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Alla scoperta dei segreti perduti della Sardegna
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E-book351 pagine3 ore

Alla scoperta dei segreti perduti della Sardegna

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Itinerari per scoprire nuovi scorci, leggende, aneddoti e tradizioni

C’è una Sardegna che si lascia conquistare solo dall’interesse autentico del visitatore paziente. La natura, l’archeologia, la cultura, la fede più profonda o quella a cavallo tra superstizione e miracolo custodiscono ancora incredibili segreti. Fatti, persone, luoghi, tesori e preziosi segni dei secoli passati attendono ancora chi voglia svelarne o riscoprirne la sorte. Tra paesi fantasma e grotte sotto il mare, elisir di lunga vita e monumenti esoterici, riti magico-religiosi e tanto altro ancora, Antonio Maccioni traccia il percorso di un’isola senza tempo, ma con la sua storia millenaria e le sue storie contemporanee, come il mistero sulla morte di Peppina Sechi, uccisa “da una mano di giallo colorata”, o la vicenda del poeta bandito Francesco Satta, “il più sensibile tra i criminali”, o ancora il furto satanico di alcuni oggetti sacri, fino ai segreti militari intorno al poligono interforze del Salto di Quirra… La Sardegna è una terra già nota ai più ma è ancora tutta da scoprire.

Luoghi sconosciuti, tradizioni, misteri, crimini, esoterismo e rituali magici della perla del mediterraneo

• Memoria di Lollove
• La scoperta dei benefici dei «bagni di mare»
• Caverne introvabili di martiri cristiani
• Lungo la litoranea tra Alghero e Bosa dove osano i grifoni
• Energie e riti di incubazione presso le tombe dei giganti da Aristotele a Topolino
• Una fonte nuragica ai piedi del santuario di Janna ’e pruna
• I poligoni militari: prove tecniche di guerra in Sardegna
• Droghe e orge sessuali nel satanismo acido del Cagliaritano
• Giovani vampiri e diavoli eleganti alle messe nere di Sassari
• Morte in versi di Peppina Sechi
• La statua decapitata nel triangolo di Belzebù
• C’è posta dal cielo a Tascusì

…e tanti altri segreti
Antonio Maccioni
è originario di Scano Montiferro (Oristano). Laureato in Filosofia, è dottore di ricerca in Letterature comparate. Si è interessato di filosofia della religione, estetica, storia della filosofia russa e contemporanea. Ha lavorato nella redazione di alcune case editrici e si è occupato di cronaca locale. Con la Newton Compton ha pubblicato I tesori nascosti della Sardegna, Alla scoperta dei segreti perduti della Sardegna, 101 perché sulla storia della Sardegna che non puoi non sapere e, scritto con Gianmichele Lisai, Il giro della Sardegna in 501 luoghi.
LinguaItaliano
Data di uscita24 ott 2016
ISBN9788854199057
Alla scoperta dei segreti perduti della Sardegna

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    Anteprima del libro

    Alla scoperta dei segreti perduti della Sardegna - Antonio Maccioni

    377

    Dello stesso autore:

    101 tesori nascosti della Sardegna da vedere almeno una volta nella vita

    Prima edizione ebook: ottobre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9905-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Oldoni Grafica Editoriale, Milano – www.oldoni.com

    www.newtoncompton.com

    INTRODUZIONE

    È segreto tutto ciò che è nascosto. «La natura ama nascondersi», diceva tra il VI e il V secolo a.C. il filosofo presocratico Eraclito di Efeso. Secondo la metafisica che sarebbe arrivata più tardi, il nascosto, ciò che comunque è parte dell’ente, doveva essere indagato per essere scoperto. La verità andava disvelata.

    Un esercito di individui e di cose è disposto a offrire il proprio aiuto. Anche perché nessun uomo – così avrebbe assicurato il padre della psicanalisi Sigmund Freud – è capace di mantenere un segreto: se le labbra restano mute, a parlare ci sono infatti le dita.

    Parlano le dita della bellezza. Era il bello a rivelare a Platone il segreto nascosto della realtà. Il che equivaleva a dire: è segreta la bellezza delle cose. Come quella che si può riscoprire nei luoghi abbandonati, nelle rovine disseminate per gli angoli più nascosti della terra: dove sono le cose smarrite, i luoghi svuotati di tutto ma ancora pieni di loro stessi. Si potrebbe forse trovare bellezza in ciò che la gente non riesce a vedere o che, più semplicemente, ha smesso di guardare.

