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I guerrieri della sposa del sole
I guerrieri della sposa del sole
I guerrieri della sposa del sole
E-book285 pagine3 ore

I guerrieri della sposa del sole

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Info su questo ebook

Narrativa - romanzo (228 pagine) - Una montagna sacra, un gatto e un ragazzo innamorato: da qui inizia il viaggio di Arlette alla ricerca delle proprie origini


La giovane Arlette, per rispettare l’ultimo desiderio dell’amato nonno, si incarica di portarne le ceneri sulla vetta della Sposa del Sole, l’inviolata montagna al cui interno, secondo le leggende, vive l’arcano popolo dei Barun-Drakkar, da cui la stessa Arlette discenderebbe. Secondo una profezia, la giovane ne è addirittura la predestinata sacerdotessa. Insieme a Kevin, temerario e risoluto, e accompagnati dalla gatta Astrid, ha inizio l’ascesa verso la vetta che li porterà a spalancare le porte di un mondo popolato da creature misteriose che i due giovani dovranno cercare di capire e proteggere. A costo di rinunciare al loro amore e alla vita come l’hanno sempre conosciuta.


Vivì Coppola (Vittoria Coppola), nata a Torre del Greco ma genovese di adozione, è autrice di numerosi testi narrativi e poetici. Nel 2011 ha pubblicato la raccolta di favole per ragazzi Le favole di Gigagiò (Apollo Edizioni) e l’anno dopo due racconti fantasy: Elydor, l’unicorno nero (Morgan Miller edizioni) e Il monastero del canto del Vento (Garcia Edizioni). Tra il 2013 e il 2014 ha pubblicati altri due racconti fantasy e numerose favole. Si è inoltre cimentata nella poesia pubblicando versi in raccolte antologiche e una silloge personale dal titolo Mentre guardo… Mentre sento.

LinguaItaliano
Data di uscita25 apr 2017
ISBN9788825401653
I guerrieri della sposa del sole

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    Anteprima del libro

    I guerrieri della sposa del sole - Vivì Coppola

    sento.

    Il richiamo di una terra lontana

    Irraggiungibile e inviolabile: così le appariva da lontano la montagna solitaria, di cui s’intravedeva appena la vetta eternamente immersa nel candore immacolato delle nuvole che la circondavano.

    Arlette l’ammirava ergersi all’orizzonte, simile a una sentinella imperterrita stagliata nel cielo infinito, e ogni volta quella cima le dava l’impressione di una tacita e continua sfida.

    Non sapeva spiegarsi il motivo, ma avvertiva da sempre il suo richiamo misterioso.

    Era forse per via dei racconti favolosi che il nonno s’inventava e non smetteva di narrarle ogni volta che erano soli. Quando era piccola quelle favole la affascinavano, e se ne restava con occhi sgranati ad ascoltare la storia di un popolo fantastico che abitava nelle viscere di quella montagna. Una stirpe ignorata dal resto del mondo.

    Quelle favole le serbava bene nella memoria! Arlette sorrise: se avesse avuto dei bambini, gli avrebbe tramandato tali leggende arricchendole con particolari di sua fantasia.

    Ma nel frattempo c’era qualcosa in quella montagna inesplorata che l’attirava, e così veniva assalita da una sorta di rammarico profondo. Era consapevole della sua inettitudine, quanto dell’inesperienza nel campo dell’alpinismo in genere… figurarsi in quello estremo! Perché solo un rocciatore esperto avrebbe potuto sperare di farcela a vincere quei ripidi pendii. E fino allora nessuno era mai riuscito ad avere ragione della montagna conquistandone la vetta a quota ottomila.

    Era proprio l’altezza colossale a darle il soprannome di Sposa del Sole.

    Per quale motivo l’affascinava così tanto l’idea di raggiungere anche solo le sue pendici? A cosa era dovuto quel legame invisibile che la richiamava costantemente a essa?

    Un gemito flebile alle sue spalle la costrinse a voltarsi. Il nonno era di nuovo sveglio e la voleva al suo fianco.

