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C’era una volta il popolo: Storia della cultura popolare
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C’era una volta il popolo: Storia della cultura popolare
E-book739 pagine11 ore

C’era una volta il popolo: Storia della cultura popolare

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Chi meglio di Gianfranco Manfredi può fare un racconto avvicente ed esaustivo della cultura popolare dal I secolo dopo Cristo alla fine dell’Ottocento? Chi meglio del notissimo cantautore milanese, autore di romanzi e di saghe a fumetti che hanno raggiunto decine di migliaia di lettori, può passare in rassegna la cultura delle classi popolari che si esprime nel mondo rurale e castellano, nel mondo dei vagabondi e dei poveri, dei commercianti, dei lavoratori e delle plebi dei centri urbani fino alle soglie del Novecento?
A partire da una capacità di racconto che attinge a una vastissima conoscenza storica e ai generi più diversi, dai testi autoriali per la musica alla sceneggiatura televisiva, dalla scrittura per il fumetto al romanzo, Gianfranco Manfredi è tra i pochi grandi narratori in grado di proporre al grande pubblico una storia culturale dei rapporti tra ceti subalterni e classi egemoni.
Un libro dedicato alla cultura del popolo, quella cultura «dal basso» che ritroviamo nelle espressioni della vita popolare e negli stili di vita, nelle forme di comunicazione (dalla predicazione religiosa alla propaganda politica) e nei modi attraverso i quali si è dato forma e rappresentazione a quell’insieme sfuggente e mutevole che è il popolo. Un libro scritto da un grande amante e frequentatore della cultura popolare: un autore che ha saputo farla vivere nei suoi grandi racconti musicali, letterari, televisivi e a fumetti.

Gianfranco Manfredi (1948) è uno dei cantautori più importanti del decennio Settanta. Sceneggiatore cinematografico e televisivo, dagli anni Novanta passa al fumetto, dove, lavorando per la Bonelli editore, scrive storie per Dylan Dog, Tex e Nick Raider. Ha scritto e pubblicato saghe a fumetto di grande successo, quali Magico VentoVolto Nascosto e Shanghai Devil, oltre a numerosi romanzi (Cromantica 2008) e al saggio Ma chi ha detto che non c’è (2017).
LinguaItaliano
Data di uscita1 mag 2021
ISBN9788865483817
C’era una volta il popolo: Storia della cultura popolare

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    Anteprima del libro

    C’era una volta il popolo - Gianfranco Manfredi

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    Gianfranco Manfredi

    C’era una volta il popolo

    Storia della cultura popolare

    humanities

    © 2021 DeriveApprodi srl

    tutti i diritti riservati

    DeriveApprodi srl

    piazza Regina Margherita 27, 00198 Roma

    info@deriveapprodi.org, www.deriveapprodi.org

    Progetto grafico di Andrea Wöhr

    In copertina: Constantin Meunier, Les hiercheuses, 1885-1890

    L’editore rimane a disposizione degli eventuali aventi diritto sull’immagine di copertina

    Impaginazione e realizzazione digitale/Plan.ed

    www.plan-ed.it

    ISBN 978-88-6548-381-7

    Gianfranco Manfredi

    C’era una volta il popolo

    Storia della cultura popolare

    Premessa

    Di cosa parliamo oggi, parlando di Cultura popolare? Semplificazioni populiste e caos semantico convivono. D’altro canto, il caos viene da lontano, perché la definizione di popolo è cambiata nella stessa misura in cui si è trasformata storicamente la composizione di classe. Riferirsi alle classi sociali è indispensabile per riscattare il concetto di popolo dalla vaghezza, ma non semplifica affatto la questione, anzi la rende più complessa, in quanto si tratta di analizzare soggetti sociali in trasformazione, in patteggiamento o conflitto tra loro (lotta di classe), ma anche scossi da contraddizioni interne. E se si parla di cultura, non si può prescindere dal considerare le relazioni, non riducibili puramente ad antagonismo, tra i soggetti sociali, ad esempio l’influenza della cultura cosiddetta alta su quella cosiddetta bassa, e viceversa. Inoltre, rispetto alla tradizionale concezione della cultura popolare come essenzialmente contadina o proletaria, in raffronto o in contrapposizione a quella aristocratica o borghese, è da tempo diventato ineludibile, nella ricerca, allargare il campo ad altri soggetti socialmente sfavoriti, anzitutto le donne. Altrettanta attenzione ho ritenuto di dover dedicare a ciò che si è scritto sul popolo, nelle sue diverse componenti e nel suo insieme, e a come ci si è rivolti, nella comunicazione, al cosiddetto popolo. A tale ampliamento del campo d’indagine, dovevano inevitabilmente corrispondere dei limiti, dunque mi sono concentrato sulla storia dello spettacolo e del racconto nelle sue varie forme, e relativamente all’Europa occidentale e agli Stati Uniti. Infine, ho ritenuto necessario rimarcare un percorso oggettivo di progressiva trasformazione strutturale in direzione della cultura di massa, processo che si delinea con tratti decisivi alla fine del secolo lungo, e che conduce a conseguenze sistemiche caratteristiche della nostra epoca. Tali conclusioni sono state tratte non sulla base di ipotesi precostituite, tantomeno di assunti, ma in stretta connessione a uno sviluppo delle ricerche di cui mi sono sforzato di rendere conto in sintesi. I Lineamenti che qui propongo, vanno intesi sia nel senso di linee fondamentali che di fisionomia complessiva.

    1. L’arena e la chiesa

    De Spectaculis

    I teatri sono sentine d’impurità e di disonestà. Le tragedie, le commedie hanno in loro qualcosa d’illecito e di empio. Il teatro è cosa che ha in sé carattere demoniaco. Ogni godimento che può esser dato dagli spettacoli, è intimamente unito con qualcosa di empio, di sacrilego, di diabolico.

    Queste affermazioni costituiscono altrettanti titoli di capitoli del De Spectaculis di Tertulliano (155-230 ca.), un pamphlet ante litteram, scritto (in lingua latina) nel periodo tra il 197 e il 206, cioè quando i cristiani si trovavano a soffrire di atroci persecuzioni. Il testo può essere letto a diversi livelli: un manifesto teso a contrapporre radicalmente la nascente identità cristiana al paganesimo idolatrico; un contributo a un dibattito tutto interno al cristianesimo primitivo, che ha al suo centro l’atteggiamento da assumere nei confronti del martirio; la fondazione di un generale atteggiamento di ripudio nei confronti di qualsiasi forma di spettacolo. Quest’ultimo aspetto, sul quale concentrerò la mia attenzione, stabilisce parametri che avranno larga diffusione nel Medioevo e, in un mutato contesto, rifioriranno intorno alla metà del secolo XVI, quando il De Spectaculis e altri testi derivati torneranno a essere divulgati dalla Chiesa come orientamento dottrinario cui attenersi. Una questione preliminare. Le Sacre Scritture proibiscono gli spettacoli? I cristiani devono astenersene? Tertulliano (nel capitolo III) ammette:

    Ai Servi di Dio non si fa obbligo di simile rinunzia in modo pieno, assoluto ed esplicito. Ed infatti proprio chiaramente come si legge: non ammazzare, non commettere adulterio, non adorare idoli, non frodare, noi non troviamo che venga detto: tu non ti recherai nel circo, non nel teatro, tu non assisterai alle gare o agli spettacoli.

    Tertulliano però giudica la proibizione implicita, citando il re Davide: «felice l’uomo che non s’è recato nel concilio degli empi, che non s’è indugiato per la strada dei peccatori, che non si fermò nella sede degli scellerati». Tertulliano ne dà un’interpretazione «attuale» molto significativa:

    Agli spettacoli s’assiste anche dalla strada, e vie, appunto si chiamano gli spazi in giro tra le divisioni dei recinti che stabiliscono una divisione fra i posti riservati al popolo. Si chiama poi cathedra in teatro lo spazio nel quale questa folla di popolo sta seduta in giro. Così, usando l’espressione citata, inversamente, si potrebbe chiamare infelice chiunque si sarà recato in un concilio di empi, chiunque si sarà indugiato nella via dei colpevoli, chi si sarà fermato nei seggi dei perversi.

    La struttura architettonica stessa del teatro, secondo Tertulliano, si fonda su una divisione del popolo. Chi si sottomette a questa partizione entra nel circuito dell’empietà, ma più in generale:

    Per quel che riguarda l’origine degli spettacoli, da quando furono essi istituiti, non c’è spettacolo che non venga considerato come una riunione di gente empia e sacrilega.