    Il segreto non è sempre qualcosa di piccolo o piccolissimo, non è qualcosa di pressoché invisibile o insignificante. Segreto è invece molto spesso qualcosa di piuttosto esteso, qualcosa di chiarissimo che tutti hanno sotto gli occhi, qualcosa che ingombra l’orizzonte, qualcosa di talmente ampio che finisce per sparire dalla visuale, che pur essendo noto – forse proprio per quel motivo – non viene più conosciuto o non viene riconosciuto dalle persone.

    Non accade qualche volta proprio così davanti a una vallata verde tagliata da un fiume? Anche un bel paesaggio perde malauguratamente importanza, come succede di perderla a certi uomini e a certe donne, a una serata fuori di casa, a un libro già letto, a un viaggio a pochi chilometri dalla città o a un quadernetto colorato di favole semplicissime o a un albo di fumetti della Bonelli o, peggio, della Walt Disney, con storie brevi per i più piccoli, uno di quelli che alla fine si consumano e diventano vecchi. Un dubbio ci assale: se fosse proprio lì annidato, in quelle stesse cose, il segreto andato perduto? Potrebbe essere nascosto in ciò che ha dismesso – per qualche tempo o forse per sempre – di esercitare con successo, su di noi, la sua seduzione.

    Se abbiamo ragione a dire questo, allora tutto, qualsiasi cosa, rischia alla fine di non provocare più meraviglia nelle persone, di non stupire più, soprattutto se ci si priva o se si è privati dello sguardo acceso che sempre conservano, unici buoni maestri, soltanto i bambini, davanti alle cose del mondo. Quando senza motivo apparente appaiono sbalorditi: l’intero universo, agli occhi degli adulti, è già logorato e smunto. I più fortunati tra i grandi, in improvvisi sprazzi di lucidità, riescono a coglierne il luccicore. Anche se gli si presenta dinanzi tutta intera, quei fortunati intravedono la verità soltanto quando è completamente frammentata, riuscendo a procurarsene appena un pezzetto.

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    Types d’hommes de Fonni, illustrazione tratta da Les îles oubliées di Gaston Vuillier (Hachette, Paris 1893).

    Nelle sue lezioni all’Accademia teologica di Mosca, tenute nel 1921, il professore Pavel Florenskij avrebbe raccontato un aneddoto ai suoi studenti. Parlò di un giorno in cui passeggiava con un fanciullo per il bosco. A un certo punto il fanciullo avrebbe detto al maestro: «Qui ci sono le zanzare». Cosicché il maestro gli avrebbe domandato: «Come mai noi non le vediamo?». Allora il bambino gli avrebbe spiegato: «Perché le zanzare per noi sono troppo piccole». Per poi aggiungere poco più tardi: «Qui ci sono i leoni». Il professore avrebbe replicato: «Come mai noi non li vediamo?». A quel punto il bimbo avrebbe risposto: «Perché sono così grandi che non si vedono»¹.

    Morale: ciò che immaginiamo segreto potrebbe invece essere fermo immobile davanti a noi, talmente vasto nella realtà o diffuso tra le persone da renderci persino impossibile notarlo e riconoscerlo, salvo intravederne remoti segnali in piccolissimi pezzetti di mondo. Per non parlare di ciò che non riesce con immediatezza a rivelarsi degli stessi individui, di tutto ciò che sta dentro gli uomini e le donne insieme a cui viviamo e che si nasconde a noi e all’intero universo. Ognuno ha il suo: dove si annida il segreto della gente?

    Nei giorni che precedettero la sua improvvisa e prematura scomparsa, avvenuta nel settembre del 2013, il filosofo e antropologo originario di Oschiri, Placido Cherchi, revisionava le pagine del suo ultimo libro, Per un’identità critica². Lo presentava in vista della pubblicazione come vera e propria «incursione autoanalitica nel mondo identitario dei sardi». Lui che adesso viene riconosciuto come uno dei maggiori intellettuali isolani, tra quelli dell’epoca di passaggio dagli ultimi decenni del Novecento ai primi anni del Duemila, intendeva originariamente chiudere il discorso con una breve indicazione dei materiali bibliografici che considerava essenziali. I titoli indicati avrebbero cioè dovuto avere un valore di «giustificazione teorica dei concetti-guida» ma anche, più semplicemente, rappresentare i presupposti teorici della stessa scrittura. Max Leopold Wagner, Marcel Mauss, Ferdinand de Saussure comparivano tra i nomi, naturalmente insieme a Claude Lévi-Strauss e a Ernesto De Martino, suo maestro, antropologo al quale riconosceva costantemente un’eredità importante.

