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Con l'anima ai denti
Con l'anima ai denti
Con l'anima ai denti
E-book329 pagine4 ore

Con l'anima ai denti

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Info su questo ebook

Debiti da pagare, gnomi dispettosi, vicini malvagi, cinghiali rapaci, un compare invadente e una fidanzata muta per scelta: quanto basta per impazzire. Un violino, un libro e una festa di carnevale salveranno Giustino dalla follia.
Dello stesso autore:  Uno che dove va non ritorna, I fiori di Tel Aviv.
LinguaItaliano
Data di uscita29 dic 2017
ISBN9788827542699
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    Con l'anima ai denti - Mario Di Desidero

    Mario Di Desidero

    Con l'anima ai denti

    ISBN: 9788827542699

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

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    Proprietà letteraria riservata dell’autore

    ISBN 9788827542699

    Prima edizione: 29 dicembre 2017

    Dello stesso autore: Uno che dove va non ritorna

    In copertina foto di Georg Brintrup

    I

    Corro, corro, corro, nella sera di ottobre. Scivolo, ombra tra i caseggiati della periferia, lungo strade velate dalla nebbia.

    I miei occhi, distratti, sfiorano le finestre: una, un’altra, un’altra ancora.

    Cinque, dieci, ma il fotogramma non cambia: il televisore acceso, la luce abbacinante di un lampadario, la cucina componibile, una donna che prepara da mangiare, un quadro di fiori, un uomo abbandonato sul divano. Per cena avranno tutti lo stesso cibo e parleranno delle stesse cose. Guarderanno lo stesso varietà, poi andranno a letto da estranei. E domani mattina si vestiranno con abiti uguali, si recheranno al lavoro di ogni giorno, e dopo quattro settimane avranno uno stipendio da sperperare in cibi malsani per ingrassare e ammalarsi.

    Io non sono come loro. Io sono diverso. Perché la musica è in me.

    Quando suono divento respiro, brezza, etere. Abbandono il mio corpo e vago per le vie, tra la gente che ha fretta, si agita, rotola. Oppure mi infilo nelle case, e trovo chi muore, chi spera, chi scrive diari.

    Sono presto stanco di tanta confusione. Scivolo allora sotto terra, dove incrocio fiumi e pipistrelli, stanze smisurate e passaggi angusti, il buio e il silenzio, le ossa. Giungo sulla riva di un lago sterminato, di lava e fuoco, un passo e ci cado dentro. Il calore divampa, brucio, fuggo, rientro in me. Appena il tempo di riprendere fiato, e sono in giro, daccapo.

    Corro su, verso il cielo, ma resto poco, perché c’è l’infinito, che mi annoia.

    Di nuovo indietro, ma questa volta devo fermarmi: sento salire un brivido, una scossa che mi scuote e mi incita a suonare, con la furia della tramontana. Quando sono allo stremo, crollo sulla tastiera e sussurro: io sono libero.

    II

    Ho passato i morti e i santi a cogliere olive. Un quintale, dodici litri di olio, di più non sono riuscite a darmi le mie vecchie piante. Purtroppo, non so curarle, non ho denaro per il concime né per pagare un potatore. E così deperiscono davanti ai miei occhi inerti. Muoiono, una dopo l’altra, e di anno in anno il raccolto si fa più misero. Sono ormai rimaste in dieci, ma quando era la nonna a tenerci dietro, ne contavo quindici, una più maestosa e orgogliosa dell’altra.