    Tertulliano, tracciando una sommaria storia dello spettacolo, muove dagli antichi Lidi, migrati dall’Asia in Etruria. Da loro originerebbe il termine latino ludus, cioè gioco, equivalente a lusus, scherzo. Non si trattava però di meri spassi giovanili, ma di cerimoniali sacri in onore di Libero, dio contadino del vino (Liberalia); di Nettuno o Conso (Consualia) nel nome del quale si deliberò il ratto delle Sabine; e di Marte (Equiria). Compare qui già una classificazione degli elementi costitutivi della perversità, agli occhi cristiani, dei giochi: il culto contadino dell’ebrezza; il culto maschile dell’abuso sessuale sulle donne; il culto militare della violenza e dell’odio. A questi elementi si aggiunge in seguito il culto dello sfarzo che è celebrazione di quel Potere terreno che un cristiano avversa, perché fedele all’unico Signore, ultraterreno, da lui riconosciuto.

    I giochi circensi sembra però che abbiano tutto un apparato più pomposo e più splendido: precede ad essi appunto un corteo magnifico, detto pompa o processione, ed essa dimostra proprio il carattere che essi hanno, con tutta quella serie di simulacri e d’immagini […] e prima e nel più bel mezzo della processione stessa e dopo; quanti collegi sacerdotali, quante sacre istituzioni, quante pratiche sono con essi collegate!

    Lo spettacolo della violenza è quello che più ripugna Tertulliano: infliggere percosse e ferite, mutilare, esporre degli «sciagurati» alla furia delle belve feroci, fino a farli scannare. I cristiani sono spesso le vittime predestinate di questi presunti giochi, ma anche se non lo fossero, non potrebbero mai ammetterli, né assistervi da spettatori. Eppure è fosco il suo gran finale, che mette in scena il terribile spettacolo del Giudizio universale, quando:

    I grandi autori tragici non canteranno più le sventure degli altri, ma bensì piangeranno le proprie calamità... e come gli istrioni salteranno e si moveranno più agilmente, che il fuoco avrà loro sciolto le membra! Si vedrà allora chi una volta guidò la quadriga ad una ruota, in pieno ardore di fiamma, si vedranno non più gli atleti esercitarsi nelle loro scuole, ma nel tormento del fuoco.

    Dunque l’Apocalisse mette in scena il peggior arsenale dello spettacolo pagano, condensato nei tormenti inflitti agli autori di tragedie, agli istrioni, agli atleti. Di fronte a questo spettacolo, Tertulliano distoglie pietosamente lo sguardo alla ricerca degli umili e dei perseguitati redenti («quel figliuolo di un fabbro, di un povero operaio che traeva la vita dal lavoro giornaliero, il distruttore del sabato, il Samaritano, quel che pareva avesse in sé una potenza strana ed avversa»), in attesa di una nuova visione mai affacciatasi prima alla mente dell’uomo («tutte le altre immagini che non cadono sotto i nostri occhi, non colpiscono i nostri orecchi, né sono mai giunte fino all’intima mente dell’uomo»).

    Dalla nonviolenza alla milizia cristiana

    Costantino I, imperatore romano dal 306 al 337, non legalizzò il cristianesimo perché ne fosse particolarmente devoto, ma per una questione utilitaristica e di convenienza politica. Scrive Edward Gibbon nella sua ponderosa Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano:

    L’animo di Costantino poteva fluttuare fra la religione cristiana e quella pagana. Secondo le libere e tolleranti nozioni del politeismo, egli poteva riconoscere il dio dei cristiani come una delle molte divinità che componevano la gerarchia celeste¹.

    I cristiani finalmente riconosciuti dopo tante persecuzioni, dal conto loro, potevano vedere in questo riconoscimento e in Costantino stesso un disegno della Provvidenza. E, inserendosi nei pubblici uffici, non trascurarono l’esercito.

    Le consuetudini sociali e l’interesse di religione ridussero gradualmente quell’orrore per la guerra e il sangue, che aveva così a lungo prevalso tra i cristiani; e nei concili, convocati sotto la benevola protezione di Costantino, fu opportunamente impiegata l’autorità dei vescovi per confermare l’obbligo del giuramento militare e comminare la scomunica a quei soldati che gettavano le armi durante la pace della chiesa².

    E così la croce finì per essere ostentata sullo stendardo, sugli elmi, sugli scudi dei soldati di Costantino.

    Stacchiamoci da Gibson per considerare la croce in quanto segno identitario. Secondo alcuni studiosi il lemma populus deriverebbe nei latini, non da radici indo-europee, bensì dalla lingua proto-italica che lo collega alle armi. In altre parole, popolo non indicherebbe una generica popolazione di un dato territorio unita da una comune cultura, bensì un’identità raggiunta attraverso la costituzione di un esercito. E in un esercito, da che mondo è mondo, convivono differenze di classe (in ordine digradante tra i comandanti e i soldati semplici), differenze di militanza (costrittiva, volontaria, mercenaria) e differenze culturali e di provenienza territoriale (non certo trascurabili nell’esercito dell’Impero). I cristiani, dal canto loro, nella Bibbia, più precisamente nell’Antico Testamento, vedevano coesistere popolo di Dio e soldati di Dio. Invero, pare che la definizione ebraica di Dio degli eserciti si riferisse alle schiere celesti, cioè alle stelle, ma il popolo eletto non aveva certo esitato a impugnare le armi, per la conquista e la difesa della Terra promessa. Dio stesso, nella Bibbia, ordinava spietati genocidi. I cristiani dunque, nell’epoca della loro avvenuta istituzionalizzazione, trovano nelle Sacre Scritture molti appoggi per assumere un’identità non più di minoranza religiosa, ma di popolo in armi per la causa divina. Qui si costruiscono i fondamenti della figura del crociato, il guerriero della fede. Le crociate, cinque principali più altre minori, si prolungarono per più di quattro secoli. Papa Pio II finanziò e volle partecipare personalmente all’ultima. Cercò, per quanto stanco e malato, di imbarcarsi ad Ancona, ma vi giunse defunto, il 14 agosto 1464. Steven Runciman nella sua Storia delle crociate commenta:

    Quasi quattro secoli prima papa Urbano II, con la sua predicazione, aveva mandato migliaia di uomini a rischiare la vita nella guerra santa: ormai neppure un papa che si faceva crociato otteneva altro risultato che quello di raccogliere pochi mercenari, lesti ad abbandonare la causa ancora prima che avesse inizio la campagna. Lo spirito crociato era morto³.

    Lo spettacolo della violenza e la violenza nobilitata

    I ludi circenses tanto avversati dal cristianesimo primitivo, con il cristianesimo al potere sono cessati o si sono semplicemente trasformati? A uno sguardo di superficie, nei tornei cavallereschi, la morte non è più programmata, ma incidentale, e i contendenti non si scontrano per conquistarsi la libertà, ma per competere nella destrezza e dunque nella fama. Tuttavia i tornei che si diffondono in tutta Europa a partire dal XII secolo, diventando sempre più spettacolari e fastosi, hanno una storia pregressa. Partiamo dalle cosiddette battagliole. Se ne trova testimonianza in cronache pavesi dell’anno 877. Si trattava di finti combattimenti, con protagonisti soldati e giovani, perché non infiacchissero e perché dessero dimostrazione di talento guerriero, esercitandosi di fronte a un vasto pubblico. Questa tradizione si perfeziona e si allarga progressivamente. Sempre a Pavia, al principio del XIV secolo, l’intera città si divide in due opposte fazioni che combattono tra loro con armi di legno, sia schieramento contro schieramento, sia in duelli uno contro uno. Una di queste battagliole, a Ravenna, degenerò in una vera e propria carneficina. Una mappa del 1187 della città di Modena, mostra che appena fuori della città c’era un pratum de batalia specificamente dedicato a questi combattimenti. Ludovico Antonio Muratori (Rerum italicarum scriptores, 1723) ricorda che a Siena nel 1191 si regolamentarono queste battaglie, vietando l’uso di bastoni e di sassi, e limitandole a risse e scazzottate. La pugna indica, da questo momento, uno scontro a pugni. Insomma si inscenava una guerra civile simulata, ma nei fatti accesamente praticata, tra una parte della città e l’altra, e tra diversi quartieri, ciascuno con le proprie insegne. Un coinvolgimento popolare capillare e al contempo non uno scontro di classe perché in ogni singola fazione c’erano signori e sudditi, ricchi e poveri.

