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Parole Discrete
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E-book234 pagine3 ore

Parole Discrete

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Info su questo ebook

Le dolorosissime esperienze di perdita di un proprio caro raccontate direttamente in prima persona da persone in lutto provenienti da ogni parte d'Italia: attraverso la scrittura emerge la capacità di risalire dalle profondità del dolore e sollevare la mente e il cuore da ciò che sembra una strada senza via d'uscita.
In questo volume sono raccolti i testi vincitori dei IV Concorsi Nazionali per racconti autobiografici inediti realizzati dall'Associazione Maria Bianchi nel corso di 10 anni e ora riproposti per offrire un messaggio di speranza attraverso parole sane e riparatrici, capaci di venire in aiuto di ogni lettore.
Il volume contiene le testimonianze inedite, scritte appositamente per l'Associazione, di Enrica Fico, moglie di Michelangelo Antonioni, e Angela Terzani Staude, moglie di Tiziano Terzani.
LinguaItaliano
Data di uscita23 dic 2019
ISBN9788835346432
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    Anteprima del libro

    Parole Discrete - A Cura Di Nicola Ferrari

    Bianchi

    A cura di Nicola Ferrari

    Parole discrete

    Concorso nazionale per testi autobiografici inediti

    Presentazione

    Sono passati dieci anni dall’ultima edizione, la quarta, di Parole discrete, il piccolo, per dimensione editoriale, ma grande volume del Concorso Nazionale di testi autobiografici L’esperienza del lutto, che ci ha messo in contatto con moltissime persone che hanno vissuto tale esperienza e sono riuscite a risalire dalle profondità del loro dolore attraverso il racconto di ciò che hanno provato.

    Per celebrare questo anniversario l’Associazione Maria Bianchi ha deciso di rieditare i testi del concorso a partire dalla prima edizione del 2001 fino all’ultima del 2009 per ribadire quanto siano importanti le parole e urgente la necessità di trovare quelle adatte per raccontare e sciogliere il nodo che tiene imbrigliata la vita di chi soffre.

    Certamente parlare, raccontare, ri-raccontare quanto ci è successo, perché è successo, come ci si sente dopo, sono comportamenti naturali e legittimi, che tuttavia spesso non riescono a essere efficaci per risollevare la mente e il cuore da qualcosa che ci opprime e sembra non mostrare alcuna via di uscita.

    Questo accade perché non sempre le parole che usiamo sono quelle adeguate, anzi spesso si rivelano incapaci di darci aiuto.

    Invece riuscire a trovare quelle adatte, quelle che identificano e vestono il nostro dolore è ciò che ci dà modo di trovare il balsamo che lo possa lenire e che ci aiuti a camminare quasi diritti, come ha scritto Emily Dickinson, sulla strada di una vita nuova seppure ancora a noi sconosciuta.

    La Narrazione Guidata, una modalità concreta che l’Associazione ha individuato per aiutare il processo elaborativo del lutto, può essere la risposta a chi si trova in queste condizioni, capace com’è di farci riemergere dal fondo nel quale ci si sente precipitati grazie a un preciso approccio di elaborazione del lutto. Ciò è possibile anche attraverso la scrittura che consente di riflettere e meditare con calma su ciò che davvero ci serve per catturare dentro di noi le parole, sane e risanatrici, capaci di venire in nostro aiuto.

    E’ quanto riteniamo abbiano fatto coloro che ci hanno inviato i testi che leggerete, che si sono fidati delle loro parole, e anche delle nostre, e ci hanno permesso di diffonderle come messaggio di speranza.

    Licia Cauzzi

    Presidente Associazione Maria Bianchi

    Nota immagini

    I dipinti (nella copertina e all’interno del testo) sono opera di Rina Nasi, una contadina che in età avanzata inizia a dipingere per sconfiggere il ‘male alla testa’.

    Foto dei dipinti: Alberto Laurenzi.

    LA SPADA

    Lo so, non per voluto eroismo

    impugno la scrittura come spada,

    ma per vendetta, sfida, e per amore

    contro quel dio che indifferente

    atomi aggrega e disgrega per gioco.

    La lama separerà di netto

    ciò ch’è fatto per caos o per caso

    da ciò che con pazienza e amore

    gioia e amore costruiscono

    perché duri nel tempo oltre la morte.

    Solo sé vede quel dio che non ha figli.

    Scrivere è esserci, anche per poco,

    prima che il suo dito ci disperda.

