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I racconti di Barcellona
I racconti di Barcellona
I racconti di Barcellona
E-book278 pagine4 ore

I racconti di Barcellona

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Info su questo ebook

Luccica Barcellona. Nei dépliant e nelle fotografie dei turisti; nei monumenti e nei divertimenti notturni; nei suoi eccessi e nella sua riservatezza. Luccica in superficie, dove l’attenzione si ferma, non certo nei rapidi sguardi impietosi, a volte sarcastici ma profondi che condensano frammenti di vita che potrebbero appartenere a molti. Nei racconti di Fabrizio Acanfora, la vita è quella che è, la percezione del dolore o delle gioie è personale perché anche l’ostacolo più banale può diventare una tragedia senza soluzione, se quell’ostacolo è la tua tragedia privata. Così le speranze fanno più male della realtà; lo sa Eva, giovane laureata che pur di lavorare partecipa alle tragicomiche selezioni di una multinazionale; lo sanno Cecilia e Gregori e Manolo e Maria che cercano di sottrarsi con ogni mezzo all’alienazione di una società sempre più indifferente; lo sa Asunciòn, anziana e rispettabile signora, che si trova coinvolta in una rapina e finisce per agire da criminale essa stessa. Attraverso una narrazione intrisa di sarcasmo e ironia, l’autore ci introduce per un attimo nella quotidianità a volte grottesca e surreale dei protagonisti, lasciandoci affascinati.
LinguaItaliano
Data di uscita4 giu 2015
ISBN9788898041534
I racconti di Barcellona

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    I racconti di Barcellona - Fabrizio Acanfora

    I racconti di Barcellona

    Fabrizio Acanfora

    Copyright© Officine Editoriali 2015

    Prima edizione ebook Giugno 2015

    Tutti i diritti riservati.

    Il presente file può essere usato esclusivamente per finalità di carattere personale. Tutti i contenuti sono protetti dalla legge sul diritto d’autore. Officine Editoriali declina ogni responsabilità per ogni utilizzo del file non previsto dalla legge. È vietata qualsiasi duplicazione del presente ebook.

    ISBN 978-88-98041-53-4

    info@officineditoriali.com

    Seguici su Twitter: @OffEdit

    Facebook: http://www.facebook.com/officineditoriali

    Ebook by: Officine Editoriali

    Foto di copertina di Enric Terradas Pujol

    Elaborazione grafica copertina: Officine Editoriali

    Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore e hanno il solo scopo di rendere realistica la narrazione. Qualsiasi analogia o riferimento a fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è da ritenersi puramente casuale.

    A Mau

    La gente comune e la stampa, da tempo abituate a un mondo impazzito, non avevano ancora notato che le cose negli ultimi tempi erano peggiorate sempre di più

    KURT VONNEGUT

    (dal racconto: L’epizootica)

    SOMMARIO

    Capocciona

    La licenza

    Tutto girava vorticosamente

    Questo è il nostro amore

    È solo il lavoro

    Rapsodia

    Io te l’avevo detto

    Convention

    Non guardarmi così

    Ma perché ci mette tanto?

    Non rimase in piedi più niente

    A fettine sottili

    Ancora una volta

    Era appena dopo il tramonto

    Amparo

    Fuckcelona

    Gli uccelli hanno fame, in inverno

    Un caffè, lo prende?

    Serial selfie tour

    Cinque volte sette

    Sarà felicissima

    La lavatrice ha qualcosa che non va

    Capocciona

    Luisa è una ragazza normale. Due gambe, due braccia, un corpo tutto sommato proporzionato, a parte un paio di chili di troppo sul sedere che però non sembrano attirare più di tanto la sua attenzione.

    Luisa potrebbe avere una vita normale ma non ce l’ha, perché crede di avere la testa troppo grande. In realtà è assolutamente convinta di avere una testa enorme, spaventosamente sproporzionata.

    Da bambina, suo fratello prese a scherzare sulle dimensioni della sua testa. Durò qualche settimana, poi poco a poco Raúl perse interesse per quello scherzo, anche perché effettivamente la testa di Luisa non aveva proprio niente di strano. Ma quel gioco crudele veniva perpetrato dal suo idolo, il suo fratello maggiore, e quando lui se ne andò, qualcosa scattò nella mente di Luisa.

    Capocciona, è ora di andare a dormire, le diceva la sera, e lei cominciava a gridare come un’indemoniata e più Luisa gridava, più lui ci provava gusto. Capocciona, mi passi il formaggio? Capocciona, sei pronta per andare a scuola? Capocciona!