    E veniamo ai tornei cavallereschi in senso proprio. Nascono in Francia e si diffondono in Italia nel corso del XII secolo. Alle origini sono combattimenti senza regole, nel quale il rischio di morte è elevatissimo. Il Muratori scrive che vengono praticati «da schiere di cavalieri armati che formano vari giri coi loro cavalli e si feriscono con lance e spade spuntate e ottuse, tuttavia con armi alle volte aguzze e a guisa in certa maniera di nemici si facevano tali giochi, cosicché col sollazzo si intrecciavano quasi sempre la morte di qualche nobile; giacché solamente dai nobili si facevano questi giochi». Il Concilio Laterano II (1139) e il Concilio di Reims (1148) e successivamente altri, vietarono i tornei, ma questo costume, dice sempre il Muratori, «sì alte radici aveva fatto, che non si poté sradicare». Comincia però una regolamentazione progressiva che esclude l’uso di armi non spuntate e fissa in sempre più minuti dettagli quali armi debbano essere usate per l’offesa e quali per la difesa, quali colpi siano ammessi e quali no, oltre che norme su elmi, corazze, bardature e regole cerimoniali per le sfilate e per i saluti. Tutto questo limitò, ma non evitò il ripetersi di incidenti mortali che, del resto, potavano verificarsi anche per una semplice caduta da cavallo. Tuttavia, una volta stabilite simili regole di prevenzione, la Chiesa, nel 128, revocò il divieto. Il fatto che in questi scontri i protagonisti fossero i nobili, di fronte al popolo, da un lato offriva loro un’opportunità di esibire valore guerriero, ricavandone stima e onore per se stessi e per le rispettive insegne, dall’altro nobilitava la violenza, elevandola attraverso l’esibizione di talento, a virtù. Nella monumentale opera di Steven Pinker, Il declino della violenza⁴, si cita il medievalista Richard Kaeuper⁵ che ha calcolato il numero di atti di estrema violenza decritti nel Lancillotto, romanzo capostipite del genere cavalleresco, scritto da Chrétien de Troyes (1135-1190 ca.). Se ne contano in media uno ogni quattro pagine. Teste spaccate, decapitazioni, mutilazioni, corpi schiacciati sotto gli zoccoli del cavallo, nemici arsi vivi, donne torturate e stuprate. Queste vanno cavallerescamente rispettate se viaggiano sole, ma se sono in compagnia di un cavaliere e un altro se le aggiudica in battaglia, «il vincitore può prendere la dama o la fanciulla in qualunque modo desideri, senza incorrere in vergogna o colpa».

    La canzone di gesta

    Lo spettacolo cavalleresco della violenza trasmise al popolo con il gusto per la destrezza, l’ammirazione per la nobiltà guerriera? Com’è possibile che da un popolo vittima di frequenti razzie subite da torme di pellegrini e da eserciti raccogliticci che non andavano in Terra Santa via mare, ma via terra, depredando al passaggio i villaggi contadini e stuprando le donne, com’è mai possibile che da queste tragiche esperienze sia potuta germinare nel popolo e dal popolo un’epica guerresca espressa in canzoni celebrative di veri o presunti, storici o inventati eroi? La risposta è semplice: non è possibile. Le canzoni di gesta non sono affatto nate dal popolo. Sono stati i romantici a diffondere questo mito del popolo che nell’epica trova riscatto e identità, costruendo culture nazionali, ma questo mito è destituito di ogni fondamento.

    Antonio Viscardi spiega che «non esiste una poesia popolare francese delle gesta, nazionale, prima del Roland»⁶, opera di un poeta appartenente al mondo dell’«alta cultura», cioè Turoldo (come viene chiamato nel codice di Oxford). Non si tratta da parte sua di una mera rielaborazione di una leggenda già «bell’e fatta e definita», ma di una vera e propria creazione di tema e di forma. Non risultano, in epoca antecedente alla Canzone di Rolando (un autentico capolavoro della letteratura francese composto nella seconda metà del secolo XI), testimonianze circa saghe dei paladini carolingi, canti epici giullareschi, tradizioni poetiche popolari, menzioni e commenti su questa produzione dal basso che, secondo gli interpreti romantici, si sarebbe sprigionata già dal secolo VIII e per i due successivi. Non si trova, in alcuno scritto, nemmeno nominato Rolando. «Il fatto è» conclude Viscardi, «che fino all’XI secolo i chierici tacciono sulle canzoni di gesta, ma a partire dall’XI secolo, non perdono occasione per parlarne. Ademaro di Chabannes (1043) e Rodolfo Glabrio (1048) ignorano ancora gli eroi epici; subito dopo si trovano nei testi clericali allusioni precise e frequenti a quegli eroi»⁷.

    Camillo Guerrieri Crocetti nella sua Introduzione all’antologia di testi Il Cid e i cantari di Spagna sostiene la stessa tesi riguardo alla produzione epica spagnola dal basso: «Sono stati compiuti sforzi giganteschi per dimostrare l’esistenza di un’antica epopea spagnola»⁸. Sforzi vani perché quest’antica epopea vastamente diffusa non è stata rimossa, semplicemente non è mai esistita. In Spagna, «certe tradizioni e leggende sorsero dal fervido zelo con cui, in speciali circostanze storiche, alcuni uomini di chiesa furono indotti a infondere un particolare spirito a determinati avvenimenti dei tempi passati e a prospettarli nella maniera più conveniente, secondo la tesi ch’essi volevano propugnare e diffondere»⁹. Insomma, la diffusione giullaresca e popolare delle canzoni di gesta è un risultato, non un’origine. L’origine è colta.

    Nella diffusione, questo repertorio elevato e per molti versi anche di intento proselitistico, sviluppa caratteristiche anche poco edificanti, dal punto di vista degli uomini di chiesa. Antonio Viscardi e Gianluigi Barni nel loro tomo L’Italia nell’età comunale chiariscono che «tutte le canzoni della fine del XII e del XIII secolo documentano con estrema evidenza il passaggio dal tono tragico al comico, dalla letteratura illustre alla letteratura di tono minore, cioè giullaresca»¹⁰. Questo passaggio viene giudicato dagli autori una «degradazione», operata da «abili mestieranti» che forniscono un repertorio ai giullari rielaborando temi e spunti diffusi in nuove narrazioni celebrative delle «mirabili storie dei paladini». Ora: per quanto la ricostruzione sia impeccabile, va precisato che una discendenza non è necessariamente una degradazione. Il repertorio derivato infatti, in questo caso, acquista una sua autonomia e proprie caratteristiche estetiche, nel contatto con un più vasto pubblico. Il pubblico, nel maggiore o minore gradimento per le singole canzoni, nell’applauso, nei fischi o nell’indifferenza, e in molti altri modi, anche sottilissimi, influenza la formazione del repertorio. Cioè l’opera si ridefinisce nel rapporto tra autori, interpreti e pubblico. Mentre all’origine si poteva considerarla in sé, nella sua diffusione popolare è opera per noi. E questo noi non è affatto neutro, né puramente passivo. L’opera dipende da come viene largamente percepita. E la percezione del pubblico, a sua volta percepita dagli agenti in scena, nell’istante, nella precisa circostanza, suscita improvvisazioni, scarti e adattamenti. In altre parole, l’opera cambia nel suo stesso rappresentarsi.

    L’Altro mondo e il mondo Altro

    L’Occidente cristianizzato si trovava di fronte anche un’altra sfida: quale rapporto avere con l’immaginario popolare sedimentato nel mondo pagano classico, greco-latino, in quello più generalmente mediterraneo, dunque anche africano, in quello d’origine orientale, e in quello barbarico? Tutti questi mondi, mescolati insieme, avevano formato quella che si potrebbe definire una cultura dell’inconsueto. Cioè: quale disposizione mentale ed emotiva e quale comportamento assumere di fronte a disordini atmosferici, come tuoni a ciel sereno, grandinate di inaudita violenza, meteore, terremoti, eclissi di sole e di luna; di fronte ad anomalie biologiche, come malformazioni e mostruosità congenite di animali ed esseri umani; di fronte ad anomalie psichiche, stati deliranti, disturbi comportamentali, fissazioni e manie; di fronte a esperienze oniriche, apparizioni, premonizioni; di fronte a prodigi e miracoli, come a indicibili orrori e fatali disgrazie? E a quale universo simbolico fare riferimento? Scrive Michel Meslin:

    I cristiani condividevano la tradizione comune al mondo antico di una ferma credenza nel valore dei prodigi, dei presagi, dei miracoli. […] Negli Atti degli Apostoli e nei martirologi il meraviglioso interviene sotto molteplici aspetti e costituisce un vero linguaggio compreso dai credenti che vedevano in quei segni inviati da Dio, la valorizzazione e la santificazione dell’eroismo religioso. […] Quando il cristianesimo fu tollerato e poi riconosciuto come religione ufficiale e non vi fu altra testimonianza possibile di fede se non quella del ritiro dal mondo, la vocazione monastica sostituì l’ideale del martirio¹¹.

