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In viaggio con Alisha
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E-book191 pagine2 ore

In viaggio con Alisha

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Info su questo ebook

Questo romanzo è il racconto di un viaggio che il protagonista compie in sella alla sua Harley Davidson assieme ad Alisha, la figlia quindicenne. Un viaggio in cui sono racchiusi diversi viaggi.
Quello fisico, innanzi tutto: attraversare l'Europa in motocicletta, dall'Italia alla Svezia, con il cielo sempre sopra la testa, che ci sia il sole o cada la pioggia, respirando odori e profumi che solo lo stare in sella a una moto può restituire così vividi e reali.
Ma anche un viaggio interiore: provare emozioni continue, a volte fatte di gioia e libertà, a volte di paure e preoccupazioni. Macinare chilometri in questo modo significa dare valore a ogni momento e a ogni esperienza, più che al desiderio di arrivare. Significa guardarsi dentro e attraversare i propri ricordi, mentre la strada si srotola come un nastro che sembra non finire mai.
E ancora, un viaggio alla scoperta di paesaggi nuovi, di città e quartieri green, realizzati con un approccio innovativo, ecologico, votato alla ricerca di un'armonia con la natura.
E infine, ma più importante di ogni altra cosa, un viaggio per rendere più saldo il rapporto con sua figlia e costruire assieme un ponte che rimarrà per sempre. Per conoscerla di più e per farsi conoscere meglio. Per potersi dire cose mai dette…
Le mani salde sul manubrio, nelle orecchie quel caratteristico rumore di fondo tipico di una Harley che, assieme a quello del vento e della pioggia, diventa la colonna sonora del viaggio stesso…
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2021
ISBN9791220290142
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    In viaggio con Alisha - Giuliano Dall'Ò

    Giuliano Dall’Ò

    IN VIAGGIO CON ALISHA

    © 2021 - - Giuliano Dall’Ò

    In viaggio con Alisha

    Tutti i diritti riservati

    Cura redazionale - - Agenzia Dedalo

    Copertina - - Beatrice Spada

    Impaginazione - - Giorgia Ragona

    Editing - - David Fivoli

    Quando si accende una Harley

    Èil momento più emozionante.

    Un vero e proprio rito che si ripete sempre uguale, eppure sempre diverso, ogni volta che la mia Harley prende vita.

    L’accensione del motore stabilisce l’istante preciso in cui la motocicletta da massa inanimata diventa cosa viva; in quel momento tra lei e il suo biker si stabilisce una sintonia perfetta, quasi una magica fusione di emozioni.

    La mia Harley Davidson, rigorosamente nera, lucida e con le cromature che si sprecano, se ne sta lì. Imponente, con quella sua forma un po’ retrò che fa tanto anni ’50. Se ne sta lì, ferma, inclinata decisamente verso sinistra sul cavalletto laterale, come se da un momento all’altro potesse cadere.

    I modelli di ultima generazione, e lei è uno di questi, hanno una chiave elettronica di prossimità; basta solo avvicinarsi e la creatura, percependo la presenza del suo proprietario, disinserisce automaticamente l’antifurto.

    Ma questo è solo il primo passo.

    Ora occorre ruotare verso destra la manopola centrale, ovviamente cromata, posizionata alla sommità del canotto della forcella. Come per incanto, ecco che la centralina elettronica dà segni di vita.

    Ci accorgiamo che la Harley si è svegliata sia dalle luci degli strumenti, sia dai led colorati che sembra dicano: «Tutto ok».

    Ma ce ne accorgiamo soprattutto per quel rumore particolare che segnala l’attivazione della centralina elettronica: si percepisce distintamente una specie di tac pieno, seguito da un breve sibilo, quasi una nota sapientemente pizzicata su una corda di violino.

    A questo punto, la Harley è pronta per l’accensione del motore. La protagonista di questo racconto è un modello Electra Glide Classic, e per attivarla basta semplicemente premere il pulsante che si trova sulla destra, vicino alla manopola del gas. Viene comodo utilizzare il pollice della mano destra, mentre le altre dita avvolgono la manopola, pronte ad aumentare il numero di giri del motore, assecondando la semplice rotazione del polso.