    Vorrei provarmi a fare qualcosa per loro, per esempio chiedere ai vicini del letame. Con una vecchia sega, inoltre, potrei cimentarmi a tagliare qualche ramo a caso, tanto, per come sono messe, non rischio di fare danni. Purtroppo, non posso dedicarmi a queste opere, devo proteggere le mani, mi servono per suonare: al termine di due giorni spesi tra le fronde, a raccogliere, tirare, piegare, spostare pesi, scale e attrezzi, durante la notte le mani mi dolevano da non riuscire a prendere sonno. E stamane, davanti alla tastiera, mi pareva, addirittura, di soffrire di artrite. Ho dovuto così rinunciare a studiare, e mentre le tenevo immerse nell’acqua calda per cercare sollievo, ho riflettuto che senza la musica soffrirei pene peggiori dell’avere niente da mangiare

    Eppure, non posso trascurarli oltre questi ulivi afflitti, che mi circondano come anime moribonde. Allo stesso modo, occorre che semini nel campo lasciatomi dalla nonna, sul fianco della collina di fronte. Quanto cibo ne trarrei per tirare avanti. Invece, va tutto in malora, i rovi dilagano, le mele sono bacate, le pesche cadono senza maturare, i limoni sono rari. E a tavola non riesco a portare più di una ventina di pomodori e dieci peperoni.

    Saranno sufficienti dodici litri di olio per un anno intero? Se almeno fossero stati quattordici come l’anno scorso o addirittura sedici come due anni fa. Cercherò di farmeli bastare, ma non sarà semplice. A meno di accettare la proposta del compare: io lo aiuto a cogliere le sue olive e lui mi regala un litro di olio per ogni quintale macinato. Dieci giorni ininterrotti di martirio, dall’alba al tramonto, ma porterei a casa cinquanta litri, che venderei in Germania a dieci euro al litro. Oltre a un po’ di olio in più per me, metterei insieme cinquecento euro, all’incirca, con i quali pagare qualche debito o, in alternativa, sopravvivere per alcuni mesi.

    Ma le mie mani?

    III

    Per le mie mani sarà un disastro, ma non ho scelta, non sono nella condizione di rifiutare. Ho tuttavia trattato col compare e ho spuntato un litro e mezzo di olio per ogni quintale raccolto, più a un sacco di concime per i miei ulivi. E’ stata una discussione lunga, articolata, infarcita di proverbi e di filosofia contadina. Sembrava stessimo a spartirci le sorti del mondo. Alla fine si è arreso, ma me lo ha fatto pesare senza ritegno: sosteneva che siamo parenti, se non di sangue quanto meno per via del comparaggio. Quindi, se ha bisogno di aiuto, io, in quanto parente, ho l’obbligo di prestarmi, senza pretendere nulla in cambio. Epperò, perché non sia mai detto di lui che è come il cane che non riconosce il padrone, mi aveva comunque offerto, in segno di gratitudine, un litro di olio a quintale. Ora, se insistevo, lui me lo dava pure un litro e mezzo! A tali condizioni, però, il prossimo anno non avrebbe avuto convenienza a rivolgersi a me: il raccolto è scarso, il prezzo dell’olio è sceso…una sudata! Pure dopo aver capitolato, continuava a lamentarsi della mia rapacità, e ha perfino sospirato: sono mica uno che dove sputa cresce una fontana! A quel punto sono esploso: dovresti vergognarti, gli ho gridato, sei il compare più avaro del mondo. Ed ecco che per incanto, è finalmente sceso il silenzio! Avessi reagito prima!

    Quanto mi umilia la povertà. Ma io non posso lavorare, devo preservare mani e occhi per la musica. E altrettanto vale per le orecchie. Anzi, ancor più per le orecchie. Quando rifletto su un mestiere che potrebbe essermi adatto, ogni idea si sbriciola davanti al problema massimo: il rumore.

    Ci sarebbe il pescatore, ma i motori delle barche? E se fossi un contadino, resisterei all’inferno dei mezzi agricoli? E il pastore? Come me la passerei con il frastuono dei campanacci appesi al collo delle mucche e delle pecore? E i muggiti, i belati, il giorno intero, per giorni e giorni? Le pie mansioni del pastore uno se le dipinge in mezzo alla sacra quiete delle montagne, in realtà sono avvelenate da un baccano insopportabile: nel silenzio, è risaputo, il fruscio più innocuo è pari alla baraonda di una sala da ballo.

