente e in particolare in Italia, seppur con numerosissimi discepoli in Oriente e una lunga e solida tradizione, piuttosto che presentare insegnamenti sulla morte molto più facilmente reperibili del ben più noto buddhismo tibetano. Solo un unico testo è infatti oggi disponibile in italiano su quanto propongo alla lettura e solo sullo Shingon, così da rendermi particolarmente caro questo capitolo pur breve, prima pubblicazione di questo genere in lingua italiana, a mio sapere.
Il libro procede con un capitolo sugli stati della mente e sulle pratiche ad essi associati, quali la mindfulness, la meditazione e l’ipnosi, viste nelle loro similitudini e differenze.
Nota sul linguaggio.
Per non appesantire il testo, ho scelto di non declinare sempre sia al maschile che al femminile soggetti e pronomi dei periodi, ma solo nei casi in cui ho ritenuto di particolare incisività non trascurare questa specificazione. Per questioni estetiche confesso di non amare molto la soluzione e/i riferita ai plurali che vogliono contenere e specificare sia il femminile che il maschile (es. bambine/i), e ancor meno mi soddisfa il pratico, forse efficace ma per me brutto uso dell’asterisco. Va dunque inteso che con l’uso del maschile, quando non specifico per i soli uomini, mi riferisco alla realtà complessiva dell’antropos, seguendo un’abitudine linguistica oggi giustamente messa in discussione ma che ancora utilizzo per fluidità di lettura. Mentre può essere semplice e agile scrivere avvocata, ministra ecc., trovo a volte di inutile pesantezza insistere su questa forma di politicamente corretto. Come testimoniato dal capitolo sui generi, ho molto a cuore la questione femminile e molta stima delle donne e fiducia in loro, che da secoli hanno assunto su di sé la fatica di ritrovarsi e trovarsi uno spazio in linguaggi e pensieri che non le contemplavano, ragione per cui conto sulla loro benevolenza e saggezza nel sentirsi considerate, in questo caso non altrettanto ma persino più degli uomini, che questa elasticità non hanno e spesso ancora faticano ad avere, ad ascoltare e a dar credito alle donne tanto quanto a loro stessi o a voci provenienti dal loro stesso genere (questo ahimè soprattutto in ambito religioso, in cui la predominanza maschile è ancora molto forte).
Capitolo 1
Per cominciare. Brevi riflessioni su soggettività e intersoggettività, corpo e psiche
Vorrei tracciare un quadro di riferimento ecobiopsicologico quale base delle riflessioni specifiche che seguiranno, per poi allargare questa base introducendo la dimensione spirituale. Ed ecco cosa si intende per ecobiopsicologia. La psicosomatica ci ha insegnato il rapporto tra dimensione psichica e dimensione somatica, permettendoci di leggere e comprendere risonanze tra livelli di sofferenza come anche di espressione gioiosa o di altra qualità emotiva, differenti nell’espressione (psichico e somatico) ma congruenti nei significati. Talvolta prevale un polo rispetto all’altro, talvolta la sofferenza si presenta simmetricamente attraverso i due linguaggi, psichico e somatico, talaltra uno dei due poli è silente (o lo è in apparenza, senza marcati sintomi) affidando all’altro l’intera espressione del disagio. Una buona rappresentazione metaforica dell’unità psicosomatica e del rapporto conscio-inconscio ce la offre Jung attraverso l’immagine dello spettro elettromagnetico. Nel suo modello, l’Io corrisponde alla stretta banda di frequenze percepibili dall’occhio umano (banda del visibile) mentre il resto rappresenta l’inconscio. Le lunghezze d’onda vanno dalle più brevi, di frequenza maggiore, chiamate ultravioletto, alle più lunghe, di frequenza minore, chiamate infrarosso. L’intero spettro corrisponde, nella metafora junghiana, al Sé psicosomatico, contenente l’inconscio somatico nella banda dell’infrarosso e l’inconscio psichico nella banda dell’ultravioletto, mentre la banda del visibile è la rappresentazione del dominio dell’Io cosciente. Questa mappa di riferimento ci sarà utile ogniqualvolta dovremo spostarci da un livello di realtà a un altro per seguire il filo di significato che lega l’espressione del Sé di una persona, nella sanità come nelle manifestazioni sintomatiche, solo a una visione superficiale, scollegata dalla psiche. Reciprocamente, vediamo come la psiche sia dentro il corpo, imprescindibile da esso (lasciamo per ora da parte lo spirito, prescindibile dalla materia corporea e sulla cui esistenza o meno non c’è accordo e vivace è il dibattito). È utile avere presente anche il concetto di inconscio somatico, perché le manifestazioni del corpo sono, oltre che manifestazioni del complesso rapporto tra soggetto e ambiente (ambiente esso stesso più o meno sano), espressione di contenuti inconsci che non hanno trovato altro modo di esprimersi e elaborarsi (per esempio attraverso il lavoro onirico e in casi fortunati nella sua interpretazione, o attraverso l’espressione artistica, il lavoro, o altro) e perché molte delle funzioni somatiche si svolgono in uno stato di inconsapevolezza del soggetto (mentre alcune attività corporee avvengono per volontà del soggetto, come afferrare un oggetto, molte altre avvengono in modo involontario, totalmente o in gran parte inconscio). Inconscio dunque, sia in senso psichico che somatico, è quanto è stato rimosso dalla coscienza ma anche quanto non ha mai raggiunto il livello di coscienza. L’attività del nostro cervello che possiamo chiamare cosciente si aggira intorno al 5%, dato questo dalle molteplici implicazioni che per ora vengono qui tralasciate. L’importanza dell’inconscio somatico si è resa altresì sempre più evidente negli studi sul trauma che nel corso degli anni si sono arricchiti di sempre maggiori riscontri di quanto emozioni non elaborate possano vivere in modo dissociato nella memoria del corpo.
Corpo e psiche, materia e non materia, cervello e mente, tante sono le questioni che sorgono nel tentativo di dare un senso all’esistenza umana che si svolge tra questi diversi regni e che chiamiamo vita per poi scivolare nella morte, condizione di inesistenza o di altra forma di esistenza a seconda di quale elemento che ci costituisce andiamo a considerare e dei nostri valori di riferimento.
Altro concetto utile al quale fare riferimento è quello di archetipo, inteso in senso psicologico ma visto anche nella sua traduzione sul piano somatico. Accanto al concetto freudiano di inconscio, riguardante il singolo soggetto, Jung, con un linguaggio di più immediata comprensione rispetto agli sviluppi molto articolati del pensiero di Freud al riguardo, contempla