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E-book687 pagine10 ore

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Info su questo ebook

Romanzo Cyberpunk scritto a quattro mani dagli Autori.

Nella disastrata Detroit della metà del Ventunesimo Secolo, dilaniata dalla violenza e schiantata da una recessione economica senza pari, il Dipartimento di Polizia ha il suo bel daffare per fronteggiare un'ondata di criminalità resa sempre più feroce ed aggressiva dagli impianti cibernetici di ultima generazione, in grado di trasformare anche un innocuo teppista in una terribile minaccia. Al contempo, anche forme di illegalità tradizionali, come i clan mafiosi, si trovano costretti a scendere a patti con le proprie distorte tradizioni di onore e rispetto per non venire travolti da organizzazioni malavitose sempre più crudeli e senza scrupoli.

In una calda giornata di maggio del 2049, qualcosa sconvolge radicalmente questo precario equilibrio. Due terribili drammi, infatti, irrompono simultaneamente nel panorama metropolitano, due crimini talmente efferati da rischiare di far scoppiare a Detroit una vera e propria guerra civile.

Riusciranno la Psyco-Squad comandata dal Tenente Jacob Tyson ed il Team guidato da Tony Vitalone a venire a capo di un enigma che rischia di scuotere per sempre Detroit?
LinguaItaliano
Data di uscita3 ott 2011
ISBN9788863692327
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    Anteprima del libro

    Cedimento Strutturale - Marco Modugno e Vincenzo Spina

    Alle mamme e ai papà,

    quaggiù e Lassù.

    Proprietà letteraria riservata © 2011

    Prima edizione - Settembre 2011

    OBTORTO COLLO

    Detroit, 26 maggio 2049, ore 10.57

    Il getto d'acqua gelata inonda il lavabo.

    È come infilare le mani nell'azoto liquido.

    La schiuma azzurrina del sapone viene spazzata via, risucchiata dal gorgo vorticoso dello scarico.

    Canticchio in tono sommesso, mentre chiudo il vecchio rubinetto in ottone, lasciando che le ultime gocce scivolino sulla ceramica, inghiottite dalle tubature.

    Se riuscissi a chiudere con altrettanta semplicità un altro rubinetto, quello delle emozioni, potrei riuscire a svolgere il mio dovere senza piangere, soffrire, vomitare o impazzire. Per farcela, dovrei imparare a guardare l'orrore con distacco ma, purtroppo, non è nelle mie corde essere cinico.

    Come era solita ripetere mia madre, cinismo è dare alle cose il disprezzo che meritano.

    Non sono mai riuscito a darle retta.

    Le parole escono dalle mie labbra in autonomia assoluta, meccaniche. Infilo le mani nel ruvido asciugamano, eliminando ogni più piccola stilla di umidità. Sono pulite da ogni macchia, ora. Impeccabilmente linde. Ciò nonostante, mi sento come un maiale che abbia appena terminato di rotolarsi nel fango.

    Non bisbiglio, rantolo.

    Afferro la piccola pezza di lino, sul tavolo. L'ho poggiata lì più di un'ora fa, e là è rimasta, indolente e immota, perché nessuno, a parte me, avrebbe l'ardire di toccarla. È rettangolare, candida, resa croccante dall'appretto. La poso sulle spalle nude, lasciando che mi cinga il collo. Scivolo con le dita lungo i nastri di tessuto, lasciandoli scorrere fra i polpastrelli fino alla punta, e me li annodo attorno alla vita.

    Ancora parole, un flusso ininterrotto.

    Volgo lo sguardo. Piegato sullo schienale della sedia, quel camice di un bianco sfolgorante. Lo indosso con gesti meccanici, prima un braccio e poi l'altro, saggiandone i ricami in rilievo sugli orli delle maniche, serrando la cerniera all'altezza della spalla e sigillando il colletto all'ultimo bottone.

    Odora di pulito.

    Al contrario del mio cuore, che mi pare essere stato appena estratto da una discarica, marcio organo cardiaco, metronomo di una città in odore di putrefazione.

    Biascico a mezza bocca parole che meriterebbero di levarsi con ben altra potenza. Mi accosto alla finestra, sfiorando il velluto rosso dei tendaggi. Poi mi volto di scatto, solleticandomi i palmi sulle soffici nappe, e afferro con forza il cordone di lana. Me lo lego alla vita, così stretto da mozzarmi il fiato.

    Digrigno i denti, ma non allento la presa.

    Il lucido specchio ovale richiama a sé la luce della tarda mattinata. Ho il viso pallido che brilla di un sudore malsano, gli occhi scavati, lo sguardo fisso nel nulla.

    Se mi vestissi di stracci e mi mettessi a passeggiare in un parco, rischierei un arresto per vagabondaggio.

    Vado verso l'armadio. Complemento di arredo all'ultimo grido, con tanto di serratura con riconoscimento delle impronte digitali. Precauzione necessaria, dopo gli ultimi furti ed atti di vandalismo che non risparmiano più alcun luogo. Colpisce l'assenza totale di zone franche, in questo inferno metropolitano.

    Una luce verde lampeggia, uno scatto.

    Spalanco lentamente le tre ante, le scosto a soffietto. All'interno, un arcobaleno di colori, grucce disposte ordinatamente l'una accanto all'altra, permeate di un vago alone di lavanda e vaniglia canforata. Passo in rassegna l'intero guardaroba. Differenze impercettibili al tatto. Scarto subito i colori accesi e le dorature, sebbene sia tentato da quel viola vibrante, già indossato in occasioni simili.

    Tuttavia esito, e mi sposto verso il nero, lucido come pece oleosa.

    Ma ecco, vedo quel che cerco.

    Lo estraggo dall'armadio.

    Di certo scatenerà qualche mormorio polemico, ma penso che sia davvero il colore più adatto.

    Non smetto mai di mormorare parole, un'interminabile catena di vocali e consonanti, sempre uguali a se stesse, dalla notte dei tempi. Il mio giogo non è mai dolce, ed il mio carico nient'affatto leggero. Passo le dita sui ricami del tessuto che scende dritto, dalle spalle sino alle tibie, e poi mi lascio avvolgere dal lino e dalla solitudine.

    Ho finito di parlare e taccio, come un orologio che ha bisogno di essere ricaricato.

    Chi ha coniato il detto secondo cui con il tempo ci si abitua a tutto, non ha mai vissuto a Detroit.

    SOLVE ET REPETE

    20900 Oakwood Boulevard, 23 maggio 2046, ore 14.43

    Chico tirò le tre marce al limite nel tratto in salita. Anche se le sue mani non erano più le schegge fulminee di un tempo, restavano infinitamente più veloci e precise dello sgraziato cambio semiautomatico Chrysler PowerFlite a due velocità.

    Gli occhi, nascosti da una montatura a specchio Eyemaster all'ultima moda, erano calamitati dal doppio tubo di scarico dell'auto che lo precedeva, distante non più di una novantina di centimetri. Il tempo di un vamos e sentì il suo avversario sfilare all'esterno, mentre si buttava giù per la discesa, stupito dal silenzio che accompagnava il nuovo motore V8, soprannominato The Golden Commando per la doratura esterna della testata, in grado di erogare una potenza di oltre trecento cavalli grazie ai due enormi carburatori ad iniezione meccanica.

