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Oltre la superficie: Liberare la luce nascosta nelle parole
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Oltre la superficie: Liberare la luce nascosta nelle parole
E-book281 pagine4 ore

Oltre la superficie: Liberare la luce nascosta nelle parole

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Info su questo ebook

Nella rubrica Abitare le parole Nunzio Galantino pratica la scrittura come esercizio spirituale: una ricerca costante che ogni settimana illumina i significati che non vediamo più nelle parole per troppa superficialità o poca cura nel loro uso. Questo libro offre una prospettiva unica sul modo in cui le parole possono trasformare e dare significato alla nostra esperienza. Attraverso una scrittura intima, profonda e coinvolgente, l’autore invita i lettori a scrutare dentro sé stessi e a condividere un profondo legame emotivo. La scrittura diventa così un viaggio spirituale, un esercizio di rispetto per il silenzio e un’opportunità di abbracciare e accogliere le differenze di cui ciascuno di noi è portatore senza giudicare. Una lettura che celebra la bellezza delle parole e il potere dell’immaginazione e della riflessione, spingendo oltre la superficie i confini della comprensione e dell’amore per la vita.


«Abbiamo bisogno di tornare ad abitare le parole. E queste pagine possono sicuramente accompagnarci.»
– dalla prefazione del Card. José Tolentino de Mendonça

«La vera rivoluzione necessaria, nel mondo di oggi, è quella della cura, dell’attenzione. Rileggere, ogni tanto, una pagina di questo libro, ci può accompagnare in questo esercizio.»
– dalla postfazione di Luigi Verdi
LinguaItaliano
Data di uscita24 nov 2023
ISBN9791254842508
Oltre la superficie: Liberare la luce nascosta nelle parole

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    Anteprima del libro

    Oltre la superficie - Nunzio Galantino

    Capitolo 1

    Impronte che restano

    La vita chiama, la vita ci chiama!

    Attitudini, qualità, caratteristiche che servono a far crescere la persona, danno calore e valore alle relazioni e aprono nuove prospettive. Sono proposte e opportunità che si incontrano leggendo questo capitolo. Proposte e opportunità che permettono di crescere e di agire in modo consapevole, che permettono di essere impronte di sostanza. A patto di coglierle, lasciandosi coinvolgere in pieno, in tutte le dimensioni. Lasciandosi sorprendere.

    Ma a renderci uomini e donne nuovi non sono le novità come tali, bensì il volgersi a esse per cogliere con realismo i germi di cui sono portatrici e che possono attecchire nel terreno della nostra vita: ingegno e curiosità, unitamente alla prudenza, costituiscono l’impulso che apre la strada a nuove e impreviste ricerche. Si scopre così che la trasparenza non coincide con l’iperinformazione, piuttosto introduce alla verità.

    Contro le banalità del parlare e della semplificazione si fanno strada la chiarezza, la semplicità, la lealtà. La chiarezza che interessa anche il cuore, le emozioni e tutto ciò che riguarda l’esistenza della persona; la semplicità che si esprime attraverso parole, gesti e atteggiamenti sobri, trasparenti ed eleganti; la lealtà che implica l’essere sinceri, non necessariamente accondiscendenti.

    Parole, gesti e atteggiamenti che permettono di affrontare con dignità le sfide della complessità umana. Un richiamo alla libertà nella verità, a vivere pienamente il presente, pensando in grande. Come? Disponendosi alla contaminazione delle idee, dei sentimenti, delle emozioni, con l’unico obiettivo di crescere nella relazione con sé stessi e con gli altri. Aprendosi all’imprevedibilità e intensità di una relazione che si arriva a stabilire con un simile, con un’idea, un progetto, o con la Divinità. Relazione significativa vissuta con gioia: frutto immediato di ampi orizzonti di pensiero coltivati, di lucida flessibilità intellettuale e di sorprendente creatività.

    Facendo spazio alla tenerezza, che spazza via le troppe pesantezze e la troppa polvere che si sono accumulate lungo il nostro cammino.

