Lupo e Lieve: I raccoglitori di parole
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Info su questo ebook
Approfondisce la conoscenza di Lieve, sua coetanea e vicina di casa che coltiva piante e fiori e ne ascolta le parole.
Insieme affronteranno un viaggio straordinario dove saranno alle prese con enigmi e prove di coraggio, alla ricerca dell’Orologio del Tempo e impedire che le parole della bellezza possano essere distrutte.
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Anteprima del libro
Lupo e Lieve - Loredana Frescura
dopo
Colophon
Loredana Frescura
LUPO E LIEVE
I raccoglitori di parole
ISBN 9791280184924
© 2021 by All Around srl
Testo: Loredana Frescura
Illustrazioni di copertina: Cinzia Ghigliano
Progetto grafico e impaginazione: Claudia Giorgini
Editing a cura di Sesta Luna srl di Moony Witcher
www.sestalunaservizieditoriali.it
redazione@edizioniallaround.it
www.edizioniallaround.it
Aglaia
Era appena finita l’estate con il suo sole cocente, le lucciole di sera e le notti limpide, quando Aglaia si ammalò.
La prima ad accorgersene fu Evelyn, la tata. Dalla finestra della cucina, la vide correre per la strada zigzagando, come se stesse seguendo righe oblique, causando frenate brusche e maledizioni degli automobilisti. Evelyn si precipitò dalla bambina: Aglaia aveva la febbre, era sudata, pallida e farfugliava parole senza senso.
Lupo, suo fratello, in quel momento era a tirare con l’arco nel campo del quartiere. Dopo che suo padre aveva capito la passione per questo sport e l’abilità di Lupo nel colpire il bersaglio con facilità, gliene aveva regalato uno in carbonio, per il suo dodicesimo compleanno. Sperò che questo dono servisse ad allontanare la tristezza.
Si erano trasferiti nella nuova casa da ormai due anni. Una villetta a schiera con giardino, uguale alle altre che sorgevano lungo una strada alberata. Una vita da ricostruire dopo la morte di Vera, moglie di Peter e mamma di Aglaia e Lupo.
Il lavoro di Peter non era cambiato, quello no. L’azienda, per la quale lavorava da un decennio come ricercatore aerospaziale, aveva appoggiato il trasferimento. Con lo stipendio maggiorato, la famigliola si era concessa l’assunzione di Evelyn. Una domestica? Una tata? Una tuttofare, che la sera alle sette usciva da casa e non si vedeva fino al mattino dopo, sempre alle sette in punto.
Lupo e Aglaia la chiamavano Rana
e non per via del suo aspetto fisico, che somigliava più a quello di un levriero: magra nei suoi completi attillati, viso affilato e occhi piccoli sempre in movimento. Il nomignolo era piuttosto per quella voce gracidante che li faceva scoppiare a ridere.
«Non è educato. Ogni volta che quella poveretta apre bocca, voi rumoreggiate con le vostre risate! Ci rimane male e non è cosa da fare!» li rimproverava il padre.
Peter, sentendo i figli motteggiare un gracidare canzonatorio, usò un tono severo che non ammetteva repliche. Invece Lupo non ce l’aveva fatta a stare zitto.
«Ma papà, cra cra cra, è ora di pranzo cra cra cra… Forza ragazzi cra ci sono gli spinaci cra cra».
Aglaia si era rannicchiata sul cuscino del divano per smorzare i singhiozzi delle risate, anche Peter non aveva resistito e si era sganasciato assieme ai suoi figli. Era bello sentirli così, aveva pensato, era bello anche per lui.
Era la vita che scorreva.
Poi avevano visto insieme un bel film, uno di quelli dove si deve trattenere il fiato fino alla fine. Aglaia lo aveva abbracciato e stretto forte la mano, tenendola nella sua.
Sì, era questo che serviva a lui e ai ragazzi. Un po’ di complici risate dopo tanto dolore. Non c’era giorno che Peter non pensasse a Vera, a quel terribile incidente che aveva sconvolto l’ordine delle cose, lasciando fuggire via la felicità. Con i bambini annichiliti, perduti, confusi, pieni di dolore che lo guardavano stupiti, increduli.