    Un battito di ciglia e si ritrovò da solo. Davanti a sé quattro secondi di vuoto ed un puntino intermittente. Eccolo il fenomeno, Joe Weatherly, con la sua Pontiac Bonneville rossa e nera. Sfrecciò a pieno gas di fronte ai box. Accalcati sul muretto, i suoi meccanici sembravano in preda ad un'irrefrenabile euforia e si sbracciavano, ebbri di entusiasmo, attorno al cartello con quella fatidica scritta.

    Pilota numero 23, Chico Hernandez, giro più veloce.

    Un miracolo? Forse. Più facile che, su un circuito esasperatamente tecnico come quello di Daytona Beach, costruito talmente a ridosso dell'oceano da coprirsi di sabbia al primo alito di vento, trasformandosi così in una sdrucciolevole pista di pattinaggio, la differenza la facesse l'abitudine del pilota a correre sulle tele.

    Nelle gare clandestine, che Chico frequentava da quando era diventato abbastanza alto da arrivare ai pedali, le slick nuove di pacca si montavano ogni morte di Papa, e solo dopo che un coroner ufficiale avesse accertato al di là d'ogni dubbio ragionevole l'effettivo decesso di Sua Santità.

    Si lanciò di nuovo nel tratto in salita, danzando tra i curvoni, una marcia dietro l'altra. Stava guadagnando terreno su Weatherly, il che era l'ovvia e naturale conseguenza di avere il privilegio di accomodare le chiappe sul cuscino in schiuma espansa del sedile di guida di una Plymouth Fury del 1958. Non una semplice automobile, ma una vera e propria regina del motore a scoppio.

    Scegliere una Chrysler in un fazzoletto d'America ancora dominato dal nostalgico ricordo di Henry Ford era stato un azzardo. A suo parere, tuttavia, passava una bella differenza fra il motto di mister Ford, tutto quello che non c'è non può rompersi , e quello di Walter Chrysler, il celeberrimo the best for less , legato al concetto di automobili sì economiche, ma che offrissero il meglio in fatto di efficienza, longevità e dotazione di accessori, che per altre marche erano esclusivo appannaggio di vetture di lusso.

    Pur avendo avuto la fortuna di poter scegliere in un parco auto quasi illimitato, Chico non aveva esitato un istante. Appassionato di vecchi film e romanzi del secolo precedente, non aveva resistito di fronte alla tentazione di mettersi al volante della sorellina di Christine, celebrata da una pellicola di John Carpenter come dall'omonimo romanzo di Stephen King.

    La Plymouth Fury rappresentava una rivisitazione stilistica dei modelli Savoy e Belvedere, di cui aveva ereditato lo chassis con la consueta verniciatura esterna bianco uovo, le modanature laterali a cuneo e le borchie stampate a raggi sulle ruote.

    Il muso era appesantito da un enorme ed articolato paraurti in acciaio e da due massicci fari sotto le appendici del cofano anteriore. Quello che però realmente la distingueva da ogni altro modello degli anni Cinquanta era il motore. I progettisti della Chrysler, infatti, non si erano limitati a truccare un vecchio propulsore da berlina, come invece era avvenuto in casa Chevrolet e Ford. Avevano incastonato, invece, sotto l'ampio cofano, un vero gioiello. Il mitico V8 da 318 pollici cubici Polyhead, dotato di cammes ad alzata maggiorata, pistoni bombati ad alta compressione e doppio carburatore quadricorpo.

    Solo a pensarci, Chico si lasciò scappare un gemito e fu scosso da un brivido d'eccitazione. Sforzandosi di mantenere la massima concentrazione, scollinò con rabbia, puntando come al solito la prima N del gigantesco tabellone della Panamerican Highway, che esaltava la costruzione del tratto fra Dallas e Minnesota, ma che per lui fungeva soprattutto da riferimento per il cordolo esterno dell'ultima esse che immetteva sul traguardo.

    Quella particolare sezione del tracciato, Chico proprio non riusciva a digerirla del tutto. Occorreva affrontare il tornante entrando in corda, senza allargarsi all'ingresso, per evitare di percorrere svariati metri in eccesso, quindi arrivare in leggero controsterzo al limite del bordo esterno e scaricare infine la terza per affrontare la curva in alto a destra dove, senza visibilità, si doveva alzare il gas e poi ridarlo subito dopo, con l'auto che tendeva ad alleggerirsi in una traversata che poteva essere compensata solo piazzando ben oltre mezza ruota sulla sabbia.

    Una traiettoria troppo complessa, e lui non riusciva a riprodurla in modo impeccabile, il più delle volte.

    Tre giri al termine, due secondi e nove dal primo.

    Quello di cui proprio non riusciva a capacitarsi, pensò, era il sorriso ebete che il tabellone della Panamerican Highway riusciva a strappargli ad ogni passaggio, facendo affiorare una fioca scintilla in un recondito angolo della sua memoria, proprio prima di tirare la micidiale staccata finale. Strinse le mani sul volante della sua Christine, come a volerle far percepire il proprio apprezzamento per la stabilità regalata dalle sospensioni rinforzate e dalle barre antirollio supplementari montate sull'avantreno, decisive per evitare pericolose imbarcate in curva. Derapata, sterzo, controsterzo e giù, ripetizione continua, come un'orchestra che prova un concerto, testa alla perfezione.

    Ancora saliscendi, curve, scalate rabbiose e staccate al limite, per rubare qualche centesimo prezioso.

    Due giri alla fine, un secondo e otto, sui curvoni in salita tutti in piedi.

    Panamerican.

    Nel rettilineo di ritorno, lo scrigno dei ricordi finalmente si scoperchiò.

    Quando lui e Carlos Costa andavano alla scuola secondaria a Monterrey, sedevano assieme nel banco, esattamente dietro a quello di Camila Arriaga, mulattina occhi verdi, il più bel lato B della città. Non c'era storia con lei, se l'era già accalappiata Jorge Alvarez, il Guapo, figlio di un dirigente di una mega corporazione impegnata nel campo delle assicurazioni sulla vita, ma in fondo importava poco. A loro bastava poter godere indisturbati del panorama offerto ai loro occhi ogni volta che la musa si alzava o si protendeva verso i banchi dinanzi a sé.

    La parola d'ordine, Panavision, l'aveva coniata proprio Carlos, ed era il richiamo che alleviava in loro il tedio delle lezioni. Chico si stupì nel notare come se la ricordasse distintamente, quella doppia curva raccordata in maniera perfetta, messa in evidenza da jeans di mezza misura più stretti. Tante volte si era immaginato di sfiorarla e la conosceva a memoria, pur senza averla mai percorsa.

    Doppia, proprio come quella che lo aspettava.

    La Pontiac davanti, ad una manciata di decimi.

    Panamerican.

    Chico intravide attraverso il lunotto Weatherly che girava il capo per ben due volte, stressato dalla tensione, e ne approfittò per entrare strettissimo, lungo i contorni immaginari di quella curva che non era mai stata sua, ritrovandosi quasi affiancato al fenomeno, pronto ad incrociarne la traiettoria in uscita. La maggiore accelerazione della Pontiac l'avrebbe messa di nuovo al sicuro, se per non essere superata, non fosse uscita molto più intraversata del solito. Weatherly se lo vide entrare all'interno a velocità doppia della sua, e cercò di chiuderlo tagliandogli la strada, ma Chico non alzò il piede, centrandolo in pieno contro la fiancata sinistra e spingendolo fuori carreggiata, in una serie di ubriacanti rotazioni a trecentosessanta gradi. La Chrysler scappò via, fino al traguardo. Il numero 23 non vide i commissari festanti, il pubblico impazzito a lanciare petardi, la gente che invadeva la pista, tutte quelle mani da stringere e coppe da ritirare.