    Se amiamo la vita, ci viene chiesto di uscire e sporcarci le mani, senza schemi, senza strutture o pregiudizi, ma con spontaneità, gentilezza, eleganza, creatività e immaginazione. Come bambini, ma anche come adulti, protagonisti di nuova innocenza. Senza mai smettere di cercare ciò che preserva l’armonia delle relazioni, il gusto di sognare e la capacità di stupirsi. Senza cercare in maniera ossessiva l’onorabilità esteriore. Piuttosto, considerando l’onore una dimensione interiore, una conquista frutto di impegno, scelta di valori e una buona dose di sacrificio.

    Vento fecondo di novità

    Timore, irrequietezza e attesa che può diventare espansione della vita. Sono questi i sentimenti che normalmente fanno da sfondo emotivo all’irrompere nella storia, individuale o collettiva, di qualcosa che viene percepito, vissuto o conosciuto per la prima volta. Novità è tutto ciò che, in maniera insolita e imprevista, attira la nostra attenzione e, proprio per questo, sollecita una nostra risposta. Il più delle volte, la novità presenta i caratteri di un fuori programma, che disturba equilibri più o meno faticosamente raggiunti, mettendo in crisi anche scelte ritenute, fino a quel momento, ragionevoli.

    Sono tante le modalità di reazione all’esperienza pressoché generalizzata dell’irrompere della novità. All’atteggiamento di chi ama vivere stabilmente al riparo dal nuovo e dall’imprevisto, considerati di per sé minacciosi, si oppone l’atteggiamento di quanti, vivendo in perenne conflitto con la propria storia, coltivano un’apertura indiscriminata alle novità. Sono gli insoddisfatti perenni. Quelli che sono in cerca di novità senza sosta e in maniera compulsiva, tanto che, pur trovandole, non riescono a fermarsi per conoscerle fino in fondo, ad assaporarle e a decidere se farsele appartenere o girarvi alla larga. Questi sono eccessi. Forme quasi patologiche, che però non esauriscono i modi di vivere il diffuso desiderio di novità. Come quello che alimenta il gusto per una nuova conoscenza, oppure come il desiderio di novità mosso dallo stupore per un’emozione provata per la prima volta di fronte a qualcosa o a qualcuno di inedito.

    Per essere tale, la novità non deve necessariamente coincidere con ciò che è originale o moderno. Nuovo è ciò che sorprende e, proprio per questo, mette in moto il desiderio di coglierne i frutti. A sorprendere può essere qualcosa di già sperimentato, qualcuno già incrociato nella propria vita, un libro già letto, una parola già ascoltata. Per cui, a farci uomini e donne nuovi non sono le novità come tali, bensì il volgersi a esse per cogliere con realismo i germi di cui sono portatrici e che possono attecchire nel terreno della nostra vita, senza precludersi nulla.

    In pratica, si impara a coltivare il desiderio di novità vivendo con distaccata consapevolezza l’enfasi che, in alcuni contesti, tende a presentare tutto come sorprendente, fantastico, pazzesco, stupefacente, e che lascia, di fatto, in disparte le novità che hanno la forza di trasformarci davvero.

    Ne era consapevole don P. Mazzolari quando ammoniva: «è saputo che il nuovo non ha mai il rumore della gloria, perché le forze della ricostruzione sono molto lente. L’umanità nuova si farà quando ognuno di noi, nel momento di consapevolezza, prenderà in mano la propria coscienza, si farà uno specchio per poter mettersi in ginocchio per un Confiteor che ci deve rinnovare davanti al mondo e a Cristo». Un gesto – quello invocato dal prete della Bassa mantovana – che, nella sua intensità, ha permesso a tanti uomini e donne di accogliere la novità che porta con sé il vento fecondo della vita.

    Con curiosità oltre il già noto

    È stato G. Galilei, anche attraverso l’apologo raccontato nel Saggiatore (1623), a riscattare definitivamente la curiositas dall’ipoteca negativa che gravava su di essa. A partire già da sant’Agostino, per il quale la curiosità è «bramosia di sperimentare e di conoscere», che distrae dalla conoscenza interiore di sé e di Dio. Quella galileiana è invece l’ottica dell’uomo di scienza. Per il pisano, ingegno e curiosità, unitamente alla prudenza, costituiscono l’impulso che apre la strada a nuove e impreviste ricerche.

