Clara
Di Anton Bianco
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Info su questo ebook
L’autore vive tra la città di Napoli e un borgo sul Golfo di Squillace, nella costa ionica, in Calabria. Dopo il diploma magistrale e studi privati di Inglese, ha lavorato presso una grande azienda industriale-siderurgica. Nel 2019 ha pubblicato, sempre con il Gruppo Albatros, la raccolta di poesie Erbe secche, con lo pseudonimo Filippo Anders. Clara è il suo primo romanzo.
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Anteprima del libro
Clara - Anton Bianco
Anton Bianco
Clara
© 2021 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com
ISBN 978-88-306-3081-9
I edizione gennaio 2021
Finito di stampare nel mese di gennaio 2021
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa
Clara
Ai miei cari
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Eugenio Montale – Ossi di seppia
I tempo
All’inizio, quando comincio ad avere memoria di me, a partire dal primo anno con lei, ricordo che veniva a prendermi il pomeriggio a scuola. Spesso camminavamo sotto la pioggia, lenta, leggera, teneva la mia mano dentro la sua enorme, mi domandava che cosa avevamo detto oggi, cosa studiato, cosa ci avevano dato da mangiare. La mano perduta dentro la sua sudava, la liberava spostandosi sull’altro lato. L’asciugavo strofinandola sul cappotto protetto da una specie di mantellina di plastica antipioggia.
Il primo inverno. Non sapevo chi fosse, c’erano delle dune intorno a me, gli oggetti non sembravano stabili, il rubinetto la notte sgocciolava e nel buio non riuscivo a trovarne un rimedio. Ricordavo solamente le minacce dell’insegnante, quella vestita sempre di nero, con le labbra rosse.
Sapevo che lei non dormiva, si vedeva la luce accesa della porta accostata, volevo dirle che l’acqua perdeva ma avevo paura, dormiva con la luce accesa? La notte avanzava e si stendeva come una marmellata di more nere, tante notti erano così prima di prendere sonno.
Era passata un’altra giornata senza un’ombra di sicurezza, a scuola come a casa, mi sentivo come un estraneo, un escluso.
Quando pioveva, lei non si fermava mai, mi tirava per mano, passi lunghi, troppo lunghi per me, sbatteva i piedi nell’acqua con passi rapidi, uscivano dalle pozzanghere scattanti come corvi neri.
Arrivati a casa, dava ordini a distanza mentre si spogliava: «Fai questo, fai quello, mettiti il pigiama, svelto, non dormire, tra poco mangiamo».
Mentre parlava, ritornava in me un curioso desiderio di volare, di sparire. Ma così piccolo dove potevo andare?
Appariva di nuovo come tutte le sere. Come la ricordo? Alta, capelli scomposti e umidi, neri, lunghi. Il suo corpo era sparito dentro una vestaglia, fiorata, lucida, colorata.
Mi diceva: «Siediti a tavola, studia qualcosa per domani, io intanto preparo da mangiare».
A tavola guardavo le sue grandi labbra, sentivo la sua voce, avvertivo il suo modo di essere con me intima ed estranea, protettiva e aggressiva. Dipendevo da lei, ma chi era?
Ci pensavo e non capivo; mi addormentavo con Paperino sotto la guancia, non spegnevo la luce (me lo diceva!) e la mattina lo trovavo sul comodino, la coperta rimboccata fino al collo e ben stesa, mi accarezzava di notte, si curava di me?
Pensando ai compagni di scuola, ai loro genitori, insomma a quello che vedevo intorno, avevo in mente, nel mio piccolo, di fare delle domande che poi tenevo dentro di me perché non sapevo come esprimerle.
Un giorno, tornando da scuola, (non pioveva, c’era il sole), le domandai se aveva il papà e la mamma e lei mi rispose: «No!» guardando davanti, con un timbro di voce che mi fece pensare a una violenta martellata su una lastra di marmo. Trattenni in gola una nuova domanda perché la sua risposta mi aveva messo paura e ansia. Pensavo che al momento giusto l’avrei tirata fuori, in un tempo che non riuscivo a immaginare e definire.
Mettevo in bocca quello che c’era nel piatto e incontravo i suoi occhi che mi guardavano di traverso, già con la sigaretta in bocca e il fumo che saliva, si sperdeva nell’aria. Cercavo un appoggio da qualche parte, un centro, il suo sguardo, la mia paura, il mio agitato rifugio nel mio lettino, un posto immaginato che non riuscivo mai a fissare da qualche parte, non venivo a capo di niente. Andava in camera sua, avvertivo un filo di luce, la radio al minimo, le labbra belle, grandi, il rossetto esteso rosso viola.
Ricordo una notte, svegliato dalla paura e coperto di sudore, entrai nella sua stanza, volevo chiedere aiuto, dormiva, un piccolo punto luce, sul comodino dei libri, portacenere pieno di mozziconi col filtro colorato di rosso. Mi avvicinai e toccai i suoi capelli lunghissimi. Ero vicino al suo viso, sentivo il suo calore, il respiro che odorava di fumo; si girò di colpo, mi tirò su da sotto le ascelle, mi strizzò come una spugna e mi stese sul suo corpo, mi baciò sulla testa, sulla faccia, sul collo, sentivo il profumo del rossetto sul viso.
«Che cosa fai qui?» mi chiese rimproverandomi senza rabbia «Perché non dormi, lo sai che tra poco devi andare a scuola, sei sudato, forse un po’ di febbre, domani mattina vediamo, per ora vai a letto».
Passata la paura, capii che non dormiva, teneva gli occhi chiusi, mi sentivo distrutto dalla vergogna perché non pensavo si accorgesse di me mentre la guardavo.
Il giorno dopo quell’incontro notturno, la maestra a inizio lezioni ci disse: «Ragazzi, ieri è morto il papà di Luigi, per questo oggi non è in classe» poi tutto procedette come gli altri giorni. Mentre lei spiegava qualcosa,