    Aveva solo un'immagine negli occhi. Una doppia curva perfetta annunciata da una parola magica. Panavision.

    - Minchia Chico, nessuno aveva mai battuto l'IA di Joe Weatherly! - esclamò Tommy Scala Mottola, stringendogli la mano non appena lo vide uscire dal simulatore di guida 4D della IMAX nell'area ludica del Henry Ford Museum.

    - Ehi, amigo, non stiamo mica parlando di Fangio. Te l'avevo detto che sono il miglior pilota della città, gringo! Sono nato prematuro, dopo soli sette mesi.

    Neppure mia madre è riuscita a starmi dietro! - rispose con un sorriso scintillante, mentre il pubblico accalcato attorno al maxischermo connesso al simulatore lo fissava con ammirazione, complimentandosi con lui tra felicitazioni e applausi.

    Chico Hernandez si specchiò nella vetrina di fronte a sé. Come Al Pacino in un celebre vecchissimo film, anche lui prediligeva tra i peccati quello di vanità.

    Senza ombra di dubbio.

    L'immagine che vide era quella di un uomo piacente, sulla trentina, pelle abbronzata, occhi verdissimi nascosti da lenti antiriflesso e lunghi capelli corvini, lisci e stretti in un codino che sfiorava le spalle. Il fisico atletico, con i muscoli guizzanti diffusi armoniosamente su un metro e novanta, era fasciato da un elegante abito bianco di raso confezionato su misura, con giacca a tre bottoni di taglio smoking, avvitata e un po' morbida sui fianchi. I pantaloni avevano la vita appena bassa, sorretti da una cintura in pelle nera e da un paio di bretelle in cuoio, nascoste da un gilet pure bianco. Sotto, spiccava una camicia nera in seta mista, con polsini da moschettiere chiusi da gemelli di madreperla. Il collo alto, con le due vele divergenti ripiegate, era fasciato da un foulard in seta verde, annodato con un unico passaggio e bloccato da un fermacravatte in platino con tre diamanti. Ai piedi calzava un paio di stivaletti a punta in pelle di vitello bianca, con tacco da vaquero ed allacciatura laterale, di manifattura italiana.

    Mollata una pacca sulle spalle del suo compare, Chico si avviò verso un'altra ala del museo, dove spiccava in esposizione la Lincoln Continental Convertibile del 1961 su cui viaggiava John Fitzgerald Kennedy il giorno dell'attentato di Dallas.

    Ebbe giusto il tempo di un'occhiata, che un puntino rosso apparso in sovrimpressione sulle lenti degli occhiali prese a lampeggiare. Sfiorata la montatura, ascoltò una voce molto acuta attraverso un microaltoparlante.

    - Chico, amore mio, ti ricordi che stasera sei ospite a cena qui da me? Ti attendono cibo, un bagno caldo e molto sesso. Non necessariamente in quest'ordine.

    Abbiamo tutta la notte per noi… -.

    Più che un invito, suonò come un ordine.

    - Heil, mein Fuehrer! -.

    Chiuse la comunicazione, strizzando l'occhio a Tommy, che arrancava zoppicando alle sue spalle.

    Quello scoppiò in una risata fragorosa.

    - Cazzo Chico, sarà la sesta donna che chiama nelle ultime tre ore! Perché non ti trovi una brava ragazza? -.

    - Scherzi? Me ne trovo di bravissime tutte le sere! - ghignò lui.

    - Almeno questa ci sa fare a letto? -.

    Chico mollò al compare un affettuoso buffetto sulla nuca.

    - Jennifer? Ti dico solo che l'altra sera ci siamo fatti una scopata talmente eccezionale che anche i vicini si sono fumati una sigaretta -.

    Detto ciò, lo lasciò lì a rodersi il fegato, dirigendosi verso le porte a vetri che davano sul vasto giardino interno del museo.

    - Insomma, non mi hai ancora finito di dire come hai fatto ad arrivare a Detroit dal Messico - biascicò Tommy, stravaccato su una delle panchine del parco.

    Innaffiata dal quinto toro bravo della giornata, la lingua di Chico era più sciolta di un gelato sotto il solleone.

    - Ti ricordi che ti ho raccontato come avevo recuperato quasi tutta quella partita di gioielli per conto del Colonnello Ramon Arellano, il braccio destro di Don Carlos? Mancavano solo tre cose. La fede di platino, ancora nelle mani di Fuentes, sempre che non l'avesse già affidata ai suoi ricettatori, il bracciale finito al polso della nipote di Juan Garcia Abredo e quel cazzo di gorilla d'oro e diamanti regalato alla zia di Hermosillo, il boss del Nuovo Cartello di Juarez -.

    - Fin qui ci siamo - convenne Tommy. I due avevano legato fin da quando si erano conosciuti, cinque mesi prima, nella bisca clandestina nel retrobottega dello SpeakEasy. Nonostante i peli che gli uscivano dalle orecchie ed un alito talmente pestilenziale che le gomme da masticare si sputavano da sole, Tommy Mottola era un pezzo grosso nel settore dei giochi d'azzardo, e la sua fama di giocatore professionista gli garantiva stima e rispetto un po' da tutti, che lo ritenevano una macchina per fare soldi. Era soprannominato Scala perché aveva una vera e propria ossessione per gli incastri bilaterali, e perché una volta, baciato dalla fortuna in una partita contro l'uomo sbagliato, si ritrovò scaraventato giù dai gradini in marmo della villa di Nick Manetti, leggermente irritato per aver perso la dodicesima mano consecutiva, ritrovandosi con un'anca fratturata mai saldatasi del tutto, con conseguente zoppia.

    Chico lo aveva conosciuto sedendosi al tavolo con lui, perdendo seimila eurodollari in un paio di orette e facendoseli poi abbuonare offrendo in cambio a Tommy, che certo non poteva definirsi un figurino, una notte di piacere con un paio di sue amichette di fiducia a cinque stelle. Da quel momento erano diventati culo e camicia, compari di vita e di poker, attività con la quale si divertivano spesso a spennare qualche pollo.

    - Dai, racconta! - lo incitò Tommy, curioso di conoscere il seguito.

    Chico sorseggiò il suo cocktail, lasciando che le sue papille gustative lo suddividessero idealmente nelle corrette dosi di tequila, kahlua e succo di limone, e poi si mise a giocherellare con l'ombrellino, passandoselo fra i denti. Una vera mania, quella per gli ombrellini decorativi, di cui possedeva a casa una vera e propria collezione.

    - Insomma, il primo recupero è stato una passeggiata. Mi sposto a Guadalajara e trovo quel coglione di Fuentes intento a farsi gonfiare la valvola da una baldracca in un parcheggio dietro a El Palomar. Mi avvicino tranquillo, estraggo il ferro e gli porgo i saluti di Don Carlos. Due secondi dopo, la puttana sta attraversando di corsa la tangenziale, senza la borsetta e con solo uno dei due zoccoli ai piedi -.