    Erano da poco iniziate le vacanze estive e i due bambini vennero affidati per qualche giorno a una coppia di amici di famiglia. A Luisa l’idea di passare tanto tempo lontano dalla mamma non piacque affatto, ma sua nonna stava proprio male, e i genitori volevano risparmiare ai bambini lo strazio degli ultimi giorni, le visite all’ospedale, i pianti, il funerale.

    A poche centinaia di metri dalla casetta bifamiliare in cui la coppia li ospitava c’era una scogliera. I due fratelli ci andavano a caccia di piccoli granchi ogni pomeriggio dopo pranzo, quando i grandi riposavano e il sole bruciava alto sopra le loro teste. Per raggiungere la scogliera bisognava attraversare un’area di vegetazione piuttosto fitta, l’erba tutt’intorno era alta e pizzicava le gambe quando ci si passava in mezzo. Luisa in realtà detestava quelle spedizioni, ma la mamma si era raccomandata di stare sempre insieme a suo fratello così, anche se controvoglia, lo seguiva senza fare troppe storie.

    «Dai, Capocciona, andiamo alla scogliera.» le disse Raúl quel pomeriggio.

    «Non sono una capocciona!» replicò lei «E poi sto giocando con le bambole. Non mi va.»

    «Allora vedi che sei una capocciona? Testadura … dai, con le bambole puoi giocarci dopo, adesso non fare la bambina.»

    «Ma io ho cinque anni, sono una bambina. E smetti di chiamarmi capocciona.» protestò Luisa con tono di sfida.

    «E va bene, fa’ come vuoi. Io vado, però la mamma ha detto che devi stare con me. Vuoi disubbidirle?»

    «Vengo solo se smetti di chiamarmi così.»

    «Così come?»

    «Capocciona.»

    «Ma allora vedi, che lo sai anche tu?»

    Raúl guardò la sorellina e le sorrise. Si sedette di fronte a lei e le disse: «Va bene, la smetto. Però adesso andiamo, dai.»

    I due bambini si incamminarono verso il mare. L’erba frustava le loro gambe nude e a ogni scudisciata Luisa emetteva un gridolino di fastidio. Una volta giunti davanti alle rocce Raúl si fermò e assunse un’aria seria.

    «Provo ad andare al di là di quegli scogli.» disse, indicando un punto coperto alla vista da una montagna di massi. «Ieri lì c’erano parecchi granchi. Tu però rimani qui, mi raccomando.»

    «Perché vuoi arrampicarti proprio là? E se ti fai male?» chiese Luisa.

    Non le piaceva l’idea di rimanere lì da sola, sentiva il rumore degli animali che si muovevano nell’erba. Il giorno prima le era parso di vedere la coda di un mostro, forse un drago, non ne era sicura. Ma a Raúl non aveva detto niente perché altrimenti l’avrebbe presa in giro, come al solito.

    «Ehi, Capocciona. Allora io vado, tu resta qui.»

    «Ma avevi detto che non mi avresti più chiamata capocciona.» piagnucolò Luisa.

    Osservò Raúl allontanarsi saltando da una roccia all’altra e si sedette imbronciata con le braccia conserte su una grossa pietra. Il brontolio delle onde che si infrangevano sulla scogliera le giungeva cupo e sordo, come il grugnito di un dinosauro.

    Non riusciva a capire perché da un po’ di tempo suo fratello si comportasse in quel modo. Quando era più piccola la coccolava, la difendeva, era sempre gentile con lei e giocavano insieme ogni pomeriggio. Ma da quando aveva cominciato ad andare alla nuova scuola tutto era cambiato. Spesso la prendeva in giro e ultimamente poi era iniziata quella storia della testa. Quella proprio non la sopportava. E se avesse ragione lui?, si domandò, se davvero la mia testa fosse così grande? Forse mamma e papà non le dicevano nulla per non metterla a disagio. Forse Raúl in realtà era l’unico veramente sincero con lei.

    Era completamente assorta nei suoi pensieri quando udì un tonfo. Scattò in piedi, fece per correre verso il fratello ma ricordò che Raúl le aveva ordinato di rimanere lì. E così non si mosse.

    «Raúl!» urlò spaventata.

    «Che c’è, Capocciona? Adesso sei anche fifona?» chiese lui.