    Tra queste due polarità si colloca il modo in cui Dante considera la curiosità. In particolare quella di Ulisse. Al di là delle parole con le quali l’eroe omerico stimola i suoi compagni di avventura, «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza» (Inferno, XXVI, 118-120), la curiosità che spinge Ulisse a oltrepassare le colonne d’Ercole è, secondo il Sommo Poeta, un atto di hybris, molto vicina alla tracotanza e alla superbia. Non la pensa così lo scrittore irlandese J. Joyce. La curiosità che anima il suo Ulysses e lo spinge a oltrepassare le colonne d’Ercole del mondo etico allora riconosciuto, è solo irresistibile passione per la conoscenza e per la ricerca interiore. Tipica dell’uomo moderno che vuole gestire la sua odissea!

    L’etimologia della parola curiosità ci aiuta ad andare oltre e, per certi versi, a valorizzare alcuni aspetti delle interpretazioni sopra ricordate. Curiositas rimanda al latino cura, intesa come sollecitudine e premura. Per questo, persona curiosa è chi affronta la vita senza pregiudizi, spingendosi oltre il già noto, e quindi oltre ciò che appare. La persona curiosa, grazie a una interiore inclinazione a porre e a porsi domande, è aperta a esperienze inedite ed è disponibile a lasciarsi sorprendere e stupire. Come Il fanciullino di G. Pascoli: «[…]a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare»¹. Al contrario di chi, non coltivando una sana curiosità, si condanna da solo alla ripetitività e si preclude la strada a esperienze nuove e costruttive per la propria crescita personale.

    Nella vita è possibile però incontrare anche persone che, per il loro modo di vivere la curiosità, appaiono strane e bizzarre. Succubi di una curiosità petulante, che volge attenzione ed energie verso fronti infecondi piuttosto che far nascere domande di senso. Come quelle che M. de Montaigne riassumeva nella famosa domanda: «Que sais-je?» (Che cosa so? – Essais, I, c. XXVI).

    Coltivare la prima e più importante curiosità di conoscersi sempre meglio, oltre a essere segno di vitalità, è il varco, talvolta tormentato, che apre a domande di qualità su tutto ciò che ci circonda, e spinge a cercare risposte, ovunque esse si trovino. Grazie alla sua natura di comportamento istintivo e di emozione positiva e stimolante, la curiosità unisce, dove l’arroganza saccente divide.

    La cultura della trasparenza

    Forse perché investe i più disparati settori della vita e della società o forse perché la sua mancanza costringe ad assaporare frutti troppo amari, sta di fatto che la parola trasparenza viene sempre più invocata come rimedio magico per neutralizzare tutti i mali che affliggono la società contemporanea. L’ombra, poi, di ideali illuministico-razionalistici porta a guardare con sospetto chiunque, senza negarla, osi nutrire qualche dubbio su una trasparenza considerata alla stregua di un dogma primario; una sorta di panacea assoluta, principio incondizionato per la vita del singolo e della comunità.

    Per la sua complessità, la parola trasparenza va trattata con cura e attenzione, a cominciare dalla etimologia. Trasparenza deriva dal latino medievale transparens, che – composto da trans (attraverso) e parēre (apparire, mostrarsi) – è ciò/colui che consente di vedere, porta alla luce, mostra.

    Come concetto, la parola trasparenza non nasce per esprimere un’esperienza di vita quotidiana, individuale o collettiva. Nasce invece come termine per indicare la proprietà fisico-chimica di alcuni corpi che lasciano passare la luce. Una felice applicazione del concetto di trasparenza la si ritrova in architettura, dove le pareti di vetro sostituiscono i muri. Qui la trasparenza contribuisce a modificare i concetti di esterno e interno, di pubblico e privato.

    Il passaggio successivo è quello che ha fatto della trasparenza una qualità socio-politica, riconoscendole un carattere etico-comportamentale. I. Kant, nella Metafisica dei costumi, distingue il concetto di trasparenza da quello di verità. Dire tutto non vuol dire necessariamente dire il vero. Accanto al carattere positivo della trasparenza, si fa strada anche il suo lato problematico, se non addirittura paradossale. Se ne fa voce F. Nietzsche che, nel saggio Su verità e menzogna in senso extramorale, ritiene impossibile la trasparenza sul piano personale. A impedirla, secondo lo psicoanalista austriaco, è la funzione esercitata dall’inconscio.