    Non ricordo con esattezza in che termini, ma avanzai qualche perplessità sulla sua scelta (lavoravo allora per l’editore che si apprestava a pubblicare un suo libro) e cioè sulla necessità di includere una bibliografia striminzita senza troppe apparenti ragioni, inserendovi alcuni dei titoli pur sempre ampiamente richiamati lungo il testo. Perché quelli soltanto? Perché non includere gli altri, forse alcuni anche importanti, che venivano pur sempre citati da lui nelle note a piè di pagina? Si correva il rischio di stampare un lavoro incompleto?

    Fu Placido Cherchi a rimettere tutto in discussione. Mi parlò di come dopo cinque pagine fitte fitte – avrebbero coperto soltanto la metà delle cose da dire – si fosse intimamente convinto dell’inutilità sostanziale di quella bibliografia, che avrebbe finito per trasformarsi in una retrospezione ragionata e perciò in un nuovo capitolo del libro. Sarebbe diventata una specie di storia del saggio. Fu lui stesso a confidarmi di avere avuto difficoltà anche nel «trovare il registro giusto», col rischio di dare corpo a «una barbosa duplicazione ragionata dell’insieme». Sarebbero certamente cadute quelle pagine, «senza rimpianti».

    Placido sosteneva che – per quanto un «apparato» potesse contribuire a far sembrare «scientifico» un libro – il lavoro che aveva messo in piedi si era guardato bene «dal rischio di vestire qualche toga e dalla pretesa di pontificare su qualche cosa». Lo avrebbero testimoniato anche soltanto i toni scelti, benché quei passaggi di alta filosofia non fossero mica di facile accesso. La chiave per comprenderli era nascosta. «Se qualcosa di valido c’è, non è certo da una bibliografia che salterà fuori», considerava Cherchi. Decise che quella nota non ci sarebbe stata e stabilì di eliminare l’intera parte, poi concludendo: «Al libro non gliene importerà molto»³. Sapeva apprezzare elementi trascurati dagli altri.

    Placido Cherchi morì per le conseguenze di una emorragia cerebrale, sopraggiunta mentre passeggiava a Monte Urpinu, il parco più grande della città di Cagliari, dove aveva casa, quando aspettava la prima copia del suo ultimo lavoro, a quel tempo in corso di stampa. Persino mentre dialogava, tra una frase e l’altra, quel signore sardo d’altri tempi lasciava pause come veri e propri interstizi di silenzio. Quasi mai erano imbarazzanti, piuttosto un personalissimo frammento di testo nel testo: lo aiutavano forse a non lasciare agli altri delle cose dette a caso. I pensieri che ne derivavano erano profondissimi, anche quando erano semplici e tra i più immediati. Anche quando domandava al telefono, d’estate, magari in sardo, se poteva: «A che altitudine si trova Iscanu? Fa fresco lì?». Così le sue pagine: si raccoglievano in esse eredità e si custodivano segreti – i saggi studiati e letti, le persone incontrate, persino le cose vissute –, perché i libri nascono anche nel tempo che precede la loro stessa stesura e al lettore, talvolta, com’è anche giusto che sia, è cosa difficile da riconoscere per quanto in controluce la si intraveda.