    Un altro tonfo, più forte del primo. E un urlo, tremendo.

    «Corri, corri a casa a cercare aiuto! Sono caduto, gli scogli sono franati … la gamba, non riesco a muovermi!» gridò Raúl.

    Luisa non si mosse. Sicuramente era un altro scherzo di suo fratello. Se si fosse mossa da lì se la sarebbe presa.

    «Luisa!»

    «Lo so che stai scherzando.» disse lei. «Scherzi sempre, tu.»

    «Capocciona, non riesco a muovermi. Corri a chiamare aiuto, muoviti!» la implorò Raúl.

    Luisa si alzò e si avvicinò alle rocce dietro alle quali era scomparso il fratello pochi minuti prima. Il cuore le batteva veloce e a ogni passo le sembrava di udire Raúl lamentarsi più distintamente. Cercò di arrampicarsi su quei massi più rapidamente che poté. Scivolò e si sbucciò le ginocchia, ma era talmente concentrata che nemmeno se ne accorse. Più in basso, sotto di lei, scorse la maglietta azzurra di Raúl. Non si muoveva, e i gemiti erano sempre più deboli. Era sepolto sotto un mucchio di pietre in una posizione contorta e innaturale.

    Fu allora che il cuore le esplose nel petto. Non scherzava. Come aveva potuto pensare che suo fratello potesse farle uno scherzo tanto crudele?

    E se non scherzava, allora era vera anche la storia della sua testa?

    Correva, Luisa, correva veloce; sentiva i fili d’erba frustarle le gambe e l’odore della vegetazione che si arrostiva al sole le entrava nei polmoni stampandosi per sempre nella sua memoria.

    Luisa si guarda allo specchio. Indossa un vestitino nero di stoffa leggera, il colorito della pelle è di un pallido inquietante e gli occhi sono cerchiati di scuro. Anche stanotte non ha dormito.

    Sono trascorsi dieci anni da quel pomeriggio alla scogliera, dieci anni esattamente oggi e i ricordi risalgono a galla laceranti, colpendola con una precisione chirurgica.

    La psicologa dice che non è stata colpa sua, che non poteva farci niente. Lei aveva ubbidito, non doveva muoversi. E poi, come poteva sapere che quell’ultimo masso si sarebbe staccato proprio mentre correva a chiedere aiuto? Come poteva immaginare che quella pietra lo avrebbe colpito esattamente sulla testa?

    Capocciona chiude la finestra, spegne la luce e accende lo stereo. Il bagliore dell’accendino rischiara la penombra in cui è piombata la cameretta. Gli occhi dei pupazzi ammassati sulla mensola sembrano accendersi per un istante nel riflesso della fiammella. Prende la bacchettina d’incenso e la muove nell’aria. La minuscola brace rossa disegna un otto nella semioscurità, poi un altro e un altro ancora, prima di posarsi nel portaincenso sul comodino.

    Dal giorno dell’incidente la sua vita è cambiata. La vita di tutta la famiglia, è cambiata. È stato un lento scivolare verso il baratro. Suo padre è invecchiato di vent’anni in un giorno e sua madre è caduta in depressione. Il dottore l’ha imbottita di medicine che pare uno zombie, ma almeno non rompe i coglioni come all’inizio, quando piangeva tutto il giorno.

    Luisa ne è certa, i suoi genitori la ritengono responsabile della morte di Raúl, glielo legge negli occhi.

    Subito dopo l’incidente avevano anche assunto una domestica, una signora russa sui cinquant’anni che veniva due volte alla settimana per sistemare casa, visto che sua madre ormai era ridotta come un vegetale. Ma durò poco. Luisa non voleva che la donna entrasse in camera sua, che frugasse tra le sue cose, e ogni volta erano liti tremende. Così un giorno la aspettò nascosta dentro l’armadio, con un coltello in mano. Voleva solo spaventarla, dimostrare a suo padre che aveva ragione lei, che quella apriva i cassetti e frugava negli armadi. E infatti la domestica aprì la porta dell’armadio per riporvi un vestito e Luisa saltò fuori gridando come un’indemoniata, brandendo il coltello e fissandola con quegli occhi spiritati cerchiati di nero.

    Oggi sono passati dieci anni da quel pomeriggio. È una data importante, pensa Luisa. Ha programmato la giornata da tempo, forse da anni. Dieci è un numero importante, il numero degli anni di Raúl quando morì. Per colpa sua. Della sua testa enorme.