    La Harley adesso emette un suono particolare, una piccola schioppettata. E la mente vola alle vecchie motociclette, a quello che, per chi non è più giovane, è un nitido ricordo d’infanzia: quelle moto di un’altra epoca, quando si accendevano, emettevano proprio un suono simile.

    Per chi non è avvezzo a questo rituale, un rumore del genere può anche essere fonte di preoccupazione, visto che ricorda quello di una piccola esplosione. Niente paura: è del tutto normale che sia così.

    Anzi, i fortunati possessori di questo gioiello dell’ingegneria americana sono orgogliosi di questo suono così particolare e retrò, che in ogni e dove marca distintamente la presenza di una Harley e del suo biker.

    E se le persone si girano a guardarli scapperà loro un sorriso di soddisfazione, accompagnato da un sottile senso di appagamento; perché in fondo il non passare inosservato è esattamente ciò che pretende chiunque possieda una Harley.

    Quello che segue è il timbro tipico dei motori Harley Davidson. Un suono unico, un rumore melodico, un vero e proprio ritmo. Alcuni sostengono che sia addirittura brevettato.

    Questo suono così particolare è generato dalla sapiente progettazione da parte della casa madre, da sempre, delle marmitte cromate (e sagomate apposta) e del bicilindrico in linea Twin-Cam; un bicilindrico di ben 1449 centimetri cubici, una cilindrata quasi da auto media, e quindi esagerata per una semplice motocicletta. Ma le Harley non sono semplici motociclette.

    Quello delle Harley è un suono pieno che nessun’altra motocicletta al mondo è in grado di emettere: potente, ma allo stesso tempo rassicurante. Un ritmo che ci accompagna per tutto il viaggio, un ritmo che ci rassicura.

    Perché le Harley non sono motociclette concepite per fare numeri come le grandi accelerazioni, le impennate, le gare di velocità da adrenalina… no, niente di tutto questo.

    E chi le sceglie ne è ben consapevole.

    Per alcuni sono eccessivamente pesanti, tuttavia questo difetto, se proprio difetto lo si può e lo si vuole chiamare, è ben poco se paragonato a ciò che riescono a trasmettere a chi ha la fortuna di possederne una: emozione allo stato puro.

    Quando il motore inizia a borbottare, con la Harley ancora sul cavalletto laterale, in folle, viene spontaneo dare un pochino di gas. Lo si fa per liberare altra potenza, e soprattutto per sentire quel rumore, quel ritmo che si sintonizza subito con il battito del proprio cuore.

    Se il motore è al minimo si possono percepire i giri al minuto; quando si accelera, anche di poco, il motore non fa rumore, ma parla. E il movimento sapiente del polso della mano destra sull’acceleratore riesce a fargli fare discorsi interi, con la voce che cambia modulazione in funzione del diverso numero dei giri.

    Il rito dell’accensione a questo punto è concluso.

    Quella che segue è la partenza vera e propria: si sale, sempre dalla parte sinistra, e ci si mette in sella, con i piedi ben piantati a terra. A questo punto, facendo pressione sulla gamba sinistra, si deve raddrizzare il mostro.

    Data la stazza della creatura, chi lo fa per la prima volta teme questo momento, poi però ci si fa l’abitudine. L’importante è mantenere la moto in equilibrio, modificando il suo assetto da inclinato a sinistra a perfettamente verticale con un sapiente bilanciamento del peso; cosa che, una volta presa la mano, si fa in modo quasi automatico, senza grandi sforzi.

    Raggiunta questa posizione geometricamente perfetta, la Harley quasi non pesa più, e i suoi trecentonovanta chili non si sentono per nulla; al contrario, sembra di dominare una piuma.