    Arnaldo Maravelli

    A Michelangelo Antonioni

    un capolavoro

    PENSANDO A MICHELANGELO PENSO A ME

    Se c’era un uomo che amava la vita, quello è Michelangelo. Onorava la vita, voleva avere il meglio dalla vita, vedere le cose più belle, creare le cose migliori. Voleva essere un uomo giovane, atletico, elegante, colto, innamorato. E ci riusciva. Certo c’erano momenti difficili e tanti, ma si sforzava di vivere una leggerezza che gli permettesse di approfondire la sua ricerca nei sentieri più profondi del suo sentire. Era un artista puro, intuitivo, si affidava al suo istinto, e impegnato, a fare film, quadri, sceneggiature, racconti che fossero i più belli possibile. Eppure un giorno ha deciso di andarsene, di lasciarci, di abbandonare il suo corpo che ormai lo torturava e che non riusciva più a curare. Perdeva la vista. Aveva sopportato eroicamente tutti i malanni che gli erano capitati, anzi aveva fatto della sua malattia, con il mio aiuto, uno strumento di comunicazione con gli altri. Ma non vedere no, per lui sarebbe stato impossibile, ingiusto. Così ha vinto il suo attaccamento alla vita e mi ha detto basta. Io gli dicevo è difficile morire. Lo pensavo veramente. Come era possibile per un uomo così forte, così amato, morire? Ha smesso di mangiare. Ha lentamente smaterializzato il suo corpo fino a farlo diventare vuoto. Così se ne è andato elegantemente, come un uomo saggio, dolcemente per darmi la possibilità di assaporare insieme a lui, lucido, sempre più consapevole, fino alla fine, i momenti più dolci della nostra relazione. La sua morte è stato il suo ultimo atto di coraggio, il suo ultimo capolavoro. Per me l’insegnamento più grande.

    Quel corpo bello ed elegante, vuoto, se ne è andato. Michelangelo no. Risiede nel posto centrale del mio cuore. Fa parte di me quale compagno della mia anima.

    In questo anno senza di lui, dopo 36 anni di vita passati insieme, mi sono concessa di sprofondare nel dolore per la sua perdita. Per la prima volta nella mia vita ho vissuto da sola. E ho sentito. Ho ripercorso, forse all’indietro, la nostra vita insieme e ancora lo sto facendo. Sarebbe bello se potessi arrivare fino alla mia nascita. Sarebbe una vera rinascita. E’ questo che devo fare mi dico tutti i giorni. Vai a vedere chi sei veramente, quello che vuoi, cosa ti fa piacere, dove vuoi respirare, con chi vuoi stare, chi ami, chi non vuoi più nella tua vita, che cosa hai, che cosa hai imparato. Fai della tua vita un progetto di pace, pace con te stessa. Insomma realizzati! Se ho avuto la fortuna di avere un maestro, marito, come Michelangelo e tanti altri esempi magnifici nella mia vita, devo pur prendere questa occasione di vita per essere felice. Il dolore mi ha portato a questo. Ad essere gentile con me stessa. E poi ho una certezza: so amare, so di essere stata molto amata.

    Sono arrivata fin qui, nell’elaborazione del mio lutto. Lo so, è tutto ancora da fare, tutto da ricostruire. Non è questo un buon punto di partenza? Anche io ho un corpo vuoto, anche io ho lasciato morire quella vita, trascorsa con Michelangelo, ho desiderato diventare solo spirito. E che cosa sono allora dopo aver passato una vita accanto a lui? Sono una persona ricca, ma la mia ricchezza è tutta sparsa su un bel prato verde. Ma ne sono consapevole e devo la mia consapevolezza anche a molte persone che mi sono state vicine e che hanno rispetto e amore nei miei confronti. Posso contare su molti che mi fanno sentire la loro presenza, con discrezione.

    Ci sono anche molte persone pronte ad aiutarmi a prendere l’eredità morale di Michelangelo e a svolgere ancora tanto lavoro necessario a sostenere l’opera che ci ha lasciato, a diffondere l’insegnamento che lui stesso ha dovuto conquistare in una vita gloriosa, ma difficile.

    E’ questo il momento di raccogliere la ricchezza sparsa sul prato e preparare le fondamenta per costruire una struttura solida, dentro e fuori di me, che mi faccia stare in piedi da sola. Solo così potrò aspettare che arrivi la luce dell’alba del giorno in cui gusterò il sapore squisito della mia nuova vita.

