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Sotto il cielo del mondo
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E-book187 pagine2 ore

Sotto il cielo del mondo

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Info su questo ebook

Alvaro Giacometti viveva una vita tranquilla, sicuro nella quotidianità del piccolo paese di montagna nel quale era cresciuto. Questo finché gli giunse notizia della morte del padre che non vedeva da decenni. Scoprì che l’uomo che lo aveva abbandonato per diventare un marinaio era tornato a vivere non molto distante. Andò a casa sua e gli si parò davanti il modello di una nave cargo: dodici metri di ferro e altri materiali da cantiere.
Perché?
Alvaro Giacometti non trovò altra soluzione che ricostruire la storia del padre ripercorrendone le orme. Trovò un indizio e raggiunse Gdansk, là ne trovò un altro e continuò in un avventuroso girovagare per i porti del mondo.

LinguaItaliano
Data di uscita27 ott 2020
ISBN9788831285223
Sotto il cielo del mondo
Autore

Flavio Stroppini

Flavio Stroppini. Ha pubblicato i romanzi “Kubi goal!” per Casagrande Editore (2016), “Pellegrino di cemento – Le voyage d’orient cento anni dopo Le Corbusier” (2012), “Niente salvia a maggio” (2004) per GCE Editore; “I cani” per le edizioni Fuoridalcoro; e la raccolta di racconti “Scarafaggi” per le edizioni Ulivo (2009). Sue le raccolte poetiche “Lo Strahler” (2014) per le Edizioni Fuoridalcoro; “Assemblaggio informazioni verosimili quotidiane”(2008) per le Edizioni Alla Chiara Fonte, Lugano, 2008 e Bar Macello (2001) per GCE Editore. È presente in varie antologie: “Gotthard, Landscape, Myths and Technology”, Scheidegger & Spiess (2016); “Chi sono io? Chi altro c’è lì?”, Franco Cesati Editore (2016) e “Come diventare scrittore di viaggio”, Lonely Planet (2018).Da anni scrive e dirige radiodrammi per la Radiotelevisione Svizzera Italiana. È regista della serie radiofonica “Semm ammò chì” per cui scrive alcune puntate. Del 2017 il progetto “fabula”, che racconta in 50 radiodrammi 2600 anni di storia di una valle alpina. Nel 2018 il radiodramma “Essere o...” da lui scritto e diretto viene selezionato a rappresentare la Svizzera al prestigioso Prix Italia. Suoi gli spettacoli teatrali “Il viaggio di Arnold” (parte di un progetto crossmediale che unisce il teatro alla radiofonia, al web, al cinema e alla letteratura – copione pubblicato da Gabriele Capelli editore), “Prossima fermata Bellinzona” (documentario teatrale sulla ferrovia al sud delle Alpi), “Kubi” (con Amanda Sandrelli) e “Tell”.Del 2018 il progetto di teatro-walking “Sì, Rivoluzione!” che, coinvolgendo svariati artisti, racconta il centenario dello sciopero nazionale elvetico.Da anni scrive reportage per diversi giornali e riviste.Sue sceneggiature sono state presentate in svariati Festival internazionali e trasmessi da televisioni di tutto il mondo. Del 2009 il documentario sulla guerra nei Balcani “Custodi di guerra”, scelto dal Comitato Internazionale della Croce Rossa per rappresentare le Convenzioni di Ginevra. Sempre del 2009 il videoclip “The Race, Heavenly States”, premio sceneggiatura Lincoln Rising Stars Competition e in onda ai Grammy Award 2009 sulla CBS. Del 2012 il cortometraggio “Questo è mio!”, realizzato da Eric Bernasconi in occasione del 300’ della nascita di Rousseau per la Radiotelevisione Svizzera.Insegna narrazione del reale alla Scuola di Storytelling & Performing Arts Holden di Torino e al Master di Sviluppo creativo e gestione delle attività culturali dell’Università Cà Foscari di Venezia.Ha tenuto reading e conferenze in Svizzera, Italia, Francia, Germania, USA, Cina, Iran, India, e Tunisia. Grazie al suo lavoro è stato invitato a rappresentare la Svizzera alla “Settimana della lingua italiana nel mondo” a Mumbai, Tehran, Tunisi, Washington DC, Guangzhou, Shanghai, Beijing e Hong Kong.