    - Che troia! - si sentì in dovere di aggiungere Tommy.

    - Insomma, Fuentes sta lì con la braghe calate e il cazzo ancora in tiro. Suda che sembra in un forno. Mi lancia l'anello, che finisce nella terra tra i miei piedi, e spera di cavarsela così. Io però gli tengo la canna puntata addosso, al che lui mi chiede implorante, quanto vuoi? Io gli dico, quanto sei disposto a pagare? Centomila, mi fa, li ho nel portabagagli. Gli chiedo di aprirlo, con lui che incespica due volte nelle mutande. Poi tira fuori una cassetta da carpentiere strapiena di dollari messicani. Io lo ringrazio, e gli dico che in questo modo ha saldato il conto con Don Carlos e ha pagato gli interessi. Lui fa per tirarsi su i calzoni, ma vede che io non abbasso l'arma. Che cazzo c'è adesso, urla disperato. Io gli sorrido, e gli chiedo, per me non hai niente? Lui protesta, ma io gli faccio notare che lui ha saldato il conto col mio capo, non con me -.

    - Grande! E lui che ha fatto? - scoppiò a ridere Tommy.

    - Non ci crederai! Quel coglione ha cercato di comprarmi con quella sua macchina di merda, quel catorcio con un parabufali al posto del paraurti ed i sedili in pelle di zebra. L'ho presa come un'offesa personale - disse facendo il segno della pistola con le dita, abbassando il pollice verso l'indice. - Bang! In faccia. Ho raccolto l'anello, ho preso i soldi e le sigarette che stavano nella borsetta della puttana e sono ripartito. Ovviamente, prima gli ho cosparso la macchina di benzina e ho dato fuoco ad entrambi. Un rottame simile non merita di circolare per strada, nemmeno se si tratta di fottute mulattiere messicane! -.

    Chico sollevò il bicchiere e toccò con il bordo quello del compare, in un brindisi silenzioso, prima di spararsi un'ultima lunga sorsata di toro bravo.

    - Dimmi del braccialetto adesso - chiese Tommy, zoppicando naso all'aria.

    Sul soffitto del museo era appesa con spessi cavi di titanio un'intera flotta aerea di aeroplani, residuati bellici delle guerre mondiali del secolo scorso.

    Chico si fermò esattamente sulla verticale di un Laird del 1915, lo stesso biplano su cui l'aviatrice Katherine Stinson aveva sorvolato il Giappone, prima donna nella storia a compiere l'impresa.

    - Arrivo a Torreòn, un migliaio di chilometri a nord di Città del Messico, e prendo alloggio alla Posada Margarita, l'albergo gestito direttamente da Abredo. Fa un caldo infernale. Sto lì che mi fumo una paglia, pensando al modo migliore per recuperare il bracciale, quando sento un toc-toc lieve. Apro la porta e mi ritrovo davanti una moretta con un vestitino rosa stretto sul petto che le scende fin sopra le ginocchia e due piccole chiazze di sudore a mezzaluna sotto il seno. I suoi occhi mi si incollano sulla faccia, strani, quasi cattivi. La sua tequila signore, mi fa, con una voce dolce come il miele. Quattro parole sussurrate come una ninna nanna. Non ci crederai, ma aveva al polso proprio il braccialetto d'oro e diamanti -.

    - Cioè, la nipote di Abredo ha imboccato nella tua camera? -. Tommy, famoso per la sua imperturbabilità al tavolo da poker, pareva adesso una rappresentazione dello stupore fatto persona.

    Chico annuì, con un sogghigno sardonico stampato in faccia

    - Te lo giuro. Lei entra e ci facciamo uno shot. Io le fisso le cosce e lei mi lascia fare, poi si attacca al collo della bottiglia, con due rivoli di tequila che le colano ai lati della bocca -.

    - Glieli avrei leccati… -. Tommy si stava proprio eccitando. Probabilmente, visto il suo aspetto, da tempo praticava solo il sesso orale. Ossia ne parlava e basta.

    - Infatti è proprio quello che faccio io, avvicinando la lingua alla sua bocca, ma quella si volta di scatto e mi morde il labbro, balzando poi sul letto. Ti giuro che avevo un'erezione tale che pensavo mi si strappasse il cavallo dei pantaloni. Lei lascia scivolare a terra il vestito ed io le salto addosso, leccandole la pelle sudata. Non ci crederai, sapeva di lime. Insomma, scopiamo per due ore filate, con lei che balla la bamba sul mio ventre, e alla fine mi addormento stravolto fra le lenzuola bagnate -.

    Tommy aveva gli occhi sgranati e la bocca semiaperta.

    - Durante la notte le hai rubato il braccialetto e te ne sei andato, giusto? -.

    - Aspetta. Me la fai raccontare o no questa cazzo di storia? Insomma, ad un certo punto della notte mi sveglia un rumore che mi è familiare, uno scatto metallico che ho già sentito un sacco di volte. Apro gli occhi e vedo lei che fa scorrere il carrello della mia pistola, colpo in canna, e me la appoggia qui - disse, toccandosi il centro della fronte con indice e medio.

    - Merda! – esclamò Tommy, strabuzzando gli occhi.

    Chico si rimise a giocare con l'ombrellino del cocktail.

    - Io provo a muovermi e mi accorgo di avere le mani legate alla spalliera del letto. Sono preso dal panico, ma lei mi monta sopra, ancora nuda, e si mette a sfregare il suo bacino col mio. Non ci crederai, avevo una pistola poggiata alla fronte ed il cazzo mi stava diventando duro come la torre del Renaissance Center. Lei si sistema meglio e ci si impala sopra. Tommy, ti giuro che non sapevo più se stessi scopando o morendo -.

    Tommy si asciugò il palmo delle mani sudate sui pantaloni, somatizzando su se stesso la tensione del momento. Degli aerei appesi al soffitto non gliene sarebbe potuto fregare più nulla, nemmeno se avesse visto passare Snoopy in volo sulla sua cuccia, piazzato ad ore sei del fottuto Barone Rosso sul suo Fokker.

    - Il letto cigola sempre più forte, ma intanto sento che il laccio attorno al polso destro si sta allentando. A quel punto mi inizio a muovere freneticamente per coprire gli strattoni della mano, con la canna della pistola che nell'euforia del momento mi sbatte sulla fronte ad ogni sussulto di bacino. Quella stronza chiude gli occhi e mi geme così vicino al viso che posso sentire il suo alito caldo in faccia. Io intanto sfilo una mano, mentre lei non regge agli spasmi, contrae il viso e gode -.

    Chico gettò il proprio bicchiere di plastica, ormai vuoto, in un cestino per la raccolta differenziata, e sollevò lo sguardo.

    - Ehi Tommy, quello non è mica un Boeing Sterman? È il più famoso biplano della storia aeronautica americana -.

    - Affanculo il museo, chi se ne fotte del biplano, continua a raccontare! -. Era talmente eccitato che adesso, se fosse passato Snoopy, gli avrebbe sparato.

    Chico scoppiò a ridere.