    Questa ritrovata leggerezza la si apprezza appieno facendo muovere la belva. Per farlo, si tira la leva della frizione (che ad alcuni può sembrare un po’ dura) che c’è alla sinistra del manubrio, poi con il piede si innesca la prima marcia, e ci si accorge che tutto procede per il meglio perché si sente un altro rumore tipico delle Harley. A questo punto, si lascia piano piano la frizione e si dà gas, agendo con molta dolcezza sulla manopola dell’acceleratore.

    Ed ecco che la Harley si muove, lentamente e progressivamente, in funzione del gioco della mano che, senza strappi, opera sulla manopola dell’acceleratore.

    È fatta.

    I quattrocento chili della motocicletta non si sentono davvero più, è come se il mezzo avesse le ali. Solo il motore, il cui suono ci accompagnerà per tutto il viaggio, ci ricorda che si tratta di una moto (anzi, di una Harley), altrimenti sembrerebbe di muoverci su un tappeto volante.

    Si parte!

    Sono circa le nove di mattina del 4 agosto 2010.

    Sto percorrendo l’autostrada Milano-Laghi, quella che porta direttamente al confine con la Svizzera. Il sole è più o meno a est ed il tempo è bello; il cielo è di un azzurro intenso, interrotto a tratti da qualche sparuta nuvola bianca.

    Per fortuna, nonostante sia mercoledì, e quindi una giornata feriale, non c’è molto traffico. Mantengo una velocità di crociera costante, regolando i giri del motore con la manopola dell’acceleratore, con tutta calma.

    Guidare una Harley Davidson avendo fretta di arrivare vorrebbe dire rinunciare a un qualcosa di bello: la vera emozione del viaggiare in motocicletta. Al di sotto dei 100 chilometri all’ora si ha la possibilità di osservare l’ambiente, e quando si attraversano le zone rurali si riescono perfino a respirare gli odori della natura e di ciò che ci circonda, come il profumo dell’erba appena tagliata o della legna accatastata.

    Ma, soprattutto, si può sentire distintamente il suono del motore. È questa la vera colonna sonora del viaggio che si sta facendo, perché le Harley, almeno i modelli più grandi della classe Touring, sono motociclette nate per i grandi viaggi.

    Il parabrezza, ampio e avvolgente (che gli appassionati sanno chiamarsi ali di pipistrello, bat wings per i puristi), devia il flusso dell’aria in modo impeccabile, togliendo ogni fastidio: il rumore dell’aria è quasi impercettibile, e si è completamente protetti; se piove poco le gocce scorrono via, e chi guida rimane asciutto.

    Alisha è seduta dietro di me, e sembra tranquilla. I nostri caschi sono collegati da un sistema di comunicazione, e così riusciamo a scambiarci qualche battuta.

    «Tutto bene?» le chiedo.

    «Sì, grazie. Tutto bene» mi risponde.

    È sempre sintetica, e raramente la sento fare dei lunghi discorsi; ma a me piace stimolarla a parlare, e spero davvero che lo stare insieme per circa un mese possa servire anche a questo.

    «Sei contenta del viaggio?» continuo.

    «Sì, molto.»

    Non insisto, ma dal tono della sua voce mi sembra sincera. Non ho ancora capito a chi dei due piaccia di più l’idea di questo viaggio. Per quanto mi riguarda, è sempre stato un sogno poter viaggiare in motocicletta per molti chilometri, e vorrei che quest’esperienza fosse indimenticabile anche per mia figlia.

    Per l’occasione le ho regalato un completo griffato Harley Davidson. A Milano, in via Niccolini (battezzata Niccolini Street per gli iniziati come me), oltre a esserci dei negozi che vendono i gioielli a due ruote della casa di Milwaukee, ce n’è uno in cui è possibile acquistare anche l’abbigliamento coordinato.

    Un mese fa mi sono recato proprio in quel negozio, e le ho comperato di tutto: un casco nero opaco, con i bordi arancioni; un giubbotto e un paio di stivali; uno scaldacollo e dei guanti. Tutto rigorosamente griffato Harley Davidson.