    Davvero, come abbiamo detto, ci sono segreti perduti poiché invisibili e inafferrabili nella natura che, mentre si nasconde, ci circonda. Racconteremo allora, nella prima parte di questo libro, di paradisi incontaminati, grotte sotto il mare, moderne scoperte turistiche, paesi abbandonati, terre selvagge e villaggi dimenticati in cui la creazione ha di nuovo preso il sopravvento. Nella seconda parte andremo alla ricerca dei segreti dell’archeologia, tra riti ancestrali, civiltà sepolte e divinità potenti: la storia antica della Sardegna sarà filtrata dalla sua stessa ricezione popolare, passata persino dai fumetti oltre che dalle leggende della tradizione. Nella terza parte riemergeranno alcuni aspetti della storia contemporanea, tra banditi, delitti e relitti, poligoni militari e segreti di Stato, manicomi trasformati in biblioteche, veleni e guerre silenziose ancora adesso in attesa di un definitivo armistizio. Nell’ultima parte racconteremo dei segreti della fede, lasciando spazio alla singolare declinazione in chiave moderna di un Medioevo della religione, ambientato ai giorni nostri, tra riti d’iniziazione e messe nere, satanismo acido e diavoli eleganti, statue decapitate e calici misteriosi, lacrime di sangue, Apocalissi alle porte delle città ma anche Madonne buone che appaiono in cielo e persino nelle pareti di casa, dove lasciano messaggi a decine di veggenti e mistici visionari, o presunti tali. Più che raccontare di un improbabile matriarcato della tradizione, parleremo di donne realmente vissute in tempi non lontanissimi da noi: anche nelle loro vite e nelle loro storie riusciremo forse a scorgere, se vorrà disvelarsi, il segreto senza tempo della Sardegna.

    1 Pavel A. Florenskij, La concezione cristiana del mondo, traduzione e cura di Antonio Maccioni, Pendragon, Bologna 2011, p. 55.

    2 Cfr. Placido Cherchi, Per un’identità critica. Alcune incursioni autoanalitiche nel mondo identitario dei sardi, Arkadia editore, Cagliari 2013.

    3 Id., Lettera inedita del 16 maggio 2013.

    PARTE PRIMA

    I SEGRETI DELLA NATURA, TRA PARADISI INCONTAMINATI, GROTTE NASCOSTE E VILLAGGI DIMENTICATI

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    La Sardegna in una carta del 1753 (Bibliothèque nationale de France).

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    INNAMORARSI DELLE ROVINE

    «Ora, io mi chiedo perché mai le chiamano città morte, se anche la morte se ne è andata da questi luoghi». Disse così una volta la scrittrice Carmen Pellegrino, all’interno di un’intervista pubblicata sul «Corriere della Sera», firmata da Andrea Cirolla¹. Quello della giovane autrice voleva essere un richiamo alla fragilità, all’imperfezione, all’inciampo. La sua passione erano i villaggi abbandonati. «Queste ai miei occhi sono risorse. Tanto più se preservano la durata». Perciò le rovine comuni – quelle semplici delle case diroccate – non avrebbero per lei dovuto valere meno delle rovine nobili, quelle che segnano comunemente i passi dei libri di storia. I nostri crolli parlano di un passato in pietra e cemento di cui siamo parte, di margini e porzioni di scarto, e sono pieni «delle nascite e delle morti di chi ci ha preceduto», delle vite prima delle nostre vite. Quelle pietre talvolta scambiate con il puro nulla dall’opinione corrente «non aspettano altro che la parola sgorghi dal fondo di chi le guarda». Forse la bellezza in loro c’è ancora, anche se è nascosta nei brandelli, in luoghi segreti e piccoli che però hanno un’anima.

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    La colonia di Sant’Antioco a Scano Montiferro, nei pressi della chiesetta intitolata al martire sulcitano.

    Il surreale mestiere dell’abbandonologo è praticato da chi perlustra il territorio alla ricerca di borghi abbandonati, edifici pubblici e privati in rovina, strutture e attività dismesse di cui documenta e studia la storia. La sua attenzione è attratta dai centri in decadenza, dai villaggi minerari e dalle chiese campestri e persino dai luna park e dagli orti, dai giardini, dalle stazioni, spazi un tempo abitati, rimasti tutti vistosamente orfani di qualcuno e in cui possono talvolta essere ricomposti i segni di una dipartita.