    - Cazzo, se lo sapevo che venivi qua per sentire me, ce ne stavamo al bar a farci una tequila invece di spendere dieci eurodollari per venire al museo! Insomma, un attimo dopo, scatto fulmineo e la pistola non è più nella sua mano. Lei mi fissa con lo sguardo sconcertato di chi ha perso una partita già vinta, e lancia un urlo.

    Non un urlo isterico da ragazzina impaurita, ma un grido di richiamo. Al che le mollo il calcio della pistola sulla bocca, spaccandole il labbro, e riprendo in mano il gioco, continuando a muovermi piano con il bacino -.

    Tommy si mise a gesticolare e ad urlare in modo così plateale che tutti i visitatori del museo nel raggio di una trentina di metri si voltarono a fissarlo.

    - Cioè, quella troia si mette a gridare come la sirena di una fottuta ambulanza e tu continui a scopartela? -.

    Chico gli fece cenno di abbassare la voce.

    - Era un peccato lasciare le cose a metà. Non sai che roba. Io le ordino di slegarmi l'altra mano, e lei niente, mi cavalca eccitata. Alzo ancora di più la voce, e lei avanti, come fosse sorda. A quel punto le ficco la canna della pistola in bocca, ripetendo l'ordine e lei che fa? Si mette a succhiarla. La succhia, capisci, quella puttana! La situazione è surreale, io cerco di liberare anche l'altra mano con strattoni violenti e, a quel punto, entra nella stanza quel tricheco lardoso di Juan Garcia Abredo, che ci guarda e alza la pistola senza esitazioni, come se fosse una cosa del tutto normale trovare sua nipote nuda che succhia una pistola mentre cavalca a pelle un uomo di Don Carlos -.

    - E tu? -. Tommy era ormai pronto per la sua prima seduta dallo psicanalista.

    - Ed io che cazzo dovevo fare secondo te? Dirgli prego si accomodi, c'è posto per tutti? A parte che secondo me ci si era già divertito parecchio con la nipotina. Comunque estraggo la pistola dalla bocca della ragazza e gli scarico in faccia un paio di pallottole insalivate. Lo centro in fronte solo con una, con l'altra lo liscio di un metro, ma prova tu a sparare dritto mentre una puttanella infoiata ti sta cavalcando fino a farti venire! È crollato a terra proprio mentre mi saliva l'orgasmo, una scena da videogame. Dieci minuti dopo ero in macchina, con il braccialetto in tasca e quella piccola troietta legata al letto a guardare il soffitto con sguardo sognante. Con me una donna non si limita a raggiungere l'orgasmo. Lo supera -.

    Tommy non disse più nemmeno una parola. Fissò Chico in silenzio e poi scosse la testa, facendo roteare il proprio indice all'altezza della tempia, per far capire al mondo intero quanto pazzo considerasse il suo compare.

    L'area museale dedicata alla personale collezione di oggetti storici di Henry Ford era vastissima, ma non particolarmente stimolante. Oltre ad un violino Stradivarius ed alla poltroncina del Ford Theatre di Washington su cui venne assassinato Abraham Lincoln, c'era ben poco che potesse interessare i due gangsters. Tommy, poi, pressava ormai come un bambino capriccioso per conoscere la parte finale del racconto. Chico si fece offrire il sesto toro bravo della giornata, comprensivo di ombrellino rosa shocking, prima di trovare il coraggio di rivivere mentalmente la telefonata che aveva cambiato la sua vita. Dall'altra parte c'era Ramon Arellano, fratello minore di Don Carlos nonché braccio destro di quest'ultimo. Farlo inquietare equivaleva a farsi una partita in solitario di roulette russa con una Derringer 6mm a due colpi, con entrambe le camere di scoppio cariche.

    Se ne ricordava come fosse accaduto cinque minuti prima.

    Il cellulare aveva squillato alle tre esatte. Dall'altra parte solo una parola.

    - Allora? -.

    - Niente -.

    Lo aveva sentito grugnire. Il livello di pazienza doveva essere ai minimi storici.

    - Come niente, che cazzo vuol dire niente ? -.

    - Vuol dire che non ce l'ho – aveva risposto Chico con voce titubante.

    - Brutto coglione, non riesci neanche a riprenderti un cazzo di gorilla di vetro? -. Serbatoio della sopportazione quasi vuoto, asticella a sfiorare lo zero.

    - Aspetta che ti spiego, Ramon…- aveva mormorato Chico, sfruttando al meglio quel prezioso senso di familiarità di cui godeva da quando Arellano gli aveva concesso, in un momento di generosità, il raro privilegio di poterglisi rivolgere in confidenza.

    - Avanti, voglio proprio sentirla questa cazzo di spiegazione - lo aveva incitato lui nervosamente, sbuffando con forza. Stava fumando un sigaro, pessimo segno.

    - Ok, sono andato dalla vecchia per riprendermelo con una scusa qualsiasi, visto che mi avevate assolutamente raccomandato di non usare la violenza, ma quando mi ha fatto entrare stava con la nipote. Non ci crederai, ma mi aveva organizzato una specie di appuntamento al buio del cazzo! -.

    Ramon Arellano aveva trattenuto a stento una risatina isterica.

    - Mi prendi per il culo? Passi metà della tua vita di merda a scopare e ti crei problemi a fotterti una per riprenderti il gorilla? Che cazzo di problema avevi? esplose con voce sempre più alterata.

    Chico ricordava di essersi messo a camminare nervosamente, sbracciando di fronte ad un interlocutore invisibile, nel bel mezzo del Parco Lleras, il ritrovo dei giovani di Juarez nei torridi pomeriggi dei fine settimana.

    - Te lo dico io quale era il problema. Questa cazzo di nipote era una zitella di un metro e venti con un culo come un furgone e coi capelli rossi e ricci che sembrava un cespuglio. La vecchia mi dice, questa è Emily, mia nipote, che si è appena laureata in veterinaria. Ti giuro, ho pensato che avesse scelto quella facoltà per garantire l'autoconservazione della sua specie, ma ho risposto solo, uh che piacere, ero venuto per il gioiello. La vecchia mi prende e mi dice che, oh non c'è fretta signor Hernandez, si sieda che le porto il caffè, lo gradisce vero? Ci sono anche dei pasticcini che ha fatto Emily -.

    - Beh, e allora? – aveva pressato Ramon, sempre più insofferente.

    - E allora quella vecchia zoccola rideva come una Mustang ingolfata. Cazzo, volevo spaccarle il grugno con la pistola. Non li volevo quei merdosi pasticcini, ma sto lì e dico come no, certo che li gradisco. E quella sparisce in cucina lasciandomi solo con quel mostro del cazzo che subito mi sussurra nell'orecchio, così signor Hernandez, lei è un orafo. Cioè, quel cervello di gallina pensa che i gioielli li faccia io. Ma mica è finita lì, perché continua. Lei è così stravagante, signor Hernandez, mi fa, veste da artista. Ti giuro, volevo ammazzarla lì subito! Io stravagante? Ma che cazzo dice, io sono alla moda più di chiunque altro. Se c'era una stravagante era lei, ma che dico stravagante, era un mostro ti dico, come quel Godzilla dei vecchi film di sessant'anni fa! -.

    Si era sentito un colpo terribile, una via di mezzo tra un pugno sbattuto su un tavolo e l'esplosione di una testata termonucleare tattica fuori della sua finestra.