    Più radicale è B.-C. Han. Il filosofo di origine sudcoreana, nel saggio La società della trasparenza, ritiene che, soprattutto nelle relazioni, assumere la trasparenza come principio assoluto finisce per mortificare, se non abolire del tutto, alcuni valori portanti dal punto di vista antropologico: il pudore, il bisogno di segretezza e la vergogna, virtù sociali che contribuiscono a tenere in vita le relazioni mantenendole autentiche. I protagonisti della relazione interpersonale non possono esporsi a un obbligo di trasparenza totale. Essi sono essenzialmente inconoscibili e talvolta un mistero a sé stessi, parte di un mondo solo parzialmente conosciuto e conoscibile.

    Sul piano socio-politico, la trasparenza non coincide con l’iperinformazione né con l’ipercomunicazione. Queste sono più vicine alla pornografia che alla verità. La trasparenza che introduce alla verità, pur servendosi di procedure, è garantita solo da sana cultura e da onesto sentire.

    Esercizio di chiarezza con e oltre la ragione

    Sarebbe fuorviante, o almeno limitante, restringere all’oratoria o ad alcuni orientamenti filosofici la ricerca di senso della parola chiarezza. Non basta cioè riconoscere, come fa Quintiliano, che «orationis summa virtus est perspicuitas»: ciò che dà grande valore al discorso è la chiarezza, qui nel senso di comprensibilità.

    La chiarezza nel parlare non garantisce necessariamente la verità di ciò che si sta dicendo. Accanto infatti alla chiarezza, frutto di parole sensate perché esatte e rispettose della complessità del reale, vi è una chiarezza che è solo figlia di semplificazione. Molto più vicina, questa, alla banalità e alla ovvietà che alla verità. È la chiarezza compiacente e compiaciuta dei semplificatori, che non può essere contrastata né con il parlare ermetico né con altrettante semplificazioni.

    La chiarezza che serve fa crescere la persona, dà calore alle relazioni e apre nuove prospettive. È esercizio che coinvolge la persona, in tutte le sue dimensioni.

    Non sarà mai chiara la persona che non vive in maniera equilibrata, non è disposta a spogliarsi della pretesa di superiorità nei confronti degli altri e non possiede una sufficiente conoscenza di ciò che intende trasmettere, del contesto nel quale opera e del livello di apprendimento e di sensibilità dell’interlocutore. Si capisce allora perché si dice che la chiarezza è la virtù di uomini e donne solidi, maturi, rispettosi, competenti e intellettualmente onesti.

    Certo, non si può negare il merito del dibattito che in filosofia si è occupato del concetto di chiarezza, com’è avvenuto da Cartesio a E. Husserl. Per lo più, qui, la chiarezza è stata vista come la nota di tutto ciò che – idea o conoscenza – presenta i caratteri dell’evidenza razionale. Però «la nozione di chiarezza, per nostra disgrazia, pare essere intrinsecamente e fatalmente oscura»² ha scritto il poeta E. Sanguineti. Essa cioè ha bisogno di essere accostata con attenzione e discrezione per coglierne tutta la sua ricchezza. Come ha fatto, ad esempio B. Pascal, noto matematico prima di essere l’autore dei Pensieri. Qui la chiarezza non riguarda solo idee, concetti o conoscenze scientifiche. Vi è una parte dell’uomo che reclama la stessa chiarezza delle idee e delle sue conoscenze. È il vasto e profondo campo dell’esprit de finesse (ed. Brunschvicg, I, 282); è tutto ciò che nell’essere umano va oltre la ragione e oltre le realtà misurabili.

    Non basta avere idee chiare e distinte per essere sicuri di vivere in maniera piena e riuscita. Come non basta raggiungere la conoscenza esatta delle realtà oggetto delle scienze. La chiarezza interessa anche il cuore, le emozioni e tutto ciò che riguarda l’esistenza della persona. Le stesse idee chiare e distinte non saranno mai del tutto tali se non coltivate da uomini e donne disponibili a contaminarle con l’esprit de finesse, cioè con il mondo della interiorità. Quel mondo che costituisce il grembo nel quale maturano consapevolezza, decisione e, talvolta, anche la capacità di rimettersi in cammino dopo che si è fatta l’amara esperienza della caduta.