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    Sotto il cielo del mondo - Flavio Stroppini

    Sotto il cielo del mondo

    di Flavio Stroppini

    Copyright 2020 Gabriele Capelli Editore

    Gabriele Capelli Editore

    ISBN 978-88-31285-22-3 (EPUB)

    Immagine di copertina: Johannes Plenio, Pexels.com

    Prima edizione GCE novembre 2020

    Pubblicazione sostenuta da: Fondazione svizzera per la cultura Pro Helvetia

    La casa editrice Gabriele Capelli Editore beneficia di un sostegno strutturale dell'Ufficio federale della cultura per gli anni 2016-2020.

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    A sorprendere tutti fu il fatto che avevamo percorso 240’000 miglia per vedere la Luna, ma era la Terra che valeva davvero la pena di guardare.

    William Anders, astronauta Apollo 8, 1968

    *

    Il giorno in cui nacqui scendeva un caldo vento da nord. Nessuno riusciva a raccapezzarsene: Dal nord arriva il freddo dicevano. Ma a quel vento non fregava niente di cosa pensassero gli esseri umani. Lui soffiava come gli pareva.

    Il giorno in cui venni al mondo mia madre morì. Fu così, come gemmano i rami dopo l’inverno: prima la morte e poi la vita. Mia madre morì che ero a mezzo percorso. I piedi nel mondo e la testa ancora dentro di lei. Mi tirarono fuori a forza. Piansi per cercare aria. Eccoti qua dissero. Nessuno pensò a dire Benvenuto! oppure Buona vita!, d’altronde a chi sarebbe potuto importare di quel bimbo nato da madre morta e padre disperso? Mi tagliarono il cordone senza troppe celebrazioni. Taglia che dobbiamo staccarlo dalla madre dissero. Così fecero. Semplicemente mi tennero in vita, appena nato da una madre morta.

    Quella stessa notte undici vacche del Giovanni si suicidarono gettandosi in un dirupo sotto l’alpe Aspra. Le trovarono il mattino seguente, accatastate l’una sull’altra a formare una collina di carne e ossa. Il Piero, che fu il primo ad arrivare sul posto, mi raccontò che con i raggi di sole di taglio che sbattevano sull’ammasso, quello sembrava formare quasi un volto. Le zampe ritte in aria i capelli, una schiena la bocca ghignante e due o tre musi fusi assieme dall’impatto, formavano un naso bitorzoluto e un paio di buchi del culo erano gli occhi. Un cazzo di diavolo disse il Piero.