    – Madigaille…

    Erano in ospedale. Ricoverato d’urgenza qualche giorno prima, l’anziano uomo resisteva, attaccato alla vita e più ostinato di un mulo, tanto da meravigliare anche i medici che gli avevano prognosticato solo poche ore di vita.

    – Madigaille… – ripeté.

    Di nuovo quel nomignolo che le piaceva tanto, e che il nonno aveva forgiato per lei quando era piccola. In realtà lei si chiamava Arlette, e il padre aveva proibito molte volte al nonno di chiamarla Madigaille, e così quello era rimasto uno dei tanti loro piccoli segreti.

    Arlette accorse osservando con pena il viso smagrito dell’anziano, solcato da un’infinità di profonde rughe. Le si strinse il cuore a vedere quegli occhi glauchi, resi opachi dalla vecchiaia, mentre vagavano smarriti per la stanza inseguendo ombre che solo lui era in grado di scorgere.

    – Nonno, sono qui accanto a te!

    Lui sorrise.

    – Non ti vedo ma ti sento, Madigaille!

    Poi piegò la testa verso la vetrata. Un raggio di sole gli colpì il volto inondandolo di luce. La ragazza ne seguì la direzione e si divertì a scoprire il cono di pulviscolo dorato proiettato sul pavimento perfettamente lindo di quella stanzetta d’ospedale. Le molecole aleggiavano nell’aria formando una sorta di danza leggiadra.

    Sorrise: il nonno le aveva trasmesso, con i geni, anche la capacità di fantasticare sulle cose più insignificanti.

    Ma un respiro affannoso e improvviso la distolse da quelle considerazioni infantili.

    La mano dell’uomo si era sollevata e le dita ossute indicavano al di là della vetrata. Lei sapeva già a cosa volesse alludere, tuttavia gli domandò ugualmente: – Cosa c’è, nonno? Vorresti raccontarmi un’altra volta la favola della Sposa del Sole?

    Vide spuntare una lacrima, molto simile a una splendente goccia di diamante.

    – Sento che non c’è più tempo, Madigaille. I miei giorni sono giunti al termine. Ricordi, figliola, il significato del tuo nomignolo?

    – Me lo hai spiegato, nonno. Prediletta della Montagna.

    – Sì… tu sei la sua prediletta. Devi promettermi che tornerai da lei, Madigaille. E soprattutto che mi riporterai da lei!

    Questa volta l’uomo riuscì a sorprenderla: non l’aveva mai sentito parlare in quel modo. Pensò che stesse vaneggiando e che quella fosse una preghiera assurda, suggerita da una mente ormai offuscata dalla malattia.

    – Prometti che porterai le mie ceneri con te! – insistette ancora. Quella strana richiesta, formulata con tono così accorato, aumentò l’angoscia che le opprimeva il cuore da quando i medici le avevano detto che non c’era più speranza.

    Sospirò quasi rassegnata. Il nonno le aveva insegnato che così va la vita e che bisogna accettare ogni cosa con la massima filosofia: gli eventi belli all’origine della felicità, come quelli tristi, che portano malinconia.

    Si nasce e si muore, le era sempre stato detto. Ma pur trattandosi di una legge inesorabile, il cuore di Arlette si contrasse per il dolore.

    Sospirò ancora una volta, cercando di scacciare via i cupi presagi di morte che la turbavano sempre di più.

    Le venne poi in mente che il nonno non le aveva mai rivelato la sua età, forse perché nemmeno lui la conosceva. Anche il suo luogo di nascita era un mistero che nessuno era mai riuscito a chiarire e, del resto, l’anziano si ostinava a dire che era nato sulla montagna. Tuttavia, osservandone l’aspetto e la muscolatura, i medici erano del parere che fosse prossimo ai cent’anni.

    Arlette gli accarezzò teneramente il braccio: nessuna persona al mondo le era cara come lui. Forse, neppure l’amore per la sua defunta madre era paragonabile a quello per il nonno.

    Quando la mamma morì, il padre si chiuse in un mondo tutto suo e fu il nonno a occuparsi di lei a tempo pieno.