    Un impieguccio, che non mi rovini le mani, non mi consumi la vista e non mi alteri l’udito, non esiste. Metterò annunci ovunque per chiedere al mondo intero se qualcuno la conosce una occupazione adeguata alle mie necessità. Voglio supporre sia io ad avere scarsa fantasia.

    Mi danno del fannullone, mormorano alle mie spalle che sono un buono a nulla, cui non va di impegnarsi. Si accaniscono nella maldicenza pur di non ammettere che sono una persona speciale. Mi insultano e mi disprezzano perché loro non possono fare a meno di cibi surgelati, abiti firmati, villaggi turistici, crociere, lotterie, sigarette, integratori multivitaminici, sali minerali, tablet, smartphone, notebook, gioielli, prostitute, aria condizionata, cani di razza, gatti di razza, televisori da cento pollici.

    A me, invece, basta Benedetto Marcello.

    IV

    Il campo di ulivi del compare è il più florido d’Italia. Duecento piante, antiche, materne, ancorate su uno stretto pianoro, in cima a una collina ripida, sulle cui pendici si affollano alberi vigorosi di querce, pioppi, carpi e allori. A oriente, il fianco più acclive del colle si immerge nel mare verde e vi si confonde, al punto che senza il movimento sommesso delle onde uno non saprebbe intendere dove finisce la terraferma.

    Raccogliamo alla maniera tradizionale, il compare disdegna gli attrezzi meccanici moderni, dice che fanno versare lacrime alla pianta. Usiamo perciò un piccolo rastrello che passiamo tra i rami come a pettinare la chioma. Sotto l’albero distendiamo le reti, sulle quali scrosciano le olive. Quando sono cadute tutte, afferriamo le reti da ciascun angolo e convergiamo al centro, in modo da radunare il raccolto sul fondo. Quindi, con gesti pacati e studiati, lo lasciamo scivolare nei cesti.

    La produzione è straordinaria quest’anno e io diventerò ricco. Sebbene a un prezzo molto alto: le mie mani si sono presto ferite e stentano a tenere stretto in pugno il rastrello. Non sarà facile risanarmi da questi sfregi. Lavoro, perciò, prestando ogni cura per non aggravare le abrasioni, e se a questo aggiungo che non ho forza né abilità, ecco il peggiore di tutti: lento, maldestro e, in fondo, d’impaccio.

    Non avrei dovuto fare il mercante con il compare. In verità, non mi ha chiamato perché sperava gli fossi di un qualche aiuto. Al contrario, era lui che ambiva a essermi di sostegno, e io, ingrato, ho preteso un aumento del mio compenso addirittura della metà. Ha pagato i miei studi, dall’età di sei anni fino al diploma del conservatorio. Credeva in me, nutriva una fede cieca nella possibilità di vedermi un giorno dirigere a Vienna o a Berlino. L’ho deluso di nuovo, e non smetterò mai di frustrare le sue aspettative. Ma mi vuole bene e le persone amate, purtroppo, tutto possono, ci rendono inermi, e altro non ci è dato che subirle.

    Povero compare, ogni tanto mi getta uno sguardo, colgo un rimprovero, non so capire se è indirizzato a me o a se stesso, per avere riposto fiducia in uno scellerato, per giunta presuntuoso e superbo.

    V

    Circa ottanta chili di olive per ciascun albero, vale a dire centossessanta quintali e ogni quintale ha reso circa quattordici litri di olio. Duemiladuecento in totale. Bravo compare, bravo davvero.