    - Hernandez, non me ne fotte un cazzo né di te, né di lei, né di quella stronza della vecchia. Devi riprenderti quel cazzo di gorilla! -.

    Chico aveva dovuto togliersi di colpo l'auricolare per non rimanere assordato. Rammentava ancora il tremore alle mani provato nel reinfilarselo.

    - Lo so, Ramon, ma la vecchia l'aveva regalato alla nipote! Dice: mi piace tanto quel gioiello che ha portato a mia nonna, non ho resistito, mi dovrà perdonare, ma ho dovuto farmelo regalare. Hai capito il mostro? Si è fottuta il gorilla -.

    - Da quel che dici è più facile questo, piuttosto che un gorilla si fotta lei! -.

    - Ci puoi giurare cazzo, è brutta come un cesso –

    Aveva annuito Chico, ripensando a quel viso butterato dall'acne, in cui persino le palpebre avevano la cellulite.

    La voce di Ramon si era tranquillizzata all'istante. Chico ricordava bene di aver sentito il suo sangue congelarsi nelle vene.

    - Beh, adesso vai e te lo riprendi -.

    - Porca troia, e come faccio? Non so dove lo abbia nascosto, mica le posso torturare tutte e due per farmelo dire! -.

    - Ci esci, Chico. Esci con il cesso, la fotti e recuperi quel cazzo di gorilla. Hai fatto la minchiata e ora paghi -.

    Un brivido scendeva lungo la spina dorsale di Chico ancora a distanza di mesi, nel richiamare alla memoria la visione di quell'abominevole parodia di femmina.

    - Scherzi? Non ce la farò mai! -.

    - Amigo, è solo lavoro. A chi tocca, tocca. Mettile un cuscino in faccia e pensa a qualcosa di bello. Non ti sei mai scopato una donna brutta? -.

    - Una donna brutta sì, ma qui siamo parecchio oltre -.

    Ramon Arellano aveva perso del tutto voglia di discutere.

    - Quella non ha detto che vesti come un fottuto artista? Allora se sei un artista, lavora di fantasia! -.

    Chico aveva riagganciato, terrorizzato. A distanza di tempo, gli rivenne in mente, nitido come un panorama sotto il sole di primavera, il pensiero che in quel momento gli aveva attraversato il cervello. Nella sua vita aveva rubato, ucciso, truffato, rapinato, sequestrato, gambizzato, ma non si era mai abbassato a tanto.

    Urgeva approntare un piano B.

    Spiegò a Tommy la sua decisione, come se fosse stata la cosa più ovvia e naturale del mondo.

    - Semplice. Ho preso la valigetta con i gioielli, ci ho messo dentro anche le banconote di Fuentes e l'ho nascosta nel doppiofondo della mia macchina, sotto il sedile del passeggero. Poi ho buttato giù un sorso di tequila e ho stretto il volante fra le mani. Affanculo Don Carlos, Fuentes, Godzilla e perfino il Messico. Sono partito dritto verso nord -.

    Tommy non riusciva a smettere di sghignazzare. Non gli pareva vero che qualcuno avesse fottuto uno dei più sanguinari trafficanti d'armi e di droga del Messico, rischiando di dover trascorrere tutta la vita a guardarsi le spalle, solo per evitare di andare a letto con una donna, per quanto orribile essa potesse essere.

    - Immagino che da allora in poi il paese della siesta e dei sombreros sia da considerarsi off limits -.

    - Tu che ne dici ? - sorrise amaro Chico.

    Era tardo pomeriggio ormai, e si diressero verso l'uscita.

    Tommy, allora, si fece serio all'improvviso e prese l'amico sotto braccio, per rivolgergli subito dopo una di quelle proposte che proprio non si potevano rifiutare.

    Il Consigliere di Don Carmine Vitalone era da tempo alla ricerca di un autista tuttofare da poter aggregare alla famiglia, ed aveva incaricato gli associati più fidati di sentire in giro chi fosse disponibile. Tommy si era informato a lungo sulla carriera da pilota di Chico, prima di farsi sotto, ed era rimasto assai soddisfatto. Non solo quel tizio era una leggenda nelle corse clandestine, ma vantava anche una rispettabilissima carriera ufficiale, con diciotto vittorie e quasi quaranta piazzamenti sul podio in Gran Premi Nascar, Formula 10K e Formula Classic. Dal vivo Chico gli era parso affidabile, ruggente come un motore turbo ed al contempo seducente e malizioso con il gentil sesso. Proposta la sua candidatura al signor Di Sarro, intimo del boss, e ricevuta la sua autorevole approvazione, toccava solo convincerlo a presentarsi.

    Il discorso fu semplice. Chico avrebbe ottenuto vitto e alloggio a Detroit, uno stipendio sicuro e la sicurezza di non essere raggiunto mai dalla sete di vendetta di Don Carlos. In cambio, avrebbe dovuto soltanto giurare fedeltà alla famiglia Vitalone, rispettare gli ordini, eseguire alla lettera le consegne e, soprattutto, non posare mai, nemmeno per sbaglio, lo sguardo sulle donne degli altri associati.

    Trenta minuti dopo, Chico era al volante della sua Mitsuzuki Interceptor blu elettrico, coi finestrini abbassati di due terzi per stemperare le folate di aria condizionata nell'abitacolo. Guidava percorrendo strade periferiche, schivando crateri sull'asfalto e carcasse di rottami, attraversando sobborghi a luci rosse, connessi al mercato di carne della prostituzione. Era decisamente eccitato dalla proposta ricevuta da Tommy Mottola, ma al contempo pieno di dubbi. Essere presentato ad un clan di rilievo come i Vitalone era un onore per lui. Gli avrebbe permesso di mettere da parte un bel gruzzoletto e garantito una protezione importante contro la sicura vendetta di Carlos Arellano. Molte domande gli affollavano la testa, però.

    Che ruolo avrebbe ricoperto all'interno dell'organizzazione? Si sarebbero fidati di un messicano che non aveva esitato a tradire il suo vecchio capobanda pur di non andare a letto con il corrispettivo in carne ed ossa dell' Urlo di Munch? Ma soprattutto, avrebbe avuto abbastanza tempo libero per la sua vita privata?

    Il tizio davanti a lui si piantò di botto al centro della carreggiata, per chiedere la tariffa ad una ragazzina nera come il petrolio seduta sulla carcassa di uno scooter.

    Per evitare di tamponarlo, Chico dovette frenare di colpo, sbandando al punto di rischiare di rigare sul marciapiede gli scintillanti cerchioni stellati. Prima che potesse scendere e sfondare il parabrezza di quell'idiota con la mazza da golf che teneva nel baule, una mulattina di chiara origine brasiliana, stretta in un tubino nero pieno zeppo di tette, bussò al finestrino di destra, già mezzo abbassato.

    - Sciau belo, fami entrare che ti fasciu cassu duru duru! In macchina duescentu, quattruscentu a casa tutta nocce. Fasciu amore luuungo lungo - mugolò lei, strizzando i seni tra i quali affondava un solco profondo come il canale di Panama.

    Chico restò un attimo interdetto, anche perché quell'accento alla Belo Horizonte gli aveva risvegliato un'improvvisa vampata di calore all'altezza dell'inguine. Per un istante pensò di tirare dritto, avendo cose più importanti cui pensare. Poi però si ritrovò a riflettere sul fatto che nella vita avesse sempre preso le decisioni più importanti ragionando con le palle vuote.