    L’accompagnava e andava a riprenderla a scuola, le preparava da mangiare e la portava a fare lunghe passeggiate. Era lui che si prendeva cura di Arlette quando stava male, ed era sempre lui che s’inventava quelle magnifiche storie per accendere la sua fantasia e tenerla allegra.

    – Miaooo… – Quel miagolio sommesso irruppe nella sua mente, interrompendo i ricordi dell’infanzia.

    Acciambellata vicino al corpo del nonno ora c’era Astrid, la gatta di casa.

    Com’era possibile? Come era arrivata fin lì da sola? Per arrivare in ospedale bisognava percorrere una lunga strada a piedi, attraverso il traffico caotico del centro. Com’era riuscita Astrid a districarsi in quel dedalo di vie?

    La mano del nonno lisciava il pelo dell’animale, che faceva le fusa soddisfatto.

    Poi, sentendosi osservata, la gatta spalancò i suoi incredibili occhi azzurri sulla ragazza e Arlette non riuscì a trattenere un lieve sobbalzo. Quando Astrid socchiuse gli occhi come se stesse ammiccando, la ragazza si tranquillizzò.

    Su quell’animale si era sempre posta tante domande. Oltre alle movenze da felino, talvolta Arlette vi scorgeva un’intelligenza molto elaborata, che la sconcertava fino quasi a intimidirla.

    – Ti ricordi la filastrocca che ti ho insegnato? – chiese all’improvviso il nonno con voce tremula.

    – Non potrei mai dimenticarla! Me l’hai fatta ripetere un’infinità di volte.

    – La reciteresti di nuovo per me?

    Erano anni che non la declamava. Tornò indietro nel tempo, quando era bambina e poneva fiduciosa la piccola mano in quella grande ed energica del nonno, scandendo con orgoglio le parole in rima.

    Luna raminga

    che vaghi lassù

    anche senza le belle

    risplendi di più.

    Dissipa le nubi

    che fan da contorno

    diventa regina anche di giorno.

    Ascolta, o Divina, le mie parole

    coprendo anche l’ultimo raggio di sole

    schiudi il portale alla vestale

    mostrando la strada

    alla Figlia del Drago

    che attraverso il tuo tempio

    porta a quel lago.

    Mentre ripeteva la filastrocca, il viso del nonno si rigò di lacrime, poi il capo si volse di nuovo verso la montagna e un sorriso dolcissimo gli piegò le labbra. Era tanto tempo che non lo vedeva così disteso e si rasserenò con lui.

    La gatta miagolò di nuovo emettendo uno sbadiglio e Arlette domandò al nonno: – Come ha fatto Astrid ad arrivare fin qui?

    Lui affondò la mano nel pelo candido e morbido.

    – Avevi ben capito quanto fosse intelligente! Niente e nessuno sarebbe riuscito a tenerla lontana da me in questo momento – disse in un soffio. E senza darle modo di rispondere aggiunse: – È ora di riportare il Sigillo del Drago al Tempio. O non ci sarà più scampo per il nostro popolo, Madigaille!

    L’uomo stava delirando di nuovo: aveva confuso la favola del popolo della montagna con la realtà.

    – Nonno… – mormorò impietosita dalle sue condizioni sempre più precarie.

    L’anziano tornò a guardare la nipote, e lei fu colpita dal suo sguardo, più che mai ceruleo per via delle cateratte. Si sentì scrutare nell’animo nonostante sapesse che ormai il nonno poteva distinguere solo ombre e contorni.

    – Apri il cassetto, Madigaille. Ti voglio mostrare un oggetto che ho custodito per te in gran segreto.

    Ubbidì e frugò nell’angolo più nascosto del cassetto del comodino di metallo, dove era riposto un piccolo involto che prese con delicatezza. Si trattava di un fazzoletto con i quattro angoli legati insieme e ingrigito dal trascorrere degli anni.

    – Cosa conservi qua dentro? Un piccolo tesoro? – domandò divertita.