    Opera semplice dello Spirito

    La complessità che caratterizza la nostra vita, individuale e collettiva, non basta a giustificare l’esiguo spazio e la poca considerazione riservata alla semplicità. Sembra anzi, paradossalmente, che sia proprio il carattere complesso della realtà a suggerire di volgere un’attenzione particolare alla semplicità, che il teologo luterano D. Bonhoeffer riteneva essere «un’opera dello spirito, una delle più grandi»³. Tanto da indicarla come «uno degli scopi essenziali dell’educazione e della formazione culturale»⁴.

    Il campo semantico della parola semplicità ospita molteplici significati. Non è solo sinonimo di facilmente intuibile e privo di complicazioni. Il sostantivo semplicità e l’aggettivo semplice rimandano al latino sem (abbreviazione di semel – una sola volta) e alla radice plek, presente nel verbo plectĕre (allacciare, piegare). Ma c’è anche chi li fa derivare da sin (che sta per sine – senza) e plectĕre. Nel primo caso, è semplice ciò che è piegato una sola volta e che, aperto, può essere conosciuto nella sua essenza; nel secondo, è semplice tutto ciò che è senza alcuna piega.

    La semplicità si esprime attraverso parole, gesti e atteggiamenti sobri, trasparenti ed eleganti. Gli unici che – quando non scadono in semplificazione riduttiva e vuota banalità – permettono di affrontare con dignità le sfide della complessità umana, risultante, come insegna E. Morin, dall’incontro liberante in ciascuno di noi tra «homo sapiens, faber, œconomicus, demens, ludens, mytologicus». Questa complessità può essere attraversata in maniera positiva solo da chi vive la semplicità come conquista e progressivo esercizio di liberazione dall’avvolgente edera che soffoca pensieri, emozioni e sogni possibili.

    Così la semplicità appartiene all’esistenza, in tutte le sue forme. Appartiene a chi non fugge, ma affronta la confusione, la conflittualità e la complessità del reale, decidendo comunque di stabilire relazioni leali e confronti propositivi. La semplicità, dunque, come strada da percorrere per abitare in maniera consapevole la complessità e arrivare a ristabilire il senso dell’essenziale in situazioni di incertezza e di inquietudine. È una sfida tutta da giocare: ascoltando sé stessi e gli altri. Frutto di un cammino interiore, alla ricerca dell’essenziale e della libertà e proiettati oltre l’apparenza, il conformismo, l’ambizione, l’avidità e le maschere indossate a seconda delle convenienze.

    Come tale, la semplicità è un valore, un’arte e una virtù politica. Tanto che conquistarla vuol dire recuperare il senso vero delle parole, la forza trasformante dei gesti e l’imprevedibile creatività dei sentimenti. Parole, gesti e atteggiamenti semplici, non ingenui, sono infatti alla base di relazioni significative e caratterizzano personalità forti, solide e consapevoli dei propri limiti e delle proprie qualità.

    Grazie al suo essere esercizio consapevole di intelligenza e di prudenza, la semplicità mette al riparo da forme di perenne insoddisfazione, alle quali è esposto chi, invece della semplicità, ama coltivare la frenesia dell’apparenza. A differenza di questi, la persona semplice non deve dimostrare niente, se non la verità di quello che è e di quello che fa. Ne era convinto Cicerone quando, nel De oratore (1, 53, 229), ricorda Servio Galba che, sottoposto a giudizio per aver massacrato i Lusitani, non volle essere difeso con orpelli retorici, ma unicamente con la «simplex ratio veritatis».

    Ne era convinta anche A. Merini, che scriveva: «La semplicità è mettersi nudi davanti agli altri […]. Non ci esponiamo mai. //.Perché ci manca la forza di essere uomini, // quella che ci fa accettare i nostri limiti, // che ce li fa comprendere, dandogli senso e trasformandoli in energia, // in forza appunto. // Io amo la semplicità che si accompagna con l’umiltà» (La semplicità).