    Le ho portato gli accessori quando sono andato a trovarla dalla nonna, dove Alisha stava passando le vacanze, e mi è sembrato proprio che li abbia graditi.

    Vestita così sembra un piccolo samurai, anche se il casco, un po’ abbondante come taglia, forse le ingrandisce eccessivamente la testa.

    Intanto, l’autostrada dei Laghi continua a essere libera, e la motocicletta prosegue senza problemi, mantenendo una velocità di crociera moderata. Se non si superano i 100 chilometri all’ora, in sesta marcia, il numero di giri rimane basso, e la sensazione è molto bella: chi viaggia può permettersi di osservare il panorama, di goderselo; un privilegio che dona un’indiscutibile serenità.

    Mentre ammiro il paesaggio ragiono sul fatto che, superato il confine con la Svizzera, a Chiasso, dovremo proseguire per il traforo del San Gottardo e da lì puntare verso la Germania, passando per Lucerna e Basilea.

    Nel programma che mi sono dato, questa sera dovremmo arrivare a Friburgo, una città tedesca che si trova appena dopo il confine svizzero; sono poco più di 400 chilometri e abbiamo tutta la giornata davanti, non ci dovrebbero essere problemi.

    Sarà proprio Friburgo la nostra prima tappa.

    L’obiettivo di questo viaggio è arrivare in Svezia, forse a Uppsala, sede della più importante università svedese. Non abbiamo però un programma dettagliato nei minimi particolari, anche perché è la prima volta che faccio un viaggio così lungo in moto, e voglio lasciare un certo margine all’improvvisazione.

    Le tappe sicure, oltre a Friburgo, saranno Hannover e Malmö. Per quanto riguarda i tempi, il programma è vago: l’intenzione è quella di goderci il viaggio, piuttosto che di arrivare in fretta e furia nei posti prestabiliti.

    Dopo poco meno di un’ora siamo alla frontiera di Chiasso. Nessun controllo; l’unica preoccupazione del doganiere è di farci acquistare la vignetta che consente di andare in autostrada in Svizzera per l’anno nel quale la si paga, senza spendere altri soldi.

    «Ora siamo in Svizzera, appena troviamo una piazzola per fermarci facciamo una piccola sosta, per riposarci un po’» dico ad Alisha.

    «Va bene.»

    Dopo pochi chilometri, nei pressi di Bellinzona, appare un cartello che segnala la presenza di una stazione di servizio; metto la freccia a destra ed entro nel parcheggio.

    Ci sono dei tavoli all’esterno, e ne approfittiamo per sederci e per bere qualcosa. Finalmente ci togliamo il casco, così possiamo parlare liberamente, senza microfoni.

    Guardo mia figlia, e cerco di capire cosa stia provando: «Insomma, la nostra avventura è iniziata! Non avrai mica nostalgia di Milano?».

    «No, nessuna nostalgia. E poi siamo appena partiti! Avevo proprio voglia di fare questo viaggio» risponde lei, sorridendo.

    «Non hai paura di andare in motocicletta?»

    «No, papà, nessuna paura… anche perché di te mi fido, so che sei prudente e che vai piano!»

    Sono davvero felice di essere qui con lei, e che sia proprio lei la persona con cui realizzare questa bella esperienza. Tra me e Alisha non ci sono mai stati grandi discorsi, anche se il nostro legame è sempre stato forte. Penso che sia normale, tra un padre e una figlia. Questo viaggio servirà a passare un bel po’ di tempo assieme, solo io e lei. E, quando sarà finito, potremo dire di aver condiviso una piccola avventura insieme.

    «Papà, questa sera quando arriviamo, dormiamo in tenda?»

    Domanda più che lecita, dal momento che tra i nostri bagagli abbiamo portato una piccola tenda, mai usata prima. Anche questa sarebbe una novità, perché né io e né lei abbiamo mai dormito in tenda oltre a non essere mai stati in campeggio.

    «Vediamo quando arriveremo a Friburgo,

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