    – Il tesoro dei Barun-Drakkar… i Figli del Drago. Siamo noi, Madigaille! Io e te apparteniamo al grandioso popolo della montagna chiamato Barun-Drakkar.

    – Miaooo… – Il verso di Astrid le sembrò giungere a proposito, quasi a sottolineare le parole del nonno. Si diede della sciocca.

    – Sono anni che mi ripeti la stessa storia.

    Ma l’uomo non sembrò far caso alla sua osservazione.

    – Aprilo, ragazza, e ammira l’amuleto più prezioso che da secoli appartiene al nostro popolo. Guarda il Sigillo del Drago! Non senti vibrare il fuoco nella pietra della luna?

    Arlette pensò che nemmeno in fin di vita il nonno rinunciava al suo sogno, ossia la favola che aveva così mirabilmente raccontato arricchendola col tempo di particolari sempre più suggestivi.

    – Oh, nonno… – mormorò ammirata. – Sei proprio incorreggibile. – Poi slegò i lembi del fazzoletto e vide un sacchetto di pelle scamosciata molto logoro.

    C’era qualcosa dentro… attraverso la pelle ne poteva avvertire la consistenza e le dimensioni. Rovesciò il contenuto dell’involucro sul palmo: era una madreperla, grande, circolare, e sembrava davvero la luna. Il bagliore che ne scaturì la stupì, come del resto la sensazione di calore che avvertì.

    – Miaooo… – Ancora quel verso, e ora Astrid si era sollevata sulle zampe; osservava con interesse ogni movimento e annusava l’aria intorno alla mano di Arlette.

    La ragazza tentò d’ignorarla e prese tra le dita la pietra per studiarla meglio. La forma era perfetta e quando il sole la illuminò produsse forti riverberi di fiamma.

    – Oh… è bellissima, nonno. Non me l’avevi mai mostrata prima. Perché?

    – Non era ancora giunto il momento. Ora gli astronomi hanno annunciato che a giorni la luna oscurerà il sole e durante l’eclissi il portale si spalancherà innanzi a colei che reciterà la formula arcana. Così è scritto, e sarai tu a riportare alla nostra gente ciò di cui il destino ha voluto privarli, ma che appartiene loro di diritto.

    – Quella cima è irraggiungibile e tu lo sai benissimo. Nessuno è mai riuscito a scalarla; e come potrei farcela io? – obiettò decisa la ragazza.

    – Non è vero che nessuno ci è mai riuscito. In gioventù io stesso l’ho scalata, e più volte. Ero il Messaggero del popolo e solo io avevo la facoltà di fare la spola dal villaggio che sorge all’interno della montagna alla civiltà all’esterno. Ma il destino in quel periodo si accanì contro la nostra famiglia; tua madre era già in attesa di te e a quel tempo era una sposa felice. Insieme a tuo padre dividevano una capanna al centro del villaggio e tutti insieme vivevamo una vita serena. Ben pochi del nostro popolo sapevano dell’esistenza di altra gente e della modernità che prosperava al di fuori della montagna. I saggi avevano deciso che fosse meglio tenere all’oscuro la popolazione, e solo gli Eletti custodivano e si tramandavano il segreto. Tua madre si chiamava Hestell ed era una delle custodi dell’amuleto.

    L’anziano sospirò e fece una pausa. Arlette non lo disturbò: quel racconto l’affascinava, come del resto tutte le storie che lui inventava.

    – Tuo padre era un uomo molto invidiato, si era conquistato una delle più belle fanciulle del villaggio, ma solo dopo aver sfidato molti pretendenti secondo le leggi che vigevano nella nostra società. Gli incontri tra i guerrieri si svolgevano presso il Tempio della Pace, e i rivali si dovevano sfidare in prove d’abilità e coraggio. Prevalse su tutti Gondmir l’Astuto, e la maggior parte degli avversari accettò la sconfitta senza recriminare. Tuttavia ci fu un giovane molto orgoglioso che non abbandonò la speranza… anzi, non si arrese proprio e covò rancore nel petto. Questo guerriero era il figlio del capo, dunque destinato a diventarne il successore. Si chiamava Thornador il Fiero. Un giorno attese tuo padre e i due ebbero un duro diverbio presso la Radura Sacra. Non ci furono testimoni e quello che successe mi venne raccontato in seguito da Gondmir. E anche se io non avevo nessun motivo di dubitare della parola di tuo padre, non ebbi mai la certezza che le cose fossero andate veramente così. Mi disse che avevano deciso di sfidarsi per l’ultima volta, poi nella colluttazione Thornador fece una caduta rovinosa sbattendo il capo con violenza.