    A spiegare in questi termini quali siano le caratteristiche e gli interessi principali dell’abbandonologo è la versione online della più autorevole enciclopedia italiana. La «Treccani» richiama infatti alcune interviste alla succitata scrittrice Carmen Pellegrino nel presentare una singolare definizione: la versione internet di uno dei più prestigiosi prodotti editoriali della penisola ha così sancito la creazione del neologismo che istituisce di fatto una nuova e insolita professione². Caso per la Sardegna oltremodo singolare: quella che il critico letterario Massimo Onofri, docente presso l’Università di Sassari, definiva «la più dotata prosatrice della sua generazione»³, allieva dello storico d’adozione torinese Giovanni De Luna, la Pellegrino, napoletana del Cilento, esordiva nel 2008 per i tipi del piccolo editore Angelica, che ha sede proprio a Tissi, in provincia di Sassari, con un volume sulle lotte studentesche a Napoli negli anni Sessanta. L’autrice pubblicava poco più tardi Cade la terra per Giunti, il romanzo che appunto le guadagnava il singolare appellativo di abbandonologa, per quel modo tutto suo – ma non solo suo – di occuparsi della cartografia della solitudine.

    Nei paesi svuotati ci sono gli assenti, i lutti nelle cose. Chi presta attenzione a ciò che è perduto lo sa.

    1 Andrea Cirolla, «Sono la cartografa della solitudine», in «Corriere della Sera», 20 luglio 2014.

    2 Veronica Tomassini, Carmen e la cultura degli assenti, in «Il Fatto Quotidiano», 2 giugno 2014.

    3 Massimo Onofri, Passaggio in Sardegna, Giunti, Firenze 2015, p. 64.

    ALLA SCOPERTA DELLA SARDEGNA ABBANDONATA

    Cosa si nasconde nel cuore dell’isola? Non solo spiagge e tramonti da cartolina. «Ci piacciono le rovine, i fantasmi, le cose dimenticate. Non siamo fotografi, non siamo artisti. Ci piace camminare». Così dicono gli autori del progetto Sardegna abbandonata¹, piattaforma dedicata agli angoli più bui e tra i più derelitti della terra sarda. Nelle sue pagine vengono classificati, fotografati, descritti, mappati, luoghi abbandonati di ogni genere e sorta: paesi fantasma o quasi disabitati, alberghi e vecchi ospedali, ville diroccate, siti industriali e minerari a volte ignorati da tutti, caserme in disarmo, ex manicomi, ferrovie dismesse. La stessa passione per le rovine che qualifica l’abbandonologo potrebbe essere chiaramente rinvenuta nello spirito di fondo che anima il progetto dedicato alla Sardegna abbandonata. Progetto che col tempo ha prestato attenzione a decine di luoghi, realizzato migliaia di scatti in angoli talvolta sconosciuti ma in alcuni casi dal passato glorioso. Dimenticati, appunto, poiché in essi rimbombava l’eco di vite che non lasciavano più notizia.

    Sa Mesana – che significa posto di mezzo, tra il mondo dei vivi e quello dei morti, forse – è un villaggio abbandonato sulle sponde del Coghinas, nella zona del Monteacuto dalle parti di Oschiri, in provincia di Sassari. Sa Mesana è stato uno dei primi paesi fantasma catalogati dal progetto isolano. Abbandonato da decenni, al momento della compilazione della scheda firmata dagli autori del progetto mostrava i segni visibili, tra le case svuotate, della scuola elementare di un tempo. Edifici coi tetti sfondati e i resti della permanenza di uomini e donne andati via come se un giorno fossero dovuti tornare: gli abiti negli armadi, le stoviglie sullo scolapiatti ferme immobili per trent’anni ad asciugare, un vecchio asse da stiro, un poster di Moana Pozzi pieno di polvere e desiderio e qualche vecchia TV, una musicassetta e poi un libro con la copertina azzurra, titolo: La verità che conduce alla vita eterna.

    Gli autori di Sardegna abbandonata visitarono il borgo di Sa Mesana nei giorni in cui ancora era abitato dall’ultimo superstite, Tonino, incredibilmente – eroicamente forse, chissà – risparmiato dallo spopolamento. Possedeva tre pecore e poco altro, il papà aveva lavorato alla costruzione del Ponte Diana sul Coghinas qualche decennio prima e, pur avendo casa e parenti a Oschiri, il vecchio Tonino aveva deciso di vivere quasi come un eremita tra ciò che come lui era stato abbandonato. Durante il giorno dava da mangiare ai pochi animali rimasti. Poi la sera stava in silenzio davanti al caminetto, a guardare il fuoco.