    Gioiosi orizzonti creativi

    È proprio difficile ricondurre nello stesso campo semantico la gioia che Lucrezio (De rerum natura, II, 1), al sicuro sulla terraferma, dice di provare nel vedere il grande affanno di chi fatica a non lasciarsi risucchiare dalle onde di un mare agitato («magnum alterius spectare laborem») e la gioia che papa Francesco vede come antidoto al «grigio pragmatismo della vita quotidiana [... e] alla psicologia della tomba» (Evangelii gaudium, 83).

    Tra i due modi di percepire e di vivere la gioia c’è la sua impalpabile natura, la sua delicatezza, la sorpresa con la quale essa si affaccia nella nostra vita, ma anche l’imprevedibilità con la quale scompare. L’irrompere di questo stato emotivo non è necessariamente legato a un singolo e preciso evento. Si pone piuttosto al crocevia dell’intimo appagamento di un’attesa, semmai sofferta, o di un desiderio intenso coltivati interiormente e che, senza averne previsti i tempi e definite le modalità, si realizzano. È per questo che, dalla filosofia greca (Socrate e Plotino) all’età tardo antica e medievale, si è intravista una feconda correlazione tra il concetto di gioia e quello di estasi. Entrambe caratterizzate da imprevedibilità e intensità di una relazione interiore che si arriva a stabilire con un’idea, un progetto, un simile o la Divinità.

    L’imprevedibilità e l’intensità tipiche della gioia possono, in alcune circostanze, spingere a ignorare le regole dell’etica e della morale, fino a far emergere anche il lato oscuro e fortemente discutibile di certe manifestazioni della gioia. Quello ricordato in apertura, di Lucrezio, è solo un esempio che rivela il lato oscuro della gioia, come quella che invade chi vede il proprio nemico soccombere o il concorrente annientato. In questi casi, a prevalere, più che l’«estasi della ragione» di schellinghiana memoria, è l’«eclissi della ragione».

    Sempre e comunque la sana e positiva emozione della gioia proietta la persona in una dimensione nuova, fatta soprattutto di relazioni leggere e significative che, proprio per questo, sono capaci di spezzare la fitta trama dei piccoli o grandi egoismi che alimentano una visione miope della vita. Le relazioni di cui si nutre l’esistenza di una persona gioiosa sono, infatti, il frutto immediato di ampi orizzonti di pensiero coltivati, di lucida flessibilità intellettuale e di sorprendente creatività. Con il vantaggio che è raro che la personalità positiva e gioiosa resti intrappolata in maniera irreversibile nei problemi e nelle difficoltà, pur non potendoli stoicamente evitare né volendoli superficialmente eludere.

    La tenera rivoluzione che risana

    «Nascere non basta. È per rinascere che siamo nati. Ogni giorno» (P. Neruda, Nascere non basta).

    Per la filosofa H. Arendt la tradizione occidentale ha fin troppo calcato l’accento sull’essere umano come un essere mortale e non come un essere natale. Come se la nostra società preferisse attribuirsi gli aggettivi legati al lutto e alla perdita anziché aprirsi alla possibilità di un inizio sempre nuovo: «Gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per dare inizio a qualcosa di nuovo»⁶.

    Un inizio sempre nuovo è possibile anche quando tutto intorno a noi sembra testimoniare il contrario, anche quando il pessimismo di cui questo tempo ci ha intriso sembra prevalere con il suo grigiore.

    Nascere, per ognuno, è scampare al naufragio del non esistere, è venire alla luce. È lasciarsi accarezzare e cullare nelle proprie fragilità e nella propria nudità da una infinita tenerezza e dalla possibilità di continuare a immaginare.

    E nascere ancora, nascere sempre, centinaia di volte in una vita, significa accettare di riconoscersi fragili e contemporaneamente tornare alla luce dopo il buio, tornare a vedere la luce, come diciamo di solito quando nasce un bambino. Fragilità, certo: siamo uomini e donne che hanno fame, che provano dolore, che conoscono lo struggimento, che non si adattano, che anelano a un altro mondo perché già lo portano

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