    Questa è una trasformazione essenziale rispetto all’epoca di Tertulliano. Nel cristianesimo istituzionalizzato non tramontano i martiri (le crociate ne produrranno altri), ma la diversità dei cristiani si esprime come ritiro dal mondo, cioè nella vita monastica. Sono i monaci, anzitutto, ad assumere il meraviglioso come prova della grandezza divina, della propria santità attraverso le visioni mistiche, come annuncio dell’uomo nuovo, interiormente cambiato, liberato dai limiti dalla carne attraverso la promessa della resurrezione e della redenzione, e in grado di leggere i segni e le manifestazioni di Dio nella Storia. Philippe Ménard in un altro saggio del libro sopra citato, scrive:

    Il Medioevo è l’epoca dei prodigi e dello straordinario. Il meraviglioso pervade tutte le arti, si manifesta nelle facciate delle chiese romaniche su cui formicolano mostri e creature fantastiche, popola i capitelli di draghi, di grifoni, di serpenti dalle inquietanti volute. S’insinua negli arazzi con liocorni e selvaggi che brandiscono clave o rapiscono fanciulle indifese. Si palesa nei margini dei manoscritti dove le buffonerie, le grottesche metamorfosi di una folla di esseri ibridi attirano lo sguardo, si rivela del pari nella letteratura, nelle vite dei santi, nelle visioni dell’aldilà, nei miracoli della Vergine, nella chanson de geste, nei romanzi della Tavola Rotonda, nelle cronache di viaggio, in sapienti trattati e nelle enciclopedie. Come un’arietta sottile, lo si respira ovunque ed è ben presente nella vita degli uomini¹².

    È evidente che un simile accumulo simbolico è frutto di un sincretismo culturale che accoglie mirabilia di ogni genere nella contaminazione e nella riassunzione di molte e diverse tradizioni e culture. Si potrebbe dire che dal monoteismo germina un tentativo di mono-umanesimo nel quale il cristiano si pone al centro dell’intera Storia umana, muovendo dal multiculturalismo per ridurre ad unum omnes. In questa assunzione, molto va però espulso. Ci sono prodigi divini e ci sono prodigi frutto di arti diaboliche. I monaci si adoperano a moralizzare il meraviglioso in modo da farne uno strumento pedagogico al servizio della diffusione del messaggio cristiano.

    Secondo Elisabeth Claverie (il suo saggio è incluso nell’antologia sopra citata di Meslin) la base sociale della cultura del meraviglioso è costituita dai contadini e dai vagabondi. I primi conservano non solo tradizioni, ma stili di vita e modi di pensare dei loro avi, tra i quali rientra anche l’idea di una super-natura che periodicamente pare manifestarsi rompendo i ritmi e le fasi cicliche della natura. I secondi, proprio perché nomadi, recano notizie, storie, fiabe e leggende da un luogo all’altro. Non riferiscono soltanto di eventi prodigiosi o sovrannaturali, ma comunque meravigliosi, per i contadini, perché giungono da un altro mondo rispetto a quello in cui vivono. Vicende che essi possono confrontare e collegare alle proprie esperienze e narrazioni mescolabili alle loro, e tramandabili di generazione in generazione.

    E siccome durante le veglie si narravano anche leggende, i temi si confondevano e personaggi e luoghi noti nel villaggio nello stesso racconto finivano per trovarsi mescolati ai nani, ai lupi mannari o alle fate in foreste sconosciute o venivano trasportati per aria o tramutati in donnole o cavalli.

    Il mondo rurale ha custodito, tramandato e sviluppato questo patrimonio di storie meravigliose, fin quasi ai nostri giorni. Nella cultura contadina il di-vertimento, inteso come distacco momentaneo dal lavoro, è ri-creazione che trasgredisce con estrema disinvoltura i confini tra antichi e contemporanei, accumula repertori folclorici disparati, e abbatte la distinzione tra sacro e profano. La cultura contadina è assai più mobile e insieme sincretica di quella ufficiale.

    1 / E. Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano, trad. it. Einaudi, Torino 1967.

    2 / Ibid.

    3 / S. Runciman, Storia delle crociate, trad. it. Einaudi, Torino 1966.

    4 / S. Pinker, Il declino della violenza, trad. it. Mondadori, Milano 2013.

    5 / R.W. Kaeuper, a cura di, Violence in Medieval Society, Boydell Press, Woodbridge, Suffolk 2000.

    6 / A. Viscardi, Le letterature d’Oc e d’Oïl, Sansoni, Firenze 1967.

    7 / Ibid.

    8 / C.G. Crocetti, a cura di, Il Cid e i cantari di Spagna, Sansoni, Firenze 1957.

    9 / Ibid.

    10 / A. Viscardi – G. Barni, L’Italia nell’età comunale, in AA. VV., Società e Costume. Panorama di storia sociale e tecnologica, Utet, Torino 1963-1972.

    11 / M. Meslin, a cura di, Il meraviglioso. Misteri e simboli dell’immaginario occidentale, trad. it. Mursia, Milano 1988.

    12 / Ménard, in ibid.

    2. La chiesa e la piazza

    La città medievale

    Agli albori del Medioevo, in Italia, la chiesa e la piazza costituiscono il centro della vita cittadina. La piazza può essere antistante al sagrato della cattedrale o agli edifici dell’autorità pubblica e dell’amministrazione della giustizia, ma può anche integrare le diverse istituzioni e avere doppia funzione: religiosa e civile. La piazza ha poi una terza funzione come sede del mercato. E il mercato può a sua volta sdoppiarsi: quello popolare delle erbe e dei venditori ambulanti, e il più aristocratico mercato coperto delle logge. Questa struttura urbanistica rappresenta dunque insieme una centralizzazione del potere e il suo decentramento. La centralizzazione si esprime attraverso la compresenza di distinti ma correlati poteri: quello civile, quello religioso e quello commerciale. Allo stesso tempo, nei quartieri artigiani attorno alla piazza, si sviluppano attraverso le corporazioni, forme di autogestione professionale e sociale e identità culturali di quartiere. Dal XII al XIV secolo crescono anche gli scambi tra la campagna che produce derrate alimentari e la città che produce beni durevoli nelle botteghe artigiane. Si sviluppa inoltre il mercato globale degli scambi, a partire dall’alimentare (cereali, vino, spezie), e dall’abbigliamento (si esportano in oriente pelli, pellicce e panni di lino, e si importano seta e lana). Intensi pure gli scambi di materiali destinati all’edilizia (legno, pietra), all’industria navale, a quella metallurgica e domestica (come la cera per le candele). Nelle fiere, che si tengono spesso durante le festività, trattative commerciali e traffici finanziari, celebrazioni religiose e incontri tra delegazioni civili anche di diversi paesi, tornei e giostre cavalleresche, costituiscono un tutt’uno. Allo stesso tempo la vita sociale è assai più articolata: nobili e ricchi, mercanti e artigiani, bottegai e nuovi ceti professionali, salariati e precari, disoccupati e vagabondi, poveri d’origine e impoveriti, mendicanti e piccoli truffatori, coabitano le città e intessono strette relazioni nell’estrema disparità delle condizioni. La dinamicità della crescita urbana si esprime tra due poli emotivi: l’euforia per la circolazione dei beni e delle culture, e i timori dovuti alla precarietà dell’esistenza, non solo per i frequenti rovesci economici, ma anche per le condizioni sanitarie spesso emergenziali. Fede e magia si contrappongono, ma si corrispondono, e spesso si confondono. Tra i banchi del mercato, compaiono i venditori di amuleti e di medicamenti portentosi che si mescolano ai venditori di simboli religiosi e di sacre reliquie.

    Il teatro ecclesiastico

    Il teatro pagano tanto biasimato da Tertulliano è stato abolito, i suoi stessi edifici distrutti, eppure rinasce nel cuore stesso della Chiesa. La cattedrale, con la sua disposizione e separazione dei posti, le luci oculatamente disposte, gli effetti scenografici, le nicchie, l’altare e i sepolcri, i privatissimi confessionali e il rito partecipato, gli echi sonori, la musica, le seduzioni visive, gli incensi, la distribuzione dell’ostia e del vino, tutti i sensi mobilitati, è di per sé un teatro. E la teatralità dilaga nella piazza con tutto il suo pomposo e splendido apparato. Le processioni circensi stigmatizzate da Tertulliano, replicano in tutto e per tutto le loro caratteristiche nei cortei religiosi: simulacri e immagini, carri, cocchi, lettighe portatili, corone, spoglie, e «quante sacre cerimonie e sacrifici si compiono e prima e nel più bel mezzo della processione stessa e dopo; quanti collegi sacerdotali, quante sacre istituzioni, quante pratiche sono con essi collegate!».