    Il nonno ansimava sempre più forte e procedeva a scatti nel racconto.

    Arlette, pur volendo conoscere la fine di quella storia, cercò di calmarlo. – Ora basta, nonno. Mi racconterai il resto quando starai meglio.

    Lui scosse il capo e riprese.

    – Tuo padre si spaventò e abbandonò il rivale senza nemmeno accertarsi delle sue condizioni. Se lo avesse fatto si sarebbe accorto che Thornador aveva solo perso conoscenza… Ma lui fuggì via. Sapeva bene che al villaggio chiunque si fosse macchiato del sangue di un suo consimile, senza poterne giustificare il gesto, si sarebbe dovuto sottoporre al giudizio dei Saggi. Quel giorno il terrore mise a Gondmir le ali ai piedi. Tornò al tempio e convinse tua madre a fuggire. Hestell aveva appena finito di celebrare una cerimonia e indossava ancora l’amuleto. Di sicuro non si accorse di averlo con sé, altrimenti non lo avrebbe portato via. Si diressero all’interno della montagna e poi sempre più su. Speravano, una volta usciti da quel dedalo di cunicoli e di ripide scale che s’intersecano nelle sue viscere, di trovare un valico che consentisse di scendere a valle. Quando mi accorsi della fuga erano già lontani e non feci in tempo a raggiungerli prima che uscissero. Mia figlia conosceva la formula arcana che spalancava il passaggio sull’altro lato della montagna e io li trovai quando ormai erano fuori. Inutili i tentativi per convincerli a tornare: il portale si chiuse in modo definitivo e io non riuscii più ad aprirlo.

    Il nonno ansimava per lo sforzo e una miriade di goccioline di sudore gli imperlò la fronte. Arlette prese una garza dal contenitore sul comodino e iniziò a tamponarlo con delicatezza. L’uomo aveva chiuso gli occhi e lei pensò che si fosse addormentato di colpo, ma subito dopo riprese a sospirare. Così Arlette gli inumidì le labbra con un panno intinto nell’acqua.

    – Figliola… tua madre morì poco dopo averti dato alla luce e io non me la sentii di abbandonarti in questo mondo che mi pareva così alieno, così diverso dal nostro. Una giungla di cemento e fabbricati che sfiorano il cielo invasa da smog e rumore. Tua madre non aveva mai visto nulla del genere e nel suo sguardo lessi un grande sconforto. Ovunque noi guardassimo vi regnava confusione: la gente camminava per le strade urtandosi e inveendo, le automobili sfrecciavano lasciando una scia di fumo che a dir poco ci avvelenava. I clacson e la musica a tutto volume ci stordivano. Promisi a tua madre che avrei tenuto vivo in te il ricordo del nostro popolo e che un giorno ti avrei convinta a farvi ritorno.

    Arlette lo aveva ascoltato senza interrompere. Ancora una volta il nonno era riuscito a stupirla ricamando con la sua immaginazione un altro pezzo di storia fantastica.

    – Quanto abbiamo rimpianto la nostra terra! La Foresta Sterminata, la Cascata dell’Arcobaleno, ma soprattutto il Lago della Luna Feconda, il luogo di raduno del nostro popolo a ogni solstizio d’estate. Periodo sacro, quello, consacrato ad Alkaviser, dea della fertilità, e dedicato alle unioni tra i giovani.

    La nipote sorrise divertita. – Quel mondo non esiste, nonno. Possibile che non riesci più a distinguere la realtà dalla fantasia?