    Io ne ho avuti, come nei patti, duecentoquaranta, che il mio benefattore ha arrotondato a duecentocinquanta. Avrei già trovato da venderli, come speravo, a dieci euro a litro a un mercante tedesco. Siccome venti li tengo per me, con gli altri duecentotrenta incasserò duemilatrecento euro. Per uno squattrinato è un fiume di denaro, ma di fronte alle mie necessità equivalgono a quattro spiccioli. Ho le scarpe a pezzi e dal tetto piove. La legna per scaldarmi devo pur comprarla, posso avere da mangiare fino alla nausea ma se sto al gelo crepo di sicuro. E poi ho bisogno di occhiali, non vedo più bene, negli ultimi tre anni ho studiato a lume di candela, e la vista si è indebolita. Se non riattiverò la corrente, i miei occhi peggioreranno, e in conseguenza mi occorreranno occhiali sempre più forti. Cosa faccio? Occhiali o energia elettrica? O entrambi?

    Sarebbe anche ora di sostituire la bicicletta, con una di seconda o di terza mano, non importa, basta sia economica e in buone condizioni. Quella che ho non regge più, la ruggine la divora. Sfido, mi scarrozza da sedici anni. Le ho dedicato ogni attenzione, ma lottare per tenerla in vita è come raccogliere acqua con un cesto di vimini. Se non mi affretto a cambiarla, un giorno o l’altro finirò per procurarmi guai. Se cadessi soltanto, poco male, sono capace di evitarmi danni gravi. Ma se in quel momento si trovasse a passare un’ auto o un tir?

    Forse la bicicletta merita la precedenza: vado in centro almeno tre volte a settimana e non posso pagare il biglietto dell’autobus. A piedi impiegherei troppo tempo e sarebbe insopportabile. Il percorso è pessimo, sei chilometri pieni di traffico, rumori e aria cattiva. Sì, è deciso, metto a capolista la bicicletta.

    Gradirei, infine, fare una gita, da quanto tempo non mi spingo ad ammirare il mondo dietro i miei monti! Mi accontenterei di una escursione di un giorno, partire al mattino e rientrare a sera. Non arrivo a sperare di dormire una notte in albergo, però una meta di media distanza è alla mia portata.

    Trapani, dunque, resterà per il momento irraggiungibile. Mi hanno raccontato che il suo corso principale è costeggiato su entrambi i lati dal mare, sicché, mentre si passeggia, è agevole scorgere, da una parte e dall’altra della strada, le navi che attraccano e salpano. Ciascuna prua in movimento è un coltello appuntito, pronto a fendere il cuore della città: a meno di esservi abituati, ogni bastimento suscita un brivido di paura, che sopprime il respiro e fascia le gambe.

    Se fossi nella condizione, me ne andrei a Trapani, a sfidare le navi.

    VI

    Tale è stato l’entusiasmo per il raccolto del compare che ho iniziato a occuparmi delle mie piante di ulivo. Dovevo per forza partire dalla potagione, ma non essendone io capace e non disponendo di risorse per pagare un potatore, ho dovuto rivolgermi al mio parente.

    Non è stato facile convincerlo, anzi, si è fatto pregare. Mi ha costretto a lunghi giri di parole, fingeva di non capire, cambiava discorso. Ero persuaso che sarebbe stato sufficiente sfiorare l’argomento per indurlo a soccorrermi. Illuso, ho dovuto implorarlo! E neppure questo sembrava bastare: ha tirato in ballo il mal di schiena, le mani che non stringono più, un campo da arare, l’orto delle verdure d’inverno, e altre mille faccende in sospeso quasi fossimo in piena estate. Una ripicca per il mezzo litro d’olio in più, è evidente. Solo quando si è reso conto che la sua renitenza mi amareggiava, ha finalmente biascicato qualche parola di assenso, lo stretto indispensabile per darmi a intendere che appena possibile si sarebbe occupato dei miei ulivi.

    Stamattina mi ha svegliato con il rumore della sega e con la sua canzone preferita in sottofondo, La lontananza. Sebbene la canti di continuo e in ogni occasione, le parole perlopiù se le inventa, e quando la fantasia non lo soccorre, si affida a un fischiettio poderoso, che trapana i timpani. Da dove attinga il fiato, e il buon umore perenne, non si sa.