    Primo spettacolo, la messa stessa. «La messa non è altro che il vero dramma, senza che ce ne sia l’intenzione» (De Sanctis); «La messa è un piccolo dramma, con tutte le unità» (T.S. Eliot). Lo studioso di storia del teatro Agostino Lombardo così sintetizza: «Proprio dalla liturgia il dramma, dopo lunga parentesi, riprende il suo cammino»¹. Il dramma liturgico mette in scena la Natività (il presepe) e il Sepolcro, e narra, raffigura e recita episodi tratti dall’Antico Testamento (la cacciata dal giardino dell’Eden, il sacrificio di Isacco), dai Vangeli (l’Annunciazione a Maria, la resurrezione di Lazzaro, la Passione), dalle epistole (la conversione di San Paolo sulla via di Damasco), dalla Rivelazione (il Giudizio), e dalle vite dei santi e dei martiri. Dario Fo, in Mistero Buffo (1969), si ricollega direttamente a questa tradizione, pur mescolandola alla giullarata. L’opera teatrale di Fo mette in scena degli episodi: la resurrezione di Lazzaro, la storia di San Benedetto da Norcia, Maria alla Croce (monologo di Franca Rame), il miracolo delle nozze di Cana e, dai Vangeli Apocrifi, il primo miracolo di Gesù Bambino. Nella scena dedicata a Bonifacio VIII, contrappone la sontuosa processione di Bonifacio in pompa magna al corteo dei seguaci di Gesù, che rispecchia, seppure in forma più popolaresca e certo assai più libertaria, i dettami semplici e austeri del cristianesimo primitivo quali espressi da Tertulliano.

    La seconda fase del teatro ecclesiastico segna il superamento del dramma liturgico verso sacre rappresentazioni che si spostano gradatamente dal coro alla navata, dall’atrio al sagrato, cioè alla piazza, per poi dilagare per le strade. Il latino viene definitivamente soppiantato dal volgare. In Inghilterra nasce il miracle play, recitato all’aperto. Non è soltanto il clero a organizzare questi spettacoli che rappresentano momenti delle vite dei santi, ma anche e soprattutto le corporazioni di arti e mestieri. Queste rappresentazioni si diffondono nel Trecento e nel Quattrocento e continuano nei due secoli successivi. «Lo stesso Shakespeare sembra avervi assistito», sottolinea Agostino Lombardo. Nel loro sviluppo, i play escono progressivamente dal tracciato dei racconti biblici e delle vite dei santi, realisticamente inscenati, per affollarsi di figurazioni allegoriche: angeli e diavoli, rappresentazioni dei peccati, dei vizi e delle virtù. Non è questo soltanto un processo di astrazione simbolica, ma il tentativo di mettere in scena i conflitti interiori e di favorire una riflessione sul dramma dell’animo umano di fronte alla scelta tra bene e male.

    Non va trascurato il fatto che il centro di queste rappresentazioni venga occupato dal miracolo. Miraculum in latino significa cosa meravigliosa. Nella concezione cristiana primitiva, l’ammirazione della cosa viene respinta come idolatrica. Eppure nella religiosità organizzata e popolare, la cosa tornerà o continuerà ad avere un ruolo centrale: nelle reliquie di santi, ad esempio, e nella produzione di oggetti religiosi, come il crocefisso e il rosario (a partire dal XIII secolo). Altro aspetto è costituito dal miracolo come evento meraviglioso, anche nel senso di fenomeno inspiegabile sul piano delle leggi di natura, e dunque spiegabile unicamente con l’intervento divino. Le divinità pagane mutano i corsi delle battaglie, guariscono e intimidiscono, recano doni e chiedono sacrifici, si mescolano agli umani prendendo parte attiva nella loro storia, intrattengono persino rapporti sessuali con gli umani e possono avere figli semidivini. Di tutti questi aspetti, il cristianesimo istituzionalizzato non potrà fare a meno. Un Dio distaccato, al di là di ogni possibile raffigurazione in immagine, un Dio mosaico che quand’anche appare non può essere guardato perché la sua vista accecherebbe, un Dio totalmente Altro rispetto agli umani, o per usare la definizione di Paolo di Tarso, un Dio sconosciuto, contrasta con le esigenze proselitistiche di una predicazione popolare. Ecco allora che da un lato si impone una raffigurazione di Dio sempre meno simbolica e astratta, e sempre più antropomorfa, dall’altro la presenza di Dio viene rimarcata attraverso atti prodigiosi che ne attestano la concreta manifestazione: cioè i miracoli. E dunque il confine tra religione e magia si fa sottilissimo. Si può dire che il popolo non lo percepisce neppure passando dall’una all’altra senza afferrarne la distinzione.

    Al miracle play, si affianca e subentra il morality play. Anch’esso ha un suo fondamento liturgico, nei sermoni e nelle omelie in chiesa, e all’esterno nelle predicazioni dei frati girovaghi. Ma si fa più stretto anche il rapporto con la letteratura non confessionale dell’epoca. Il testo, sovente in rima, si modella su uno stile più elevato. Se la religiosità resta al centro della rappresentazione, essa è nondimeno più colta e meno popolare, più intellettuale e meno immediata, più riflessiva e meno emotiva, più verbale e meno gestuale.

    Il processo di secolarizzazione (nel senso di una maggiore autonomia dal credo religioso) si compie con gli interludi, destinati a un pubblico scelto, recitati durante i banchetti, nelle scuole, nei collegi. Le motivazioni estetiche e artistiche qui risultano più evidenti, come ideale e come obiettivo della rappresentazione. Allo stesso tempo, però, dalla morale come conflitto interiore ed eterno, si passa alla politica, come conflitto sociale e attuale. Al dramma si mescola la satira. La comicità si colora di invettiva. Nell’interludio dello scozzese Sir David Linsday (1488-1555 ca.) A Satire of the three Estates (Satira dei tre stati), John the Commonwealth, personaggio simbolo del popolo scozzese, muove all’attacco di clero, nobiltà e mercanti. Paradossalmente, ma non tanto, in quanto siamo in pieno Cinquecento, nei palazzi del potere, attraverso una mediazione intellettuale, risuona la voce del popolo.

    I preti itineranti

    Edmond Faral (1882-1958) nel suo Les jongleurs en France au Moyen age scrive: «C’erano stati, in Gallia, in Inghilterra, in Irlanda, ai tempi dell’evangelizzazione, preti erranti che cantavano alla maniera dei mimi, per divertire e istruire il popolo, senza altro scopo che quello religioso»². Qui Faral fa riferimento alle predicazioni e alle narrazioni delle vite dei santi, cui ho già accennato, e che peraltro, difficilmente si possono considerare del tutto disinteressate, in quanto a esse faceva seguito la colletta. Faral precisa, comunque, che la maggior parte dei predicatori itineranti, pur provenendo dalle scuole e dal clero studioso, si erano ritrovati per diverse ragioni emarginati o in disgrazia. «C’erano quelli precipitati dal loro rango per qualche indegnità; quelli che per schiettezza e indipendenza erano stati per sempre esclusi dai benefici e dalle prebende; quelli che avendo disprezzato la loro vocazione preferivano secolarizzarsi. E soprattutto c’erano quelli che avevano dovuto rinunciare agli studi per la loro estrema povertà: il tempo libero costa caro»³. Da questa base inquieta nascono le proteste religiose e le accuse di corruzione rivolte alla gerarchia ecclesiastica, che si esprimono anche in violenti libelli satirici che andranno a costituire i testi di riferimento dei sacerdoti dissidenti vaganti. La figura di Prete Liprando, che accusa di ladrocinio e di simonia l’arcivescovo di Milano, celebrata da Dario Fo in una celebre canzone interpretata da Enzo Jannacci (Prete Liprando e il Giudizio di Dio, 1965) va considerata in questo contesto.

    Se è difficile pronunziarsi in merito all’efficacia della predicazione dei preti e frati itineranti, ci si può fare invece un’idea abbastanza precisa della loro diffusione capillare sul territorio. Jean Delumeau scrive: «Questi nomadi dell’apostolato esortano innanzi tutto alla penitenza annunciando prossime punizioni. Sono a volte accompagnati lungo il loro percorso da alcuni penitenti, ascoltatori del giorno prima che vogliono prolungare la cura spirituale e compiono al loro seguito una sorta di pellegrinaggio di espiazione»⁴. Queste predicazioni si distribuiscono su un arco di tempo di almeno quattro secoli, dal XII al XVI. Spesso includono spettacoli di massa in cui si mette in scena il Giudizio universale. A una di queste rappresentazioni, a Xanten, partecipano migliaia di figuranti. All’alba del Cinquecento, secondo William Monter, «il tasso di ecclesiastici per 1000 abitanti era forse 5 volte maggiore di quello che oggi si ha nelle regioni europee in cui più radicata e massiccia è la presenza del cattolicesimo»⁵.