    Finì per spendere quei dannati duecento eurodollari ed il suo investimento lo convinse alla fine ad accettare la proposta di Tommy, lasciandolo per il resto piuttosto insoddisfatto. Durò infatti una decina di minuti scarsi. Lei sarà stata anche pronta per amore luuungo lungo. Disgrazia aveva però voluto che, a quel punto, suo cassu fosse troppo duru duru.

    SANGUINIS EFFUSIONE

    Burroughs Building, 12 settembre 2045, ore 00.25

    - D'accordo, ragazzi. Tra poco le cose inizieranno a farsi interessanti -.

    La donna in tuta d'assalto blu scura, con i gradi di sergente a bassa visibilità appuntati sul colletto, parlava a voce moderata, nonostante il fragore assordante delle turbine del velivolo. I comunicatori radio di ultima generazione, d'altronde, erano dotati di filtri calibrati sul timbro vocale di ciascuno dei membri della sua unità, capaci di eliminare qualsiasi rumore di fondo o disturbo dalle trasmissioni.

    - Attenetevi al programma ed evitate di recitare a soggetto. Nessuno vi ha mai raccontato che sarebbe stata una passeggiata, ma se ciascuno di voi farà la sua parte come deve, abbiamo più di una possibilità di riportare il culo a casa tutto intero -.

    Il velivolo che li trasportava, in quel momento, venne scosso da una violenta corrente ascensionale. I quattro poliziotti in combinazione tattica si sentirono spingere lo stomaco verso le caviglie. La donna con i gradi di sergente, al contrario degli altri, rimase impassibile.

    I portelli laterali dell'abitacolo del convertiplano d'assalto OV-71 Kestrel, verniciato nel colore blu scuro opaco che distingueva i mezzi in dotazione al Detroit Police Department, erano mantenuti aperti per facilitare lo sbarco veloce della squadra d'assalto di quattro agenti.

    Psycho-Squad.

    L'ultima risorsa del mondo civile per contrastare il crimine violento e organizzato che aveva trasformato, ormai da decenni, la capitale dello Stato del Michigan nel campo di battaglia insanguinato delle gang e delle famiglie mafiose del nord-est.

    - Non appena questo uccellino ci avrà scaricato sul tetto del fottuto Burroughs Building, avremo tutti ancora una volta la nostra grande occasione di dimostrare ai contribuenti della città che non stiamo sprecando i soldi delle loro tasse - proseguì la donna, stringendo il sottogola dell'elmetto balistico e verificando per l'ennesima volta il buon funzionamento dell'otturatore della carabina d'assalto che riposava sulle sue ginocchia.

    L'uomo seduto accanto a lei portava i gradi di caporale, aveva il colorito grigiastro ed un'espressione profondamente infelice sul volto.

    - Coraggio, Straatmeyer - lo esortò lei con quel suo strano sorriso sghembo.

    Il vice caposquadra annuì, riuscendo per un pelo nell'improbo compito di rivolgerle un cenno d'assenso senza vomitarle la colazione addosso, chiedendosi come facesse a non soffrire il mal d'aria durante un volo simile. Cazzo! Quell'affare ballava come se il pilota fosse in preda ad un attacco epilettico e qualcuno stesse tentando di farlo riprendere iniettandogli dello speed per endovena.

    Quasi a conferma di questa congettura, il velivolo virò bruscamente a sinistra, strattonando violentemente ciascuno di loro contro le cinture di sicurezza a cinque attacchi che li trattenevano ai sedili fissati uno di fronte all'altro, con la schiena alla fusoliera.

    - Merda! - imprecò uno dei due agenti semplici della squadra, mentre l'altro tuffava la faccia, livida come il cielo di novembre, nel sacchetto di materiale sintetico che il secondo pilota aveva fornito a tutti loro prima del decollo.

    - Obiettivo in vista - recitò la voce del pilota attraverso gli auricolari, senza tradire più emozioni di quella di una sveglia telefonica automatica. - Procederemo sotto il livello della skyline per ingannare eventuali osservatori e non farci sentire troppo. Farò un pop-up d'assalto a trecento metri. Vi avviso, prima di eseguire -.

    - Ci siamo, scolarette! Mettete via merenda e figurine e preparatevi a fare sul serio! - ringhiò lei, allungando il braccio sinistro per indicare agli altri la forma massiccia color rosso mattone del Burroughs Building, apparsa per un attimo tra gli altri palazzi attraverso il portello di dritta del velivolo. Il guanto di nomex rinforzato con placche di teflon e maglia d'acciaio della tenuta da combattimento in dotazione alle Psycho-Squad della Detroit Metro Police, nascondeva perfettamente l'arto artificiale della donna, rendendolo appena un po' meno inquietante di quando era lasciato nudo, visibile, simile ad un mortale artiglio robotico.

    Cindy Cyderman, trentacinque anni, di cui sette trascorsi nei Marines Recon e nove in polizia, aveva scambiato uno dei suoi arti superiori con una Purple Heart e un biglietto di sola andata a bordo di un C-17 dell'USAF fino a casa, offertole dallo zio Sam. Era in procinto di diventare sergente, quando il suo LAV (NdA: Light Attack Vehicle, veicolo blindato leggero in dotazione al Corpo dei Marines) era stato investito in pieno da un RPG (NdA: Rocket Propelled Grenade, lanciarazzi leggero controcarro) sparato da un pasdaran iraniano nella zona di Ahvaz, durante la Grande Guerra Religiosa del 2031 che aveva spazzato via mezzo Medio Oriente e ridotto l'altra metà ad un deserto radioattivo vetrificato e inabitabile.

    Aveva dovuto rinunciare al grado e alla carriera e trascorrere interminabili settimane all'ospedale militare di Bethesda, in attesa di una risposta all'interrogativo che le martellava nella mente. Perché lei sola, single e senza un parente al mondo, membro di un equipaggio di cinque uomini, tutti padri di famiglia, era rimasta in vita? Che cosa avrebbe fatto ora, senza un braccio?

    La risposta le era arrivata, inaspettata, da un annuncio pubblicitario letto quasi per caso su un quotinet. La Bionetics, società all'avanguardia nella sperimentazione cibernetica dei miglioramenti prostetici, cercava soggetti mutilati di uno o più arti, per testare la sua ultima generazione di impianti neuromeccanici.

    I sei mesi successivi all'intervento erano stati un vero inferno, affollato di dolori ossei, emicranie, nausea continua ed ogni altra sorta di effetto collaterale ai farmaci antirigetto somministratile dopo l'impianto. Alla fine, però, la sua fibra robusta si era adattata e lei aveva potuto riprendersi la sua vita, superando a pieni voti l'esame d'ammissione alla Police Academy nella sua città natale, Detroit.

    Cindy soffiò via una ciocca ribelle e fuori ordinanza di capelli nerissimi dalla fronte sudata e piantò i suoi occhi scuri in quelli dei suoi tre uomini. Erano tutti operatori veterani, con un passato nella SWAT. Nessuno di loro, però, aveva un'esperienza militare nei reparti da ricognizione paragonabile alla sua ed era inevitabile che, in situazioni tattiche complesse come quella, cercassero conferme nel suo atteggiamento.