    Enrica Fico

    PROPRIO ADESSO

    di Marco Pasinetti

    La nonna è morta, inteso proprio nel senso del morire, che arriva il medico e constata il decesso avvenuto, alle nove e dieci della mattina del 14 aprile 2004. Era un giovedì, il giorno in cui al mio paese si fa il mercato e si dice che è il giorno dei matti, ed io, in quel preciso momento in cui mia nonna moriva, stavo facendo la mia colazione di tutte le mattine, espresso

    e brioche alla crema, in un anonimo bar lungo la strada che da dove vivo adesso porta al paese di mia nonna che poi è anche quello dei miei genitori e comunque anche il mio, anche se io non ci vivo più da dodici anni.

    Mi ricordo che sfogliavo velocemente La Gazzetta dello Sport e pensavo che forse mia nonna sarebbe morta proprio in quel momento lì e io sarei arrivato in ritardo perché avevo voluto fare colazione al bar anche quella mattina, anche se mia nonna l’avevo lasciata la sera prima alle nove e mezza esatte e si capiva che, pur se il suo cuore era così forte da destare in me un’ammirazione quasi anatomica, sarebbe morta di certo in poche ore.

    Mi divoravo con questo rammarico in esercizio già sul presente e contemporaneamente continuavo ad avere la solida certezza che lei non sarebbe mai morta, e quindi neanche in quel momento, per le due buone ragioni che non era mai morta nemmeno fino a quel giorno e che aveva, appunto, un cuore che per me – ero stato a guardarlo per ore ed ore, ritirarsi e gonfiarsi ancora quando il resto del corpo era già addormentato sul suo letto –era come un toro ferito ma sempre nero e potentissimo.

    Questo miscuglio ingestibile di sensazioni contrapposte mi permise di bere il mio caffè stando seduto e di sfogliare il giornale ma, insieme, mi costrinse ad una moderata fretta in tutte le operazioni che eseguivo. Il risultato fu che arrivai alla casa della nonna alle nove e un quarto precise, parcheggiai l’auto, salii le scale, aprii la porta d’ingresso che era aperta, e la zia – la zia Silvana, intendo, l’unica vera zia rimastami – mi disse che la nonna era morta da cinque minuti.

    Mia nonna, che io sappia, era stata tre volte in ospedale nella sua vita e non per partorire i quattro figli, due maschi e due femmine, che ha dato a mio nonno Angelo che dei miei quattro è il nonno che purtroppo non ho mai conosciuto. La prima volta che c’era stata doveva essere nel 1979 o nel 1980 - io comunque ero alle elementari e mi ricordo solo che facevo delle lunghe passeggiate nel giardino del grande ospedale ma non mi ricordo se era con lei o se mi facevano passeggiare per non farmi vedere la nonna che non stava bene e soffriva mentre io ero ancora troppo piccolo - quando entrò per un problema ad un orecchio che poi si scoprì che non era proprio solo un problema ma più esattamente quel tipo di problema abbastanza complicato che comunemente definiamo tumore maligno. Quando ritornò a casa l’orecchio non c’era più e le zie a turno venivano a farle la medicazione che da quel momento prese ad essere uno dei riti che battevano il tempo delle mie giornate che, a parte, la scuola e il campetto, trascorrevo quasi interamente a casa di mia nonna.

    La seconda e la terza volta in cui mia nonna fu ricoverata accaddero a circa un anno di distanza l’una dall’altra, nel 2002 e nel 2003. La prima di queste due volte arrivò in ospedale d’urgenza, di domenica, e quando arrivai io lei era piena di tubi e di canali che non si capiva bene se partivano da lei o vi arrivavano e non mi parve affatto cosciente. Siccome lei era una persona così cosciente sempre e affermo che uno dei tre aggettivi che userei per descriverla, anche adesso che è morta da quattordici mesi , è certamente vigile, io pensai che se non mi sembrava cosciente doveva essere morta o sulla strada per diventarlo. In effetti si scoprì che un infarto le aveva fulminato tutt’a un tratto (un tratto che segnava la sua carta millimetrata della vita esattamente al punto anno ottantaquattro e mezzo) un quartino di cuore ma lei dopo una breve immersione nel subcosciente, che era un posto che non le veniva tanto di andarci di suo, ritornò a galla con la solita grinta e si informò anche su quello che le era sfuggito quando era là sotto.