    Trafficanti di reliquie e questuanti

    La predicazione apocalittica e le istanze di purificazione non si rivolgono necessariamente contro la Chiesa organizzata. Il fenomeno dei preti vaganti che passano di borgo in borgo, ma spesso si fermano a lungo nelle città più popolate, va letto all’interno di un fenomeno più vasto di diffusione della devozione religiosa, nel quale è difficile discernere l’intrattenimento pio, l’educazione, il proselitismo, cioè gli scopi puramente religiosi di cui parla Faral, dal mercato della religione. Le crociate erano state precedute dai pellegrinaggi in Terra Santa. Le prime ondate si erano verificate intorno al 450, quando eminenti ecclesiastici avevano proclamato che presso le tombe dei santi e grazie alle loro reliquie si sarebbe potuto ottenere l’aiuto divino con profluvio di miracoli. Sembrava d’altronde che qualcuno avesse provveduto a spartire le spoglie dei santi, perché dello stesso santo si poteva trovare (e acquistare) un pollice in una città, il corpo in un’altra e la testa in un’altra ancora. A Costantinopoli si potevano ammirare: la corona di spine, la tunica di Cristo, il mantello del profeta Elia, la chioma di Giovanni Battista. Dai viaggi in Terra Santa, quando le vie diventarono più sicure, fiorì un vero e proprio traffico turistico di cui profittò persino Carlo Magno che stabilì in Palestina una catena d’alberghi. La fabbricazione e la vendita di reliquie, se in Terra Santa può essere assimilata al mercato dei souvenir, non necessita d’altro canto un viaggio in Terra Santa, perché esse si possono creare ovunque. E il mercato prospera pur essendo evidente non necessariamente alle persone colte, ma semplicemente a chiunque sia dotato di una minima capacità di giudizio, che tale mercato profitta della credulità popolare.

    Nel Decamerone, scritto tra il 1349 e il 1351 o ’53, Boccaccio ironizza sulla raccolta delle elemosine propiziata dall’esibizione di reliquie nella Novella decima della Giornata sesta: «Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrare loro la penna dello Agnolo Gabriello, in luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo». Tra le reliquie vantate da Frate Cipolla, c’è persino «il dito dello Spirito Santo così intero e saldo come fu mai». Boccaccio pone, neppure troppo implicitamente, la questione: il popolo che adora le reliquie dei santi, è così ingenuo da abboccare a qualsiasi panzana? Boccaccio opera un discrimine tra gli «sciocchi» (la massa dei fedeli) e gli «astuti molto» (nel caso, due giovanotti burloni che sostituiscono una presunta penna dell’arcangelo Gabriele con dei carboni). Il personaggio di Frate Cipolla alla sua mancanza di scienza, accoppia l’ottima oratoria. A conclusione della novella, i due giovani burloni confessano a Frate Cipolla d’essere stati gli autori della beffa, e tra loro e il frate si stabilisce una complice e divertita intesa. Dopotutto gli astuti possono riconoscersi e apprezzarsi in virtù dell’esistenza degli sciocchi. Poco importa che le reliquie siano vere o false, ciò che importa è il rito, la mistica ebrezza collettiva che lo accompagna (e che è falsante giudicare come manifestazione di sciocchezza), e la questua che ne consegue, che va a beneficio della Chiesa. Ciò varrà, nei secoli dei secoli, anche per i miracoli. Pur se la Chiesa è consapevole della loro infondatezza, non può non vederne il risvolto positivo, consistente nella devozione da un lato, e nel proficuo commercio che essi generano dall’altro.

    Nel 1627 Rafaele Frianoro pubblica, a Bassano, un opuscolo intitolato: Il vagabondo, overo Sferza de Bianti e vagabondi. Opera nuova, nella quale si scoprono le fraudi, malitie et inganni di coloro che vanno girando il mondo a spese altrui. Il termine «bianti» (beanti) indica la beatitudine terrena che essi cercano di procurarsi falsificando bolle pontificie, documenti e attestati rilasciati da santuari. Frianoro ci offre una minuziosa classificazione degli imbrogli operati, e un elenco di una quarantina di specializzazioni truffaldine. Si può notare facilmente come la maggior parte di esse faccia riferimento alla religione: dagli «aconii» che ostentano icone e le offrono da baciare ai fedeli in cambio di oboli, ai «reliquiari» che mostrano a pagamento reliquie di santi. Chi fosse interessato a un elenco più completo, può trovarlo nell’antologia, a cura di Roberto Leydi, La piazza. Spettacoli popolari italiani descritti e illustrati⁶. Questi variegati specialisti si avvalgono della predicazione religiosa per sfruttare la devozione popolare, ma risulta piuttosto arduo distinguerli da coloro che fanno altrettanto in veste ufficiale o semiufficiale.

    Il pauperismo: Valdo e Francesco

    Nel secolo XI si è ormai formata un’aristocrazia insieme laica e religiosa che si contrappone di fatto a un popolo di esclusi da qualsiasi diritto e da qualsiasi accesso ai beni. Gioacchino Volpe ne parla così: «Quell’aristocrazia era il ceto dominante, le chiese erano la sua cittadella, i beni ecclesiastici d’ogni genere il mezzo e lo scopo del suo dominio. […] Da questa organizzazione laico-ecclesiastica di signori, nella quale la Chiesa si dissolve e quasi si annulla, son fuori tutti gli altri»⁷. Facendo capo questa aristocrazia all’imperatore che stabiliva le investiture, il popolo degli esclusi, preso nella morsa della Chiesa e dell’Impero, «rumoreggia con violenza». Non è chiaro da dove nascano i sommovimenti, se da iniziative spontanee o dall’alto, cioè da parte di chi di questo popolo degli esclusi cerca di organizzarne la rabbia. C’è, sostiene Volpe, un’azione reciproca: la Chiesa è interessata a volgere questa rabbia contro l’Impero, ma allo stesso tempo ne viene scossa alle radici. Nascono e si diffondono sette ingovernabili, di ogni genere, che istigano il popolo minuto alla caccia al prete simoniaco.

    I libelli polemici volano per il mondo, vanno per le piazze, portati da monaci gregoriani, da benedettini che fuggono i vecchi monasteri in dissoluzione, da giocolieri, da «chierici vaganti», da gente d’affari e di politica. E li legge o si sforza di leggerli anche il popolo, quello appunto che all’agitazione, in quanto fu anche agitazione religiosa o su cose attinenti strettamente alla religione, portò più contributo di forze materiali, di passioni, di speranze, di aspirazioni non del tutto impure. Per esso le questioni politiche ed economiche prendevan subito coloritura religiosa, e le questioni religiose si allargavano a toccar tutta la vita e tutti i rapporti⁸.

    Il pauperismo medievale va compreso in due sensi: come impoverimento subìto e come povertà per scelta. I pauperes spiritu, basandosi sull’invito rivolto da Gesù al giovane ricco: «Vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri», e sull’esempio dei discepoli e degli apostoli che avevano lasciato il proprio lavoro per dedicarsi esclusivamente alla predicazione della Buona Novella, manifestavano un cambiamento radicale nello stile di vita, facendo cioè della povertà una scelta volontaria. Questa espressione, pauperes spiritu, poveri in spirito, è comunemente la più fraintesa. Nel Sermone sul monte, Gesù non la impiega affatto per indicare una condizione di beata ignoranza e/o di felice ingenuità, bensì una scelta consapevole che trasforma la vita concreta di chi la compie. Nelle beatitudini, ai poveri in spirito, si accompagnano «gli afflitti», «i miti», «gli affamati e assetati di giustizia», «i misericordiosi», «i puri di cuore», «i facitori di pace» e «i perseguitati». Il pauperismo è dunque una scelta radicale di povertà volontaria. Nel Medioevo, vi è implicata una polemica contro l’opulenza delle gerarchie ecclesiastiche («Gesù e gli appostoli non avevano mai posseduto niente», ricordava Frate Dolcino da Novara, 1250-1307 ca.) e contro l’accumulazione dei beni e delle ricchezze. Mentre gli asceti ponevano l’accento sulla povertà individuale come scelta morale esemplare del singolo, e su parallele forme penitenziali, i pauperes spiritu intendevano la scelta volontaria della povertà come scelta di gruppo, e, condividendola, la connettevano alla condizione di masse crescenti di contadini, che nell’epoca dello sviluppo impetuoso dell’economia di scambio, si trovavano costrette a emigrare verso le città per sfuggire alla disoccupazione. I poveri per scelta, si univano cioè ai nuovi poveri creati dalle dinamiche dell’economia.

