Io Medium: Autobiografia di una vita predestinata
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Anteprima del libro
Io Medium - Sonia Benassi
I morti non sono assenti. Sono esseri invisibili.
Sant’Agostino
Capitolo Primo
Il mio destino è tracciato
Non avevo proprio voglia di andare quella mattina al cimitero. Ma era il 2 novembre, giorno dei morti, e la mamma voleva portare dei crisantemi freschi sulla tomba della nonna. «Sonia preparati che tra dieci minuti usciamo.» mi disse con un fare perentorio che non lasciava nessuna via di scampo se non quella di ubbidire. Scesi dal letto e mi avviai svogliatamente verso il bagno. Il papà era al lavoro e comunque non sarebbe venuto. Lui odia i cimiteri. Dice che là sotto le persone non ci sono più. Si sono trasferite in cielo e quindi era perfettamente inutile andare a pregare sulla tomba di qualcuno; era come andare a suonare il campanello di una casa dove si sa che non ci abita più nessuno. Chi verrà mai ad aprire la porta? Tanto bastava pregare comodamente da casa nostra. Mi sentivo molto in linea con il pensiero di papà anche se non ne sapevo molto di quelle cose. In fondo avevo solo otto anni.
Faceva freddo e minacciava di piovere. «Che brutto mese che è novembre» pensai infastidita mentre mi allacciavo le scarpe con la suola gommata. La mia casa era distante un quarto d’ora a piedi dall’ingresso principale del cimitero Villetta di Parma. Avrei dovuto fare tutto il percorso nell’assoluto silenzio. Sapevo bene che la mamma non avrebbe detto una sola parola per tutto il tragitto, talmente sarebbe stata concentrata a ricordarsi tutte le richieste di aiuto che avrebbe mandato alla nonna Luisa, appena giunti alla tomba.
Il negozio di fiori, davanti all’ingresso del cimitero, era stracolmo di gente. «Chissà quanti affari farà oggi il fioraio… peccato per lui che il giorno dei morti capiti una sola volta all’anno!» mormorai entrando. Dovemmo aspettare un buon quarto d’ora, prima di essere servite, per comprare 15 crisantemi bianchi. Uscimmo tenendoci per mano e imboccammo il vialetto d’ingresso. Il custode del cimitero se ne stava rintanato con una stufetta accesa nel suo sgabuzzino, leggendo La Gazzetta dello sport
, con un paio di occhiali appoggiati sulla punta del naso. Lo chiamavano il guardiano dei morti.
La mamma mi aveva raccontato che non si era mai sposato perché la sua fidanzata era morta di una malattia tanto tempo prima. L’avevano seppellita proprio in quel cimitero e lui aveva fatto domanda per essere assunto come custode.
La ghiaia era fredda e scricchiolava sotto i piedi. Il biancore dei viali dava un’atmosfera solenne al silenzio che dilagava tra le tombe. I monumenti erano imponenti e ricchi di decorazioni e io li osservavo scrutando le foto dei volti dei cari volati in cielo. Famiglie importanti e facoltose della città avevano occupato i punti più in vista del cimitero. «Noi non avremo mai un monumento così, vero mamma?» chiesi, indicando quello di Niccolò Paganini. Lei, con uno sguardo severo, senza pronunciare una sola sillaba, mi tirò vicino a sé aumentando il passo in direzione della tomba della nonna Luisa.
Finalmente imboccammo la stradina della tomba e la mamma lasciò la mia mano per cercare un accendino nella borsa. La prima cosa, che faceva ogni volta, era sempre quella di accendere due grossi ceri bianchi. Io mi misi al suo fianco e chiusi gli occhi per concentrarmi sulla preghiera. Non tanto per l’intensità del momento, quanto per il fatto che non mi ricordavo tutte le parole e non volevo fare brutte figure. Sentivo una leggera brezza alle mie spalle eppure non c’era un alito di vento. Continuavo a tenere gli occhi chiusi mentre la mamma recitava a voce alta le preghiere. Fu proprio in quel momento che avvertii una sensazione mai provata prima. Mi sembrava che i piedi si staccassero da terra e che levitassi. Una leggera vertigine mi fece dondolare. Ero quasi spaventata di una simile straordinaria sensazione e aprii gli occhi all’improvviso. Mi girava la testa e avevo uno strano calore nelle mani. La mamma nel frattempo si era inginocchiata e aveva iniziato le sue suppliche. Io osservavo la foto di nonna Luisa. Era un vecchio primo piano ingiallito dal tempo. Il suo viso era serio e stava guardando altrove, dove nessuno ora poteva vedere. Fu una questione di un attimo e trasalii. Il viso della nonna aveva cambiato espressione e ora mi stava sorridendo guardandomi dritta negli occhi. Abbassai lo sguardo impaurita e mi domandai se mi stesse venendo la febbre. Aspettai qualche secondo prima di guardare la foto nuovamente, poi presi coraggio e ci provai. Nonna Luisa era ancora là, con la stessa espressione di prima, che mi guardava con un’intensità indescrivibile. Non sapevo cosa fare. «Lo devo dire alla mamma» pensai. Ma rinunciai all’idea: come minimo mi avrebbe tirato un ceffone. Respirai profondamente e tornai a guardare la foto. Non era cambiato nulla. Nonna Luisa seguitava a guardarmi sorridendo. Il cuore iniziò a battere più forte ma non provavo paura. Sentivo dentro me che qualcosa stava cambiando. Come se stessi diventando più percettiva, amplificata. Respirai profondamente e cercai di ascoltare il cuore. Avevo solo otto anni, ma il mio destino era già scritto.