    Il corpo del nonno ebbe uno scatto che la fece trasalire: in un istante si era messo seduto al centro del letto. Con la fronte madida di sudore e il petto in preda al sussulto le lanciava occhiate di fuoco. Era fuori di sé, ma nonostante tutto riuscì a trattenersi e parlò con un filo di voce, scandendo ogni parola, ogni lettera con tono imperioso.

    – Non ti permettere più di dubitare della mia verità! Tu sei una Figlia del Drago e farai ritorno alla nostra casa portandomi con te. Hai inteso le mie parole?

    Arlette non rispose e lo fissò immobile, quasi paralizzata dallo stupore e sconcertata da quel fiotto inaspettato di energia.

    Ma lentamente il fuoco si spense e il nonno si lasciò andare sui cuscini, ritornando l’uomo mite che lei aveva sempre conosciuto.

    – Siediti, figliola, e ascolta senza più interrompermi.

    La sua voce era pacata e lei ubbidì senza fiatare.

    – Ti recherai sul versante sud della montagna e porterai con te Astrid. – Poi, avvertendo che stava per obiettare qualcosa, la bloccò con un cenno che la costrinse al silenzio.

    Che cosa c’entrava quella gatta, che aveva sempre vissuto in casa con loro, e adesso, vecchia come il nonno, faticava a reggersi sulle zampe?

    – Astrid ti farà da guida. Ha memorizzato alla perfezione il percorso più agevole che ti porterà davanti al portale. Fidati di lei e vedrai che non ti deluderà.

    Gli occhi di Arlette corsero più volte stupefatti dal nonno alla gatta: non osò dire nulla, voleva solo porre fine a quel delirio di parole, per cui assentì più volte e il nonno parve sollevato. Ma il vecchio ebbe un attacco di tosse convulsa e lei temette che non riuscisse a superarlo.

    Ancora una volta i sussulti del petto si placarono in fretta, anche se il nonno ansimava come un mantice nel tentativo di ritrovare il fiato. Fece uno sforzo immane e il suo respiro si ridusse a un rantolo continuo. Tentò di dire ancora qualche parola, ma dalle sue labbra aride uscì solo uno stentato sibilo. Per cogliere il senso di quel sussurro la nipote dovette avvicinarsi al viso dell’uomo.

    – Madigaille… promettimelo che andrai alla montagna e che porterai le mie ceneri con te! Promettilo, Madigaille…

    Nell’avvertire il distacco ormai prossimo, un velo di lacrime offuscò la vista di Arlette.

    – Te lo prometto, nonno. Ti porterò sulla montagna.

    – Addio, Prediletta… piccola mia… ora muoio contento…

    Furono le sue ultime parole. Il caro e saggio vecchietto che l’aveva amata e seguita come una figlia morì tra le sue braccia con il viso rivolto alla montagna.

    – Miao… miao… miaooo… – Il verso della gatta risuonava come una nenia persistente, simile a un desolato canto funebre.

    Arlette ebbe un incomprensibile scatto d’ira verso il felino e con un gesto della mano lo scacciò dal letto.

    In quel momento il dolore per la perdita l’assalì con violenza. Sentì un senso di lacerazione crescerle dentro che esplose in breve in un pianto a dirotto.

    I funerali del nonno si svolsero all’insegna di quella stessa sobrietà che era stata la regola della sua vita.

    Durante la funzione Arlette si rese conto che ben poche persone erano al corrente dell’esistenza di quell’uomo semplice, buono, che non aveva mai dato modo di farsi notare.

    Nella fanciullezza lo aveva osservato camminare nelle strade, tra la gente, mentre guizzava frettoloso e silente come un fantasma che intende passare inosservato. Era uno degli aspetti peculiari del suo carattere: quasi un’ostinazione, la sua, di andare in giro come se non volesse lasciare traccia del suo passaggio ed evitare a tutti i costi ogni impressione sul prossimo.

    Si comportava nello stesso modo anche quando erano insieme: la prendeva per mano e lei si divertiva a osservargli i piedi inguainati nelle scarpe di pelle scamosciata seppur un

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