    Il pauperismo in spirito, come fenomeno collettivo, si sviluppa intorno alla figura di Valdo o Valdesio, un ricco cittadino di Lione, che verso il 1175 si converte al messaggio evangelico, si sbarazza dei suoi beni, rinuncia al lavoro, si affida per la sussistenza all’altrui ospitalità, non chiedendo altro che cibo, rifiutando cioè donazioni in denaro, e presto seguito in questa scelta sia da uomini che da donne, dà vita a un movimento che si diffonde ben oltre Lione, e nel 1184 viene scomunicato e giudicato per sempre eretico dalle gerarchie ecclesiastiche cattolico-romane. Cosa sappiamo di quest’uomo? Assai poco. Nessuna immagine iconografica, nessuna descrizione fisica, il suo stesso nome (Pietro) è postumo, escogitato dai seguaci per contrapporlo al papato come Nuovo Pietro, ma non gli apparteneva. Si sa che era un borghese, nel senso originario del termine cioè di appartenente al borgo, e che possedeva beni mobili (terre, case, un forno) e immobili (una cospicua ricchezza finanziaria frutto di denaro dato a prestito con interesse, cioè, secondo la definizione dei detrattori, un usuraio). Non conoscendo il latino, Valdo aveva commissionato la traduzione in volgare di alcuni libri della Bibbia. Oltre che il messaggio evangelico, pare che sulla sua scelta di povertà volontaria avesse inciso la Leggenda di Sant’Alessio, molto popolare e diffusa in varie forme, a partire dal secolo X, ma risalente almeno al secolo precedente (la versione siriaca risale addirittura alla fine del V secolo), e da Valdo udita cantare da un giullare. Si narrava in essa di un giovane ricco che per sfuggire a nozze imposte era emigrato in un altro paese, dove aveva vissuto di mendicità, ma facendo dono ad altri medicanti della carità raccolta, cioè vivendo come un asceta, fino a morire di stenti. Comunque sia, sulla scelta di Valdo, doveva anche aver inciso la realtà economico-sociale di Lione, città prospera, ma all’epoca travagliata da frequenti carestie. Valdo organizzò distribuzioni di pane e di carne, persino tre volte a settimana, fino a dare fondo ai suoi averi. Lasciò alla moglie i beni immobili, allocò le figlie a un convento per famiglie benestanti, e si dedicò alla predicazione, da laico: «Chiunque d’ora innanzi mi vedrà chieder denari, dica pure che son fuor di senno, così faccio per voi onde impariate a porre la vostra fiducia in Dio anziché nei beni perituri». La polemica di Valdo non è tanto contro la ricchezza in sé, ma contro la ricchezza finanziaria, non tanto contro il possesso di beni in generale, quanto contro il denaro in particolare. Evidentemente, sapeva di cosa parlava, cioè dei meccanismi del suo stesso arricchimento. Valdo non polemizzava, d’altro canto, contro la Chiesa, riconoscendone la dottrina e rivendicando soltanto la facoltà di poter testimoniare da semplice laico il messaggio evangelico della povertà. Proprio da questo, cioè dalla predicazione, e dal fatto, tutt’altro che secondario, che tra i suoi seguaci ci fossero molte donne, originò la scomunica. Il Decretum di Graziano, una raccolta di norme ecclesiastiche risalente all’incirca al 1140, prescriveva infatti: «La donna, benché dotta e santa, non presuma di insegnare agli uomini in una riunione. Il laico, a sua volta, alla presenza di chierici non osi insegnare, se non da essi richiesto». Le valdesi, secondo l’ostile parere di Goffredo d’Auxerre, erano «misere donniciuole cariche di peccati, che penetravano nelle case altrui, curiose e chiacchierone, sfrontate, malvagie, impudenti». Lo stesso Goffredo d’Auxerre asserisce di aver ricevuto da un paio di loro le seguenti ammissioni di colpa: «Dopo la predicazione ogni giorno più lautamente mangiavamo, ci sceglievamo quasi ogni notte nuovi amanti, trascorrevamo il tempo senza essere sottoposte ad alcuno, senza preoccupazioni, senza impegni di lavoro, senza pericoli, in mezzo ai quali invece ora, ancelle di signori, quotidianamente rischiamo di morire e, misere, soggiaciamo a innumerevoli affanni». Testimonianze a discredito che suonano oggi apologetiche, evidenziando, nel primo movimento valdese, sorprendenti istanze libertarie già pienamente moderne.

    I seguaci e i discendenti dei seguaci di Valdo non sono ricchi quanto lui, ma appartenenti al mondo dei mestieri cosiddetti umili, quando non vili. Nota Gioacchino Volpe: «Nei processi dei Valdesi di Piemonte, nel XIV secolo, i protagonisti sono quasi tutti conciatori di pelli, panettieri, calzolai, fruttivendoli, tessitori e tessitrici, tintori, osti. Sulla metà del Duecento, Ranieri Saccone, dice […] riferendosi ai Poveri Lombardi, che solo vivono di lavoro, come artigiani, e anche i loro dottori, son sarti». Ci sono anche, nelle propaggini tedesche, lanaioli e fabbri. Nella seconda fase dello sviluppo del movimento dei pauperes spiritu, gli artigiani che costituivano la base del movimento superano l’originale rifiuto del lavoro, ponendo anzi l’accento sul lavoro stesso come fonte di sostentamento e allo stesso tempo formando tra loro comunità artigiane, in forma già cooperativistica e/o da piccola impresa, che ridistribuiscono gli introiti tra i membri, destinando il surplus alla formazione al lavoro degli indigenti. Si fa in loro più forte la polemica contro la carità gestita attraverso le opere della Chiesa, cui preferivano da sempre l’elargizione diretta, e pongono al centro della sussistenza economica e della dignità personale e di gruppo, il lavoro, in particolar modo il lavoro manuale. La qualifica dispregiativa di illetterati e ignoranti viene mossa loro non per un inesistente atteggiamento di rifiuto dell’educazione e della conoscenza (perché anzi leggono e si battono per la lettura in volgare dei testi sacri), ma per il primato da loro assegnato al lavoro manuale.

    Valdo muore nel 1206-7, nel 1205-6 si converte alla povertà il figlio di un ricco mercante di Assisi: Francesco. Coincidenza? Può darsi, ma è certo che il movimento dei pauperes spiritu aveva molto fatto parlare di sé e si era allargato a dismisura. Al contrario della vita di Valdo, di cui sappiamo poco (un testo recente di equilibrato esame delle fonti è di Grado Giovanni Merlo, Valdo, l’eretico di Lione¹⁰, di quella di Francesco sappiamo anche troppo, essendo, come scrive Max Eynard, «talmente documentata da porre in imbarazzo nella cernita della verità dalla fantasia. Le biografie pullulano e riportano molti più fatti di quanti possano essere occorsi nella breve vita di Francesco»¹¹. Il padre di Francesco, Pietro di Bernardone, era un ricco mercante di tessuti, cioè un rappresentante di una borghesia dei commerci ormai pienamente consapevole della propria forza e senza più soggezioni nei confronti della nobiltà feudale, tantomeno dalla classe dirigente clericale. Anch’egli era, oltre che mercante, banchiere, e viaggiava per fiere e mercati, scortato da guardie armate alle proprie dipendenze. Il fatto che la moglie, Madonna Pica, fosse provenzale, testimonia che le sue relazioni commerciali raggiungevano il sud della Francia. Pare che anche il nome Francesco derivasse di qui. Il bimbo infatti era stato in sua assenza battezzato Giovanni, ma il padre in seguito gli aveva imposto il nuovo nome. Francesco non era affatto seducente come venne poi raffigurato. I biografi contemporanei lo descrivono di piccola statura, tratti somatici ordinari, fronte bassa, e persino orecchie a punta. Francesco, al contrario di Valdo, conosceva il latino, tanto da scrivere in latino, e possedeva nozioni di teologia e di filosofia. Dopo essere stato preso e tenuto per più di un anno in ostaggio dai perugini, nel corso di aspri scontri politici, durante i quali si era schierato con i popolani contro i nobili, tornato a casa in gravi condizioni di salute, a ventidue anni si era convertito a nuova vita, senza pensare (il che è bizzarro nelle sue condizioni di classe) a entrare a far parte del clero. La sua vita nuova, a differenza di quella di Valdo, era passata per le armi, al seguito di Gualtieri di Brienne che intendeva conquistare il principato di Lecce assegnatogli dal Papa. Francesco si era fermato a Spoleto, febbricitante. È documentata, a Spoleto, in quel periodo, la presenza di eretici sia catari che valdesi. Francesco entrò in contatto con loro? I catari non credevano alla dottrina della transustanziazione, mentre i valdesi, all’epoca non la contestavano affatto. È certo che Francesco censurò l’eresia dei primi, mentre non si espresse sui secondi. Fatto sta che rientrato dal servizio delle armi, Francesco abbandona la casa paterna e vaga di stalla in stalla, per le campagne. Il suo primo atto di carità cristiana è nei confronti dei lebbrosi. Scrisse sul finire della vita rievocando quei tempi:

    Essendo io in peccato, troppo amaro mi sembrava vedere un lebbroso, ma lo stesso Signore mi condusse tra loro e io usai misericordia con loro. E partendomene, ciò che mi era parso amaro mi fu convertito in dolcezza dell’anima e del corpo. E poi tardai poco a uscire dal secolo.