    Nelle campagne di Erula, in provincia di Sassari, Su Bullone è un villaggio mangiato da cardi, rovi e fichi d’India. Una stalla venne adibita un tempo ad aula scolastica. Gli abitanti resistettero fino agli anni Settanta del Novecento prima di sparire definitivamente. Case ormai completamente sventrate conservano ancora qualche armadio ricavato nelle pareti, ci sono i resti di vecchi attrezzi, ma le piante hanno ritrovato la loro persistente e antica prepotenza, la vegetazione è cresciuta prendendo il sopravvento quasi su tutto. La natura non si ferma e non scappa.

    Nelle campagne di Padru, tra la Gallura e il Monteacuto, le frazioni di Poltolu, Giuscherreddu, Avrio, si sono in molti casi trasformate, con le loro abitazioni, in rocce friabili, che alberi invincibili nascondono tra le fronde. Mentre poco lontano, nel comune di Buddusò, non c’è strada asfaltata che possa condurre a ciò che resta di Tandalò. Quanto si conserva del paese dimora in una valle silenziosa tra le foreste: diciannove case in granito i cui abitanti vivevano di carbone e allevamento, pregavano nella chiesa di San Giuseppe costruita nella prima metà del secolo scorso e mandavano i piccoli a scuola.

    Una scuola c’era, appunto. La piazza frequentata ieri da un centinaio di persone è ancora protetta da due lecci centenari. Nato probabilmente alla fine del XIX secolo, Tandalò è sempre stato una frazione fuori dal tempo: a poco più di 500 metri di altitudine, adesso sopravvive – anche lui tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti – al succedersi inesorabile delle stagioni.

    1 Su internet: www.sardegnaabbandonata.it.

    MEMORIA DI LOLLOVE

    Pochissimi residenti restano a Lollove, che è una frazione del comune di Nuoro posta a una decina di chilometri dal capoluogo. Soprattutto anziani, naturalmente, che negli anni Cinquanta ancora si contavano nel numero di circa quattrocento, divenuti infine poche unità: hanno con impegno – forse semplice permanenza – conservato nel borgo le caratteristiche peculiari dei centri rurali dell’interno. La loro è la memoria di un’isola che non c’è più, sono l’anima perduta di un gioiello prezioso incastonato tra i monti. Intellettuali sardi – Maria Giacobbe, Sebastiano Satta – ne hanno scritto e parlato. Grazia Deledda ha ricavato da Lollove i caratteri di un minuscolo borgo in cui è ambientato uno dei suoi più celebri romanzi, La madre. Dove le strade in ciottolato conducono a una vallata, le case sono sostanzialmente costruite alla maniera sarda in mattoni e terra, le strutture sono tipicamente medievali, rarissimi segni richiamano la presenza degli abitanti. Per le vie scorrazzano di tanto in tanto cani, gatti, galline. In tardogotico è la chiesetta seicentesca dedicata a Maria Maddalena, attorno alla quale è cresciuto il paese. Ma sopravviveva nell’Ottocento anche un monastero poi riutilizzato come casa privata.

    Secondo testimonianze non confermate in modo scientifico, Lollove sarebbe nato prima di Nuoro, su cui, in base a tale versione, vinceva in passato per popolazione e per dimensioni. Raramente qualche scolaresca di bimbi minuscoli viene condotta in viaggio d’istruzione alla scoperta dei racconti che gli anziani del posto ancora conservano: si produce da quelle parti un miele biologico che dicono essere buonissimo, ci sono piccoli orti ancora coltivati con perfezione maniacale, ci sono vere e proprie case-museo, anche se Lollove piange in silenzio al ricordo dei trapassati. Pure le pietre hanno memoria.

    L’altopiano davanti al paese è dominato dal monte Ortobene. Solo in tempi recenti dal Comune del capoluogo barbaricino gli amministratori hanno dato il via a un progetto di ripristino della strada che, tagliando l’agro di Nuoro, giunge fino al centro del piccolo borgo. Quanto potrà vivere ancora? La tradizione orale dei rimasti tramanda la storia di una maledizione lanciata da una comunità di suore, le stesse che occupavano un tempo il vecchio monastero in seguito abbandonato: furono cacciate via poiché una di loro venne accusata di avere avuto rapporti sconsiderati con un pastore, forse proveniente da un più antico villaggio chiamato Selene, di cui oggi si conserva soltanto una vaga memoria. «Lollove as a esser chei s’abba ’e su mare, no as a crescher nen parescher mai», avrebbero detto le suore, rivolgendosi al borgo: «Lollove sarai come acqua del

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