    A dirla tutta, provava lo stimolo di vomitare anche il tacchino mangiato in occasione del Natale precedente, ma si sarebbe fatta tagliare anche l'altro braccio, magari con una sega arrugginita, piuttosto che mostrare segni di debolezza che avrebbero potuto pregiudicare il morale dei suoi ragazzi e l'esito della missione.

    - Quando quest'affare s'impennerà, ci sembrerà di essere nella canna di un fottuto mortaio, sparati in orbita. Durerà per un attimo appena, ma tutti quelli tra voi che non sono abbonati a vita al Top Thrill di Cedar Point faranno bene a tenersi strette le palle e non mollare nemmeno per un istante quei dannati sacchetti -.

    Un grugnito fu tutto quel che ottenne in risposta, un attimo prima che la voce del pilota si facesse sentire di nuovo.

    - Saliamo al mio via. Tenetevi pronti - annunciò, con il tono di voce annoiato di uno che chiede alla moglie di passargli una birra, mentre se ne sta stravaccato sul divano di casa a guardarsi una partita dei Pistons in TV.

    Cindy e gli altri si aggrapparono ai maniglioni fissati sopra le loro spalle, su ambedue i lati del poggiatesta.

    - Merda! - si lamentò Straatmeyer, più per esorcizzare la stretta che sentiva allo stomaco che per altro. - Io odio quelle fottute montagne russe! -.

    - Tre…due…uno…via! -.

    All'improvviso, sembrò che il convertiplano fosse andato a sbattere contro un muro invisibile, mentre le massicce gondole contenenti le potenti turbine da seimila cavalli ciascuna ruotavano di novanta gradi, trasformandosi in pochi istanti in rotori d'elicottero intubati, capaci di mantenerlo a mezz'aria.

    Poi il velivolo schizzò verso l'alto, sfiorando con il muso la parete orientale del Burroughs Building e divorando in pochi attimi la distanza altimetrica che lo separava dal tetto, come un ascensore impazzito.

    Con una maestria nella quale Cindy riconobbe lo stile di un ex-militare, il pilota portò il Kestrel appena un paio di metri sopra l'area terrazzata sulla sommità del palazzo e poi lo traslò orizzontalmente, mantenendo la parte inferiore della fusoliera a poca distanza dal lastrico superiore.

    - Via! Via! Via! - gridò tre volte Cindy, sganciando il sistema di disimpegno delle cinture, che le fece rientrare all'istante nei loro alloggiamenti, e percorrendo con un paio di agili passi la breve distanza tra sé e uno dei due portelli laterali.

    Atterrò a piedi uniti sull'asfalto scrostato del tetto e rotolò agile sulla spalla destra, usando la tecnica adottata dai paracadutisti per attutire l'impatto.

    Soddisfatta, vide Straatmeyer e gli altri due seguirla a ruota e, un secondo più tardi, il convertiplano cabrare brusco, impennandosi e facendo quota in fretta con i motori al massimo, per allontanarsi verso il centro cittadino.

    - Domina a RenCen - trasmise via radio sulla frequenza criptata riservata alla sua squadra. - Siamo sul tetto. Molto bene, caporale, tocca a te. Trova l'accesso al piano inferiore -.

    Straatmeyer annuì, la testa rasata protetta dall'elmetto balistico modello PASGT-3 di ultima generazione, dotato di sensori olografici a trecentosessanta gradi, di maschera integrata e di comunicatore a lunga portata multifrequenza.

    La pressione di un tasto a sfioramento sul pad che portava fissato sul polso sinistro, fece calare davanti ai suoi occhi un miniproiettore stereoscopico.

    Un attimo dopo, il sofisticato programma di navigazione a realtà aumentata in dotazione alle Psycho-Squad iniziò a proiettare direttamente sulle sue retine l'immagine olografica sovrimpressa dell'edificio, evidenziando in un vivido colore giallo il percorso stabilito per la loro irruzione e la posizione delle vie d'accesso.

    Senza esitazioni, il caporale in testa, la squadra di quattro agenti attraversò velocemente il terrazzo fino alla porta di metallo che conduceva ai piani inferiori.

    Straatmeyer estrasse di tasca uno scrambler portatile ad alta velocità e lo applicò in corrispondenza della serratura magnetica. In meno di sei secondi l'apparecchio interrogò il dispositivo di chiusura, ne individuò il codice e impartì il comando di apertura, spalancando la strada agli uomini di Cyderman.

    Non sarebbe stato così facile, se avessero dovuto forzare una vera porta di sicurezza, pensò il giovane graduato, guidando la squadra giù per la stretta rampa di scale in penombra.

    Il sistema di navigazione e scansione ambientale gli segnalò la presenza di un pavimento metallico potenzialmente rumoroso, che avrebbe potuto causare l'individuazione della squadra. Il microcomputer della sua tuta d'assalto inviò allora un comando agli stivaletti d'assalto bioingegnerizzati di tutti e quattro, provocando un immediato ammorbidimento del polimero sintetico delle loro suole.

    Silenziosi come pantere, raggiunsero un pianerottolo sul quale si affacciava una porta simile a quella appena varcata. Lo scrambler, che aveva tenuto a mente la lezione appena imparata, impiegò tre secondi e mezzo ad aprirla.

    Li accolse un corridoio lungo e stretto, tappezzato di moquette color rosso vinaccia del tipo autopulente.

    Cazzo, fischiò sottovoce Cindy. Quella roba costava un migliaio di eurodollari al metro quadrato ed era impestata da abbastanza naniti spazzini da poterli quasi veder muovere come tanti fottuti pidocchi grandi un millesimo di micron. Fece cenno a Straatmeyer e passò in testa.

    Procedendo in fila indiana, le ginocchia piegate e le armi brandite davanti a loro come da manuale, i quattro poliziotti superarono la porta chiusa dell'ascensore, rivestita di mogano clonato in laboratorio.

    La donna notò la spia sul pannello di servizio, che segnalava l'arresto forzato dell'impianto.

    Perfetto. I tecnici del centro di controllo missione avevano fatto il loro dovere, bloccando in remoto tutti gli accessi al piano.

    Pochi passi ancora e furono di fronte alla porta.

    - Toc toc, c'è nessuno in casa? - si chiese Cindy tra sé e sé.

    Sollevò il braccio sinistro e strinse il pugno, segnalando alla squadra di radunarsi dietro di lei, di fronte al pesante battente blindato.

    - Domina Uno Zero a Centrale RenCen - recitò con voce atona nel laringofono sublinguale che si era fatta impiantare, come la metà dei suoi colleghi.

    - Siamo atterrati sul tetto e scesi dalle scale di servizio, fino al sessantesimo piano. L'accesso alla penthouse è sbarrato da una porta corazzata abbastanza spessa da sembrare quella del caveau della First National giù in fondo alla Woodward. Quanto manca all'arrivo di Archangel? -.

    - La squadra di terra sarà là fra tre minuti, Domina - rispose la voce gelida dell'operatore radio della Centrale, situata nel vecchio Renaissance Center della General Motors, da tempo trasformato nella sede della maggior parte degli uffici governativi della città. - Mantenete il profilo di missione, per favore -.

    - Ricevuto, Centrale. Telecamere individuali in modalità live. Prova microfono al mio via. Tre…due…uno…via! Si va in scena! -.

    Gli altri tre

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