    Nondimeno, ha il volto emaciato di un moribondo, labbra sottili e violacee, guance incavate, radi capelli bianchi. Potrebbe sembrare un morto se non avesse gli occhi vispi e lucenti. Del pari, il corpo, gracile, esile, deformato dalla fatica nei campi, assomiglia a quello di un uomo che va consumandosi di inedia, e tuttavia è scattante come quello di un felino.

    Si arrampica, salta da un ramo all’altro, taglia, sfronda, raccoglie, separa: attività gravose e complicate, che gestisce e sostiene con il cuore leggero di un ventenne.

    Appena ho provato a rendermi utile, ha iniziato con i soliti rimbrotti, a stento comprensibili e tuttavia fin troppo noti: e cioè che non sono buono manco da ardere, che sono un vaso pieno d’acqua e altri insulti di questo tipo. In realtà si preoccupa delle mie mani non meno di me, ma non vuole darlo a intendere. E’ un anziano uomo di campagna, e si atteggia a duro. Finge, per esempio, di non amare la musica del pianoforte, se però mi sente suonare, alla quinta o sesta nota è già in estasi, reclina la testa sulla destra, abbozza un sorriso e incrocia le braccia. Siede quindi composto, schiena dritta e gambe strette, piegate ad angolo retto. Rimane così fino al termine, senza un cenno di stanchezza o di insofferenza, per lunga che sia la esecuzione. Dopodiché si alza, mormora un grazie e accenna perfino a un inchino col capo.

    Non sono riuscito a conquistare vaste platee, e me ne dolgo, eppure, quando scorgo il compare incantato, rapito da ogni singola nota, esclamo: è questo l’unico pubblico che desidero! Il buonuomo, al pari mio, va in fiamme per il suono di un pianoforte, ed è questo il motivo per cui mi ha finanziato gli studi. Non era ricco e aveva tre figli da crescere. Epperò, non ha voluto per me quello che ha sofferto lui: possedere un talento naturale e non disporre dei mezzi per coltivarlo.

    VII

    Avevo giurato di non aprirgli più, e invece, idiota, ci sono cascato di nuovo.

    E’ arrivato alle nove del mattino. Mi ero appena alzato e tremavo di freddo: ho sentito bussare, sarà il postino mi sono detto, di solito è lui a quell’ora. Non avrei mai sospettato che fosse già tornato. Di norma, l’intervallo tra una visita e l’altra è di alcuni mesi, invece questa volta si è ripresentato non più tardi di quattro o cinque settimane.

    Non aveva con sé il consueto fascio di documenti, bensì un unico foglio, una penna e la cartellina nera, di finta pelle, consumata e un po’ sudicia.

    L’ho lasciato perfino entrare. Supponevo che, come in passato, mi avrebbe consegnato delle carte e sarebbe sparito. Ah, se avessi intuito perché era davanti alla mia porta!

    Una volta dentro, nemmeno fosse lui il padrone di casa, ha preso ad aggirarsi guardingo, in atteggiamento altezzoso e schifato. In realtà, aveva occhi solo per il mio pianoforte, sebbene fingesse di ignorarlo, forse per un gioco sadico che lo divertiva. La farsa si è protratta alcuni, lunghi minuti, ed è terminata quando per caso ci ha urtato contro. Lo ha accarezzato con occhi morbosi, quasi sconci, e ne ha scandagliato ogni dettaglio. Ha passato la sua manaccia grassa e unta ovunque, sulla tastiera, sui bordi, sulla coda e durante quel palpeggiamento osceno scuoteva la testa addolorato, ma era un’altra finta, perché le vampate dell’avidità gli infiammavano il volto e numerose gocce di sudore gli imperlinavano la testa calva.

    Tutto a un tratto, si è messo a scrivere. La penna scorreva come se a reggerla fosse la fatina del bosco. E come una fatina è volato via, lasciando, quale scia del suo passaggio, un foglio sul tavolo.