    Il giorno in cui venni partorito di mio padre nessuno ebbe notizia. All’ospedale del capoluogo c’era zia Ines, la sorella del disperso. Fu lei che mi abbracciò come una madre. Fu lei che mi diede il nome, dato che mia madre quello suo se l’era tenuto segreto. Mi chiamò Alvaro, come un cantante girovago che le aveva fatto girare la testa quando era appena diventata donna. Quell’Alvaro si era presentato al paese pochi giorni prima della Festa di San Valeriano, il 14 di aprile. In paese si stava preparando la celebrazione del patrono. Era tutto un brulicare di persone intente agli addobbi, alle luminarie per la processione notturna, all’allestire la cucina da campo nel cortile dell’oratorio. Ognuno con il suo mestiere se ne stava indaffarato ad abbellire quella manciata di strade che chiamavamo generosamente centro paese. Nei giorni di San Valeriano non litigava nessuno, era questo il grande miracolo. Già, quei giorni la natura rinsecchita dall’inverno germoglia festeggiando la primavera e anche gli uomini ogni anno ritrovano un poco di felicità. Me lo sono sempre chiesto come il festeggiare un martire possa farci stare bene. Chissà cosa avrebbe detto il nobile patrizio romano Valeriano di tutto questo? Avrebbe mai pensato di ritrovarsi onorato, quasi due millenni dopo, da un gruppo di montanari? Chissà quanti di questi montanari, per pochi giorni all’anno così religiosi, avrebbero avuto la forza di Valeriano di non toccare la moglie sin dalla prima notte di nozze poiché protetta da un angelo del Signore? Di sicuro non la ebbe quell’Alvaro girovago e cantante che nel pieno della processione si portò la zia Ines dentro al fienile e con lei si divertì per qualche ora. Poi sparì, proprio come spariscono tutti gli uomini della famiglia Giacometti. Certo, quel musicista non lo era, né famiglia né tantomeno uomo. La zia si trovò con un bimbo nel ventre e questo le rovinò la vita. Il bambino non arrivò al settimo mese che se ne volle uscire, e come è per i destini nati segnati, non resistette nemmeno il tempo di vedere sua madre. Emise solo un grido e poi se ne andò. Zia Ines non ebbe nemmeno il tempo di dirgli Amore. In paese non la volle più nessuno, se non per una notte. Questo le appiccicò una brutta reputazione che la fece aggrappare ai Santi e alle loro storie. Io ho sempre pensato che avesse voluto chiamarlo proprio Alvaro quel bambino e quando la zia Ines si ritrovò me in braccio fu come se le avessero dato una seconda possibilità. Come se non bastasse, a tutto quel dolore si aggiunse la morte della cognata e fu proprio quella la goccia che fece traboccare il vaso. Zia Ines il dolore lo buttò via tutto e decise di non volerci avere più niente a che fare. Si prese cura di me e si dedicò ai Santi. Tutti i Santi tranne uno, Valeriano. Quando scoprì che quello era il Santo invocato contro le tempeste le venne quasi un colpo e maledì quel fratello che da quando aveva ingravidato la moglie non si era più fatto vedere. Mio padre.

    Fu come se la vita mi avesse insegnato subito come va il mondo. Respirai, mangiai e crebbi senza pensare troppo all’amore di madri e padri. Mi convinsi che al mondo ci fossero solo le cose che puoi toccare con mano. Se ti scotti, ti geli o ti feriscono, ecco che esistono e tutto il resto non conta. Per me c’era zia Ines e quel paese aggrappato alle Alpi.