    Diseredato dal padre, ritenuto pazzo dal vescovo, Francesco sopravvisse per qualche tempo mendicando e predicando da laico. Ai suoi primi seguaci, dettò tre semplici regole che richiamavano altrettanti passi dei vangeli: 1. Il comando di Gesù al giovane ricco (Matteo, XIX:21); 2. Le istruzioni date da Gesù ai dodici nell’inviarli in missione (Luca, IX: 6,35); 3. L’ordine di rinunziare a se stessi, prendere la propria croce e seguitare Gesù (Matteo, XVI: 24,27).

    Come si vede, non sono pochi i punti di contatto tra Valdo e Francesco. La differenza tra loro non sta, come si ritiene usualmente, tra la scelta dell’eresia da parte dell’uno e quella dell’ordine religioso da parte dell’altro, in quanto come si è visto Valdo non si considerava affatto eretico, e Francesco iniziò la sua predicazione da laico, non poco biasimato dalle autorità religiose. Le vere differenze stanno invece nel fatto che mentre la predicazione di Valdo era cresciuta in città, quella di Francesco si era formata nelle campagne, e in un altro fatto dirimente, cioè che mentre tra i valdesi c’erano donne, accolte alla pari degli uomini, non risulta che ce ne fossero tra i seguaci di Francesco.

    La danza macabra

    Le confraternite sono contemporaneamente associazioni di fedeli riconosciute dall’autorità ecclesiastica, e consorterie professionali che sfilano nelle processioni inalberando ciascuna il proprio araldo, assumendosi anche oneri economici verso la Chiesa. Ad esempio a Modena, in epoca addirittura anteriore all’anno mille, una confraternita di 75 uomini e 44 donne si impegna a versare una somma annuale per l’illuminazione del Duomo. Nel loro sviluppo le confraternite, in origine isolate sia tra loro che rispetto alla Chiesa con la quale avevano rapporto attraverso singoli sacerdoti, diventano per le gerarchie ecclesiastiche importanti presidi sociali: un’ecclesia di fedeli in grado di tenere sotto controllo la morale pubblica dal basso. Viceversa, dal punto di vista dei fedeli, per un cardatore, un tessitore o un calzolaio, vedersi riconosciuto come camerlengo o capitano di compagnia in processione, era un indubbio motivo d’orgoglio e di prestigio. Lo studioso tedesco Robert Davidsohn (1853-1937) vede nella diffusione di queste organizzazioni la fondazione di una stabile alleanza tra la piccola borghesia e la Chiesa. Ma mantenere questa stabilità nell’arco di tre secoli è impresa tutt’altro che semplice. Nel tempo, le spinte disgreganti si accentuano, sia per fattori di tipo sociale (l’impoverimento), sia per fattori culturali, che interpretano i mutamenti come segni della «fine dei tempi». Nel secolo XI già affiorano pratiche penitenziali. Pier Damiani, a Firenze, scrive un trattato destinato ai monaci che insiste sull’utilità della disciplina, che include l’autoflagellazione. Nel secolo successivo, a partire dal 1230, queste pratiche vengono celebrate pubblicamente nelle processioni. Nel 1260 il fenomeno esplode a opera del frate eremita Ranieri Fasani. In quell’anno, segnato da guerre e pestilenze, Fasani, narra un opuscolo trecentesco, «vestito di sacco, cinto di fune, cominciò per le piazze con la predicazione e l’esempio con tanto fervore da muovere il popolo a disciplinarsi che ne formò una numerosa compagnia di laici chiamati delli Disciplinati di Jesù Cristo, i quali tutti portavano un sacco bianco aperto sulla spalle e non contenti di andare per la città [Perugia] disciplinandosi e spargendo gran quantità di sangue in memoria della divina Passione di Cristo a implorare il divino aiuto, andarono anco per lo contado».

    Antonio Viscardi e Gianluigi Barni, dedicano un capitolo a questo fenomeno, fondandosi sull’opera di G.M. Monti, Le confraternite medievali dell’alta e media Italia¹², e citano da una cronaca del tempo:

    Nobili e plebei, vecchi e poveri, fanciulli persino di cinque anni, ignudi salvo che nelle parti vergognose, per le piazze della città, a due a due, portando in mano un flagello di corregge, colpendosi con gemiti e pianti sulle spalle fino a fare scaturire sangue, implorando perdono per i loro peccati a Dio e alla Madonna, non soltanto di giorno ma anche di notte, con ceri accesi, nell’asprissimo inverno, a cento a mille a diecimila persino giravano attorno alle chiese, si prosternavano umilmente davanti agli altari, precedendo i loro sacerdoti con croci e vessilli¹³.

    Il movimento si estende a macchia d’olio da Perugia a Spoleto, a Roma alla Toscana, all’Emilia, a Tortona, a Genova, a Mantova, ad Aquileia, in Friuli, in Piemonte. Restano esenti da questa prima fase di diffusione Cremona, Milano, Venezia, la Marca anconetana e l’Italia meridionale. Nell’anno successivo, i flagellanti dilagano in Provenza, in Germania, in Austria e in Polonia. L’indubbia presa di queste manifestazioni sul popolo aveva destato molte preoccupazioni sia nelle autorità civili e politiche, sia in quelle ecclesiastiche. Nelle prime perché il movimento esprimeva radicali richieste pacifiste, di cessazione immediata di ogni guerra e disputa, nelle seconde perché i flagellanti ritenevano di potersi mondare da soli dai loro peccati, cioè senza mediazione sacerdotale. La Chiesa interviene dunque per porre fine al fenomeno, o quanto meno per regolamentarlo con norme più aderenti a quelle monastiche. Tuttavia i flagellanti conoscono una rinascita nell’anno terribile 1348, quanto la peste nera infuria al punto da portarsi via un terzo della popolazione europea. Papa Clemente VI interviene prontamente, già nel 1349, vietando le flagellazioni pubbliche, pena l’arresto.

    Trent’anni dopo appaiono le prime figurazioni della danza macabra. Il termine si riferisce ai martiri Maccabei che venivano ricordati durante le celebrazioni per i defunti, nelle chiese e nei cimiteri. La morte, rappresentata come uno scheletro o un cadavere scarnificato, invita al suo ballo regnanti e servi, borghesi e contadini, mercanti e artigiani, senza alcuna distinzione. Le immagini evocavano la creazione del mondo e l’apocalisse finale. Scrive Werner Fuchs:

    L’intento iniziale dell’arte della danza macabra, quello di ricordare che la vita mondana è transeunte e vana, e indirizzare alla nuova vita dell’aldilà, si tramuta in una lezione sull’orrore angoscioso dell’evento della morte e della putrefazione, lezione che non sa più rivelare alcun giubilo per la trascendenza. La corruzione fisica che inesorabilmente incombe su ciascuno, diventa, dal 1400 circa, un tema dell’arte figurativa, e lo rimane ancora a lungo nell’arte popolare: fino al XVI secolo i monumenti sepolcrali presentano figurazioni del cadavere in putrefazione¹⁴.

    D’altro canto, nella rappresentazione della morte che non risparmia nessuno, nemmeno i potenti, si esprime anche un nuovo spirito egualitario profano. La morte è insieme rispettata come suprema livellatrice, e paventata nella sua sostanza di putrefazione, cioè non di passaggio transeunte verso l’aldilà dei puri spiriti, ma come fine tout court dell’esistenza, di cui avere orrore, da contrastare. Uguaglianza e redenzione diventano progetti da realizzare in vita.

    Lo spettacolo profano

    Se i teatri pagani erano stati

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