    In quel soggiorno ospedaliero, e anche nel successivo, io ero già abbastanza grande e avevo peraltro a mia volta piena coscienza di quella del tutto peculiare forma di adorazione che nutrivo per mia nonna, così passavo quasi tutti i giorni a trovarla, solo per chiacchierare o anche, se serviva, per imboccarla: se avevo un’ora di tempo nella mia giornata - con la scusa che vivo anche molto vicino all’ospedale – mi portavo là e tante volte penso che una certa camminata che io e mia zia abbiamo fatto con lei una sera di quelle che cominciava ad avere un po’ di forza, sostenendola dai lati mentre andavamo avanti e indietro dal corridoio del reparto, sia un ricordo che non lo puoi dare via per niente e che è uno di quelli che mi fa sembrare tutti i giorni che lei c’è, anche adesso che non c’è più.

    Il terzo soggiorno, invece, mia nonna entrò per un’infezione alle vie urinarie che le dava forti problemi di respirazione e certe crisi ed uscì che sapevamo che aveva un brutto male al fegato che però, ci disse il medico, nessuno sa quanto tempo ci mette a svilupparsi in una persona così vecchia che le cellule sono davvero stanche di riprodursi e magari uno vive ancora una vita e neanche muore di quel male lì.

    Così, noi, la mia famiglia di sicuro ma credo anche tutti gli altri, ci prendemmo la libertà di credere che lei ci avrebbe dato filo da torcere ancora per un bel po’ e anche se da quel giorno il suo muoversi fu un muoversi dentro la sua casa, anche se mio padre diceva sempre che vedeva che invecchiava, anche se lei stessa diceva sempre che non capiva che cosa aspettasse il Signore a raccoglierla, anche se molte cose insomma, lei andò avanti ancora un anno e così ci facemmo ancora molte belle chiacchierate.

    Appunto: se uno mi chiedesse che cosa mi manca di mia nonna, a parte le cose che comunque già da anni non facevamo più perché io già da anni non ero più un bambinetto, tipo che lei mi cambiava la canottiera sudata dopo un pomeriggio passato a giocare a pallone o che mangiavamo la minestra di latte a cena guardando Orzowei che a casa mia non avrei mai potuto farlo, cioè se uno mi chiede che cosa mi manca delle cose che facevamo ancora quando io ero già grande e fino a una settimana prima che lei morisse davvero, ecco, mi manca che chiacchieravamo bene, ogni volta che io andavo a trovarla, ci mettevamo lì con le nostre tre sedie – una per me, una per lei, una per la sua gamba che era piena di piaghe e lei così la stendeva – e parlavamo di tutte le cose di cui dovevamo parlare, ininterrottamente e senza dire una sola parola in italiano se non proprio quando le dovevo spiegare che cosa stavo studiando all’università e non sapevo proprio come farle capire in dialetto di che cosa si occupava l’epistemologia o che cos’era un’ idea pura.

    Tutto quello di cui dovevamo parlare erano proprio tante cose, ma forse soprattutto che io le raccontavo come tiravo faticosamente avanti con le mie magagne dell’anima e lei mi raccontava di come tirava faticosamente avanti con le sue magagne del corpo e ci facevamo coraggio a vicenda e io sentivo che lei aveva fiducia in me e credeva che ce l’avrei fatta anche se in un modo tutto mio originale (perché lei pensava che io fossi tutto un po’ originale anche solo perché non avevo mai la maglietta stirata o perché mi piaceva viaggiare o perché avevo i capelli troppo lunghi ma, e questo ha sempre fatto la differenza per me e così io le raccontavo tutto senza limiti, non mi faceva sentire troppo giudicato per tutte le mie bizzarie e per le mie scelte ) e lei rideva perché io non le credevo che con tutte quelle magagne lì poi il papà mi diceva che l’aveva trovata ancora sulla scala che spolverava i mobili in alto che, tra l’altro, a me mi sembravano già belli puliti.

    Poi lei diceva che cosa aspettava il Signore a prenderla e io dicevo che avevo visto il Papa di sfuggita in tivù e che mi sembrava che stava molto peggio di lei anche se aveva tre anni in meno perché lui è del Venti e questo tante volte metteva un po’ di pudore nel suo dolore perché il Papa per una come lei era sempre il Papa e le dispiaceva sinceramente che soffriva. E alla fine, in questi casi, io lanciavo la scommessa se moriva prima lei o prima il Papa e lei si scherniva e io puntavo sul Papa che

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