    Fino ai dodici anni c’erano anche i Santi che zia Ines mi aveva fatto amare come fossero familiari. Ricordo che era il mese di giugno quando ai Santi chiusi la porta in faccia. La scuola stava per terminare e con Franco, l’unico altro bambino della mia età in paese, ci divertivamo a giocare a essere grandi. La prima sigaretta, il primo sorso di vino e quell’affare tra le gambe che iniziava ad avere vita propria. Ci nascondevamo nel vecchio pollaio della Irma, un donnone con il marito morto in un incidente di caccia, e là, come fossimo in una qualche Nuova York, imparavamo i rudimenti del poker e del black jack fumando mozziconi raccattati di nascosto fuori dall’osteria e bevendo da una bottiglia rubata dalla cantina del padre di Franco. In verità non ci piacevano né le carte, né le sigarette, né tantomeno bere il vino, ma lo starcene lì in quel modo ci faceva sentire come mai prima. Là nel vecchio pollaio della Irma eravamo grandi. E in mezzo alle gambe stavamo scoprendo dei giochi che, quelli sì, ci davano un piacere mai goduto fino a quel momento. Ci solleticavamo immaginando la Piera e la Federica, le due cugine appena maggiorenni che attiravano maschi da tutta la valle. La Piera aveva dei capelli riccioli che sfarfallavano col vento. La riconoscevi da lontano, un cespuglio bruno che ondeggiava risalendo dal piccolo negozio di alimentari in fondo al paese fino alla piazza. La Federica invece era una biondina tutta mingherlina, agile come uno di quei felini esotici dei documentati alla televisione. Portava i capelli molto corti, che in quegli anni andava di moda, e appena il tempo lo permetteva si annodava la camicia proprio sopra l’ombelico facendo sospirare mezzo paese. Noi le spiavamo appena potevamo, ingelosendoci quando qualche giovanotto si avvicinava troppo. Loro erano nostre, era chiaro. Ma questa convinzione se ne andò presto. Mauro, il fratello maggiore di Franco si prese prima la Federica e poi la Piera. Franco e io lo aspettammo una sera nascosti dietro a un muretto vicino alla fermata della corriera a inizio paese. Mauro scendeva ogni giorno al capoluogo per lavorare in un’officina meccanica e rientrava con i racconti della città, luogo che noi vedevamo solo una volta al mese. Io per la messa in Cattedrale e Franco per la vendita dei formaggi e dei vini del padre al Mercato Grande. Mauro invece se ne tornava con i racconti dei bar, della gente, dei treni che andavano a nord e a sud. Raccontava a Piera e Federica di vetrine, dei negozi alla moda e di locali con la musica dal vivo. E le galline ci cascavano, lasciando noi a trastullarci nel pollaio. Decidemmo di fargliela pagare a Mauro, per quello ci appostammo. Sassi di media misura, di quelli che fanno male ma non abbastanza da romperti qualcosa. Gliene tirammo addosso che sembrava un temporale. E lui cosa fece? Scoppiò a ridere. È per le cuginette? chiese. Me le sono fatte davanti e didietro, disopra e disotto!. E rideva. E noi giù quasi senza più forza nelle braccia. E per ogni cosa che ci diceva giù a lanciare e più lanciavamo più i nostri sassi perdevano potenza. Era come se a furia di parole ci togliesse le forze. Tutto qua quello che sapete fare? Non avete più forze?. Noi ce ne stemmo là, in silenzio. Ci aveva umiliati. Eravamo pronti per la punizione. Di sicuro ce le avrebbe date di santa ragione. Abbassammo il capo, ma la punizione fu molto diversa da quella che ci aspettavamo. Rise di nuovo e ci chiese per l’ennesima volta Non avete più forze?. Noi zitti. Segaioli! disse lui. Ci fece più male con una sola parola che con cento ceffoni ben assestati. Così ce ne tornammo al pollaio. Passò qualche ora e Mauro ci venne a trovare. Eravamo terrorizzati, guardavamo quell’uomo vero, che si era fatto le nostre donne, che ora se ne stava nel nostro pollaio.

    È tuo, se lo vuoi gli dissi.

    Cosa? chiese lui.

    Il pollaio.

    Che me ne frega del pollaio!

    Perché sei qua?

    Per bere il vostro vino.

    Lo guardammo scolarsi la nostra bottiglia. Franco era ammutolito, aveva quella faccia che fa ancora oggi quando vuole sparire. Si risucchia le guance e fa gli occhi a palla, poi incassa la testa nelle spalle che sembra non abbia più il collo.

    E per darvi qualcosa aggiunse.

    Ci porse un pacchetto di sigarette nuovo di zecca e un giornale.

    Sfogliatelo disse.

    Ci si aprì un mondo. Più che un giornale, quello era il catalogo del Paradiso a cui bramavamo. Due ragazzini in prima pubertà avevano a disposizione un centinaio di pagine di poppe, culi, sessi. In foto singole, in rapporti di coppia, qualche gioco a tre, un paio di ammucchiate e anche con oggetti di varia natura. Sfinitevi disse Mauro. Poi ci salutò e se ne andò. A mezzo cortile si girò verso il pollaio. Il vino ve lo riporto urlò. Segaioli!