    Il conto è arrivato a millenovecento euro: la tassa sui rifiuti degli ultimi anni, la tassa di circolazione di quando ancora ce l’avevo quel triciclo, quattro multe per divieto di sosta risalenti a qualche vita precedente, il tutto condito da sanzioni, interessi, diritti di riscossione e spese di notifica. Se non pagherò entro tre settimane, mi venderanno il piano all’asta. Pubblicheranno un avviso per dare appuntamento agli interessati qui, a casa mia, e lo aggiudicheranno al migliore offerente.

    E io che farò? Assisterò impassibile oppure offrirò una fetta di torta ai miei assassini? E perché no, magari mentre gusteranno il dolce e sorseggeranno della genziana, potrei intrattenerli con la musica. Se fossi un uomo di stile mi comporterei così. E se avessi senso civico mi direi: sono stato un cattivo cittadino, non ho onorato i miei debiti verso il mio diletto (!) stato, è giusto che lui mi porti via il pianoforte. Sennonché, non mi sento un uomo di stile a tal punto, e quanto a senso civico, ne ho, ma viene meno se lo stato agisce senza pietà contro un disperato che non riesce a consumare più di un magro pasto al dì.

    Si addice perciò alla mia natura servire, sì, una torta a quei gentiluomini, epperò farcita con veleno per topi.

    E mentre strisceranno agonizzanti ai miei piedi, gli suonerò una romanza di Frontini, che pare composta, almeno per il titolo, proprio per l’occasione: Dispetto!

    VIII

    Diciotto mesi trascorsi come portiere di notte, nell’albergo di una parente della moglie del compare. Senza contributi. E perché avrebbe dovuto versarmeli, quella megera, tanto non sarei mai andato dal sindacato, il compare non me lo avrebbe permesso. Oggi mi prude aver lavorato in nero, ma all’epoca mi stava a cuore solo di mettere da parte un gruzzolo, per acquistare il mio piccolo pianoforte a coda. Diciotto mesi di disperazione, cui potei sopravvivere grazie a uno stratagemma, ingenuo e insieme drammatico. Su un lungo rotolo di carta avevo disegnato con scrupolo una tastiera, grazie alla quale, seduto dietro al banco della portineria, riuscivo a studiare gli spartiti, pigiando sui tasti immaginari. Nella mia testa, però, il suono fluiva come vento attraverso le chiome delle querce.

    Una sera, era tardi, una cliente scese nella piccola hall, a quell’ora avvolta dalla penombra. Nello scorgere che mi accanivo su quella tastiera finta, si è messa a gridare. Pare per lo spavento. A tutt’oggi mi chiedo cosa ci fosse di terrifico. Ripeteva che sembravo uno spirito, un fantasma. Le fossi sembrato un invasato, l’avrei trovato plausibile, ma uno spirito? La gente ha paura dei morti, mica dei vivi.

    E comunque, la notte la passavo piegato sulla mia tastiera di carta, mentre di giorno ero così assonnato da non riuscire a far altro se non dormire. Diciotto mesi spesi in quel modo, sei giorni a settimana.

    Nel giorno di riposo non mancavo di andare a visitare il mio pianoforte. Il viaggio fino a Pescara era un tormento, trenta minuti di ansia e di afflizione, nel timore che lo avessero venduto. Quando giungevo davanti alla vetrina e lo trovavo ancora lì, la gioia mi muoveva fin quasi alle lacrime. Entravo per toccarlo, annusarlo, e se avessi avuto meno pudore, lo avrei persino leccato per sentirne il gusto. Chiedevo sempre le stesse informazioni, suonavo qualche nota e infine gli sedevo accanto, giusto per stargli un po’ vicino.

    La proprietaria del negozio, una donna mite e paziente, mi lasciava fare. Era al corrente che stavo racimolare il denaro e questo doveva rendermi ai suoi occhi degno di ogni comprensione.

    Durante i primi dieci mesi di portierato, quell’angelo non aveva mancato di

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