La mamma continuava a mormorare parole incomprensibili e teneva gli occhi chiusi. «Chissà se starà sorridendo pure a lei che è sua figlia» pensai con fare obiettivo.
Un uomo, con un lungo cappotto grigio e un cappello nero in testa, sopraggiunse camminando quasi trascinandosi. Teneva in mano dei fiori gialli e si fermò due tombe più in là. Era anziano e indossava dei guanti di pelle e un’ingombrante sciarpa di lana beige intorno al collo. Tossì un paio di volte e iniziò i lavori di pulitura dei vasi che contenevano fiori appassiti da chissà quanto tempo. La mamma aveva finito le sue richieste e si era rialzata. Pareva non avesse scorto nulla di diverso dal solito, poiché seguitava a guardare la foto della nonna senza dire nulla. Eppure io continuavo a vederla sorridente. «Mamma possiamo andare?» domandai sottovoce, spazientita e con tanta voglia di non vedere più la foto. «Ma siamo appena arrivate! Smettila di fare la capricciosa».
Emisi un grugnito, mi voltai e non dissi nulla. Tornai ad osservare l’uomo anziano, che nel frattempo si era alzato e aveva iniziato a pregare. Ad un tratto estrasse dalla tasca un grande fazzoletto e si soffiò il naso: probabilmente stava piangendo. Una giovane donna vestita elegante, sbucata da chissà dove, si avvicinò all’uomo e lo abbracciò, rimanendo alle sue spalle, ma lui non si voltò: era come se non si fosse accorto di quell’abbraccio. Eppure lei continuava con infinito amore a stringerlo forte a sé… e lui seguitava a fare finta di nulla.
«Mamma, perché quel signore fa finta di niente mentre quella donna continua ad abbracciarlo?» domandai indicando l’anziano alla sua destra, incuriosita da un simile strano atteggiamento. La mamma si girò, guardando prima me e poi il signore che stavo indicando. «Sonia ma cosa stai dicendo! Quell’uomo è lì da solo, non c’è nessuna donna che lo sta abbracciando!»
La donna elegante si voltò e mi guardò. Sorrise anche a me. «Ma che cosa mi sta succedendo?» mi domandai, cercando la mano di mia madre. Mi voltai nuovamente a cercare la foto della nonna, quasi a voler confermare a me stessa che non ero impazzita. Anche lei continuava a sorridermi. Adesso erano in due. L’anziano continuava a non rendersi conto di quell’abbraccio così avvolgente. Era come se fosse vestito di uno scafandro e non si accorgesse di nulla.
«Vieni, avvicinati, non avere paura» disse la donna elegante con una voce immensamente dolce. L’avevo udita bene, una voce chiara, nitida. Rimasi qualche istante immobile, indecisa sul da farsi. La mamma era tornata in raccoglimento e non si era accorta di nulla. Come se una calamita mi attirasse in modo potente verso quella direzione, feci qualche passo verso la signora. «Sei una bimba graziosa, sai?» Io le sorrisi quasi imbarazzata. «Tu hai un dono speciale, perché sono poche le persone che ci vedono».
«Ma…»
«Non parlare… pensa quello che vuoi dirmi. Sarà più che sufficiente!» Spalancai gli occhi trattenendo il fiato.
«Non sei impazzita» proseguì la signora elegante «Mi vedi perché esisto anche se in un’altra dimensione».
«Sei in Paradiso?»
«Diciamo di sì! È successo tanto tempo fa. Anche se da queste parti il tempo non esiste. È sempre ‘ora’!»
Toccò con una mano il volto pieno di rughe del suo papà guardandolo con degli occhi che straboccavano di un amore infinito. Ma non soffriva. «Ora, ti prego, puoi ripetere le parole che ti dirò a mio padre?» Rimasi incantata da tanta bellezza e dolcezza nella sua voce. Non potei che annuire. L’uomo si accorse di me e sorrise «Cosa c’è piccola?»
Vi fu un momento che pareva eterno, dove non sapevo cosa fare, perché attendevo di udire ciò che la donna elegante mi avrebbe detto.
«Sii naturale e inizia a ripetere le parole che ti dico, Sonia».
«Conosce anche il mio nome!» pensai.
Lei iniziò a parlare.
«La vita è un gioco, e chi sa giocare deve saper perdere e saper ridere. È una scacchiera, il mondo terreno lo è. Gli esseri umani si sentono grandi, importanti e immortali, ma se si vedessero da qua, dalla nostra dimensione, scoppierebbero in una sana risata».
L’uomo rimase senza parole e mi osservò meravigliato mentre continuavo a ripetere le parole che la donna elegante mi sussurrava. «Abbiamo sempre guardato lo stesso cielo e continueremo a farlo. Tu ci dai la possibilità eterna della felicità. Continuiamo ad esistere proprio perché l’anima respira. Il tuo respiro e il mio, la tua anima e la mia».
«Questa frase del cielo, la disse tante volte mia figlia negli ultimi giorni della sua vita! Come fai a saperla?» mi domandò l’anziano signore, mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime. A quel punto decisi di dire la verità: «Me l’ha detta lei