    Poi arrivò il sabato, che era il giorno di Don Gabriele. Ogni settimana sia io che Franco eravamo obbligati a confessarci. Ci sentivamo molto puliti quando uscivamo. Gli avevamo anche raccontato delle sigarette e del vino. Lui ci aveva suggerito di andarci piano. Era un brav’uomo Don Gabriele, originario di un paese della riviera ligure, si era ritrovato tra i montanari suo malgrado. Dio ha voluto così sospirava quando l’inverno era così gelido che nemmeno starsene accanto al camino serviva a togliere il freddo da sotto la pelle. Consolava la sua nostalgia con il vino e con qualche grappa di troppo. A noi era sempre piaciuto, fino a qualche anno prima di quel mese di giugno giocava anche a calcio con noi. Era dotato di un buon sinistro. Si piazzava là, all’ala, e faceva – come diceva lui – il mezz’arcangelo Gabriele. Quel giorno Franco decise di saltare la confessione. Questa cosa del giornale pornografico non l’avrebbe proprio potuta raccontare a un prete, e soprattutto a Don Gabriele.

    Ci suggerirà di andarci piano dissi io.

    Questa è grave Alvaro!

    Dio capisce tutto, se ci ha fatto così avrà preso in considerazione che avremmo potuto avere questo genere di comportamento.

    Ma come cazzo parli?

    Parlo come si parla di Dio!

    Lo dirà a mia madre. Anche alla Ines.

    Non dirà niente. Dio ha voluto che la confessione fosse segreta.

    Dio, Dio, quello è un uomo!

    Don Gabriele è un prete.

    E un prete non è un uomo?

    Smettila di fare domande, mi hai annoiato. Vieni o no?

    Non ci penso proprio!

    Così me ne andai in chiesa tutto solo, non prima di aver salutato Franco urlandogli Segaiolo! da mezzo cortile. Devo ammettere che quel giorno ero terrorizzato. L’avevo fatta grossa. Forse Dio non avrebbe potuto sopportarlo. Entrai in chiesa. Dal confessionale stava uscendo la Pia, che del significato di quel nome proprio non gliene importava niente. Aspettai un poco guardando l’affresco stinto di San Valeriano nell’abside. Pensai alle tempeste in mare, a quanto debbano fare paura a un uomo di montagna. Pensai al padre che non avevo mai conosciuto, se non per qualche cartolina inviata dagli angoli più lontani del mondo e con parole sempre uguali: Saluti, Papà. Erano tutte indirizzate alla mamma, come se non conoscesse nemmeno il mio nome. Mi arrabbiai e invocai San Valeriano di farla scendere una benedetta tempesta, di quelle toste, e di affondarla quella fottuta nave dov’era imbarcato mio padre. Con quella furia entrai nel confessionale. Don Gabriele mi chiese cosa fosse successo. Scoppiai a piangere. Gli raccontai di mio padre, dell’invocazione a San Valeriano. Di avere voluto morto colui che avrei dovuto invece onorare e rispettare.

    Ma come faccio a onorare e rispettare qualcuno che non ho mai visto? gli chiesi.

    Anche Dio non lo hai mai visto rispose Don Gabriele.

    Cosa vuol dire, che mio padre è Dio? Che minchiata. Oh, scusi.

    Alvaro tranquillo. Le vie del Signore sono infinite, un giorno capirai.

    Come fa a saperlo, Don Gabriele?

    Come faccio a sapere cosa?

    Che capirò!

    Ho fiducia rispose lui.

    Io a quel Ho fiducia sentii come creparsi qualcosa dentro. Una crepa sottile e continua, che avanzava inesorabile diradandosi poi in una fitta rete di scanalature sul monolite della mia fede. La sentii proprio fisica, quella cosa lì. E quelle scanalature, nel

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