Come avrebbero fatto a vivere senza Vera?
Come avrebbero potuto tornare a cantare a squarciagola le canzoni dell’asino nasone e della formica zoppa, contenute in un vecchio cd, che mamma ascoltava quando era la giornata della ridarella
?
Come sarebbero riusciti a cucinare la torta storta, specialità che Vera preparava per le grandi occasioni? Era un dolce ripieno di creme diverse e dall’aspetto tutt’altro che perfetto, la cui ricetta era sempre stata un segreto.
Peter aveva reagito con coraggio. Spesso, davanti alla foto della moglie, le chiedeva come procedere per le macchie di cioccolato sul vestito di Aglaia e per quelle di erba e fango sulla maglietta di Lupo. Poi scuoteva la testa e le mandava un bacio.
C’erano voluti anni per ritrovare un po’ di pace e il trasferimento aveva aiutato tutti quanti.
Aglaia sembrava la più felice della nuova casa: un giardino da esplorare, una stanza solo per i giochi e un parco proprio davanti, dove poteva incontrare tanti altri bambini. Aglaia amava stare in compagnia. La sua risata era contagiosa e la rendeva simpatica; adorava correre ed era bravissima a saltare su un piede solo.
Stava proprio andando al parco quel giorno e il suo pensiero fisso era uno solo: battere Greta, che aveva un anno più di lei, al gioco della campana. Avrebbe stupito tutti. Si era allenata per giorni. Un piede qua e uno là, piedi uniti e poi saltello, giravolta e poi ricominciare dall’inizio.
Ripeteva le sequenze dentro di sé, con un ghigno soddisfatto, quando la vista si offuscò. Dapprima pensò che il sole fosse stato coperto dalle nuvole, poi si spaventò. Le gambe non riuscivano a mantenere l’equilibrio e un freddo straordinario la invase.
Evelyn era corsa in strada e poi aveva accompagnato Aglaia in camera sua. Le bambina si era addormentata non appena sdraiata sul letto. La febbre era davvero alta e così Evelyn aveva chiamato Peter.
Ma Aglaia se n’era andata così, in un lasso di tempo che nessuno riusciva a quantificare. Così poco tempo. Un tempo che non lasciava spazio a un saluto, a un abbraccio, alla speranza di averne un altro, almeno un istante in più.
I medici avevano parlato di sindrome di Brugada, una rara malattia cardiaca che si manifesta all’improvviso, anche in persone sane.
Peter aveva ascoltato il medico con la testa appoggiata al muro di un ambulatorio. Le parole arrivavano confuse e inesorabili. Parole vuote. Le maledisse. Ogni parola era un colpo che lo feriva e lo annientava.
Non solo . Peter, da quel momento, maledisse il tempo e giurò che lo avrebbe distrutto, ridotto a schiavo, annientato. Maledisse e giurò che quello sarebbe stato lo scopo della sua vita da quel momento in poi. Il tempo avrebbe ceduto le sue potenti armi e si sarebbe piegato.
Per lui, il tempo, non esisteva più.
Lupo
Mi chiamo Lupo, sembrerà un nome strano ma non per mia madre, veterinaria appassionata dei canidi. Invece per mio padre, che studia lo spazio e la velocità della luce, era davvero un nome strambo e aveva fatto la sua controproposta: Marte. Mamma aveva finto uno svenimento e l’aveva spuntata.
Quando chi non mi conosce sente il mio nome, spalanca gli occhi o sorride. Mi ci sono abituato.
Alle elementari c’era un compagno che, appena la maestra mi chiamava, ululava e poi ghignava. Un giorno mi sono avvicinato e dopo avergli ringhiato, gli ho morso un orecchio, lasciando il segno dei miei denti. Non so cosa mi fosse preso. La maestra aveva chiamato la mamma, la quale mi sgridò pesantemente, dicendo che sarebbe bastato il ringhio. Poi, però, sorrise spiegandomi che ai lupi non importa delle risate degli altri. I lupi hanno la loro dignità e nessuno può togliergliela.