    Inutile dire che Luisa non ha amici, ma proprio nessuno. Ci ha provato, anzi, la psicologa le ha suggerito di provarci ma ogni volta è finita male. Secondo lei quella non ci capisce niente, lo fa solo per soldi. E continua a dire che la sua testa non ha niente che non va, e che se anche fosse così grande come dice, non ci sarebbe niente di male. Quindi sotto sotto ha ammesso che ha la testa enorme, però poi continua a negarlo. Ciarlatana.

    Una volta, avrà avuto nove anni, suo padre invitò alcune compagne di scuola a casa per la merenda. A sorpresa. Quando suonarono alla porta Luisa era in camera a disegnare. Lui la chiamò dal salotto.

    «Guarda chi è venuto a trovarti, non sei contenta?» le domandò.

    Lei lanciò un urlo e si scagliò contro il padre, davanti agli sguardi inorriditi delle madri delle bambine. Le compagne, invece, guardavano le loro mamme con aria compiaciuta, ebbe modo poi di ricordare Luisa, come a dire: ve l’avevamo detto che quella non è normale, noi non volevamo venirci e adesso lo vedete anche voi, che è pazza. E ha la testa enorme.

    L’incenso continua a consumarsi lentamente impregnando l’aria del suo odore agrodolce mentre la musica in sottofondo rimbomba monotona nell’oscurità sempre più profonda. Fuori il sole è tramontato, e ormai dalle persiane chiuse filtra solo una luce fioca che muore immediatamente, risucchiata dal buio della stanza.

    A Luisa piace disegnare, non può farne a meno. Da quando era piccola trascorre ore e ore ogni giorno perfezionando la sua tecnica. Non ha mai preso lezioni, perché nessuno avrebbe desiderato insegnarle quello che le serve. Non insegni a disegnare figure umane con la testa enorme a una ragazzina dalla testa enorme, è contro ogni etica. Chissà poi se c’è un codice deontologico dei professori di disegno, si domandava. A ogni modo col tempo e con l’aiuto di Internet ha acquisito una discreta tecnica, come dimostrano le pareti della sua cameretta completamente tappezzate da disegni di donne, tutte dalla testa gigantesca. Ultimamente poi ha sviluppato una particolare sensibilità per l’abbigliamento, e gli abiti con cui veste le sue figure sono sempre più elaborati e fantasiosi. Una sorta di sfilata di moda per modelle capoccione.

    Non vorrebbe alzarsi, ma deve andare al bagno.

    Stupida, pensa, non avrei dovuto bere tutto quel succo di frutta. Esita un attimo. È che l’idea di dover passare davanti alla cucina e vedere sua madre seduta al tavolo con la solita sigaretta tra le dita e lo sguardo perso nel vuoto, proprio non le piace. Ma non riesce a resistere. Si mette a sedere lentamente, perché con un testone come il suo deve dare il tempo al sangue di arrivare al cervello, e scende dal letto. Accende la luce e una fitta le trafigge gli occhi. Infila le pantofole e apre la porta.

    Le luci sono tutte spente tranne quella della cucina, che illumina una fetta di corridoio. Cammina cercando di non fare rumore. Il posacenere sul tavolo della cucina è pieno ed emana un odore che le blocca lo stomaco come una tenaglia. Lo svuota sotto lo sguardo imperturbabile di sua madre e glielo rimette davanti. Poi si ferma un istante a osservarla, la donna dall’abbigliamento e il trucco sempre impeccabili; sua madre, che le accarezzava sempre quella sua testona enorme, la sera nel letto. Osserva quella figura ormai sciatta e assente accendersi un’altra sigaretta, come se non si fosse accorta della sua presenza. Luisa le sorride e le posa una carezza delicata sui capelli spettinati e grigi, tenuti insieme in un’improbabile coda di cavallo.

    Poi prosegue verso il bagno.

    Entra e si guarda allo specchio. Come faranno a dire che non è vero, proprio non riesce a capirlo. Si vede benissimo che ha una testa gigantesca. E il problema non sarebbe nemmeno quello, o almeno non solo quello. Lei con quel testone avrebbe anche potuto imparare a conviverci, se solo non l’avessero ingannata per tutto quel tempo. È la sensazione di essere presa in giro, che non sopporta. Cercano tutti di nasconderle la verità. E poi, per quale motivo? Perché insistono a dirle che non è vero? Ecco, quello è il vero problema: essere presa per scema.

    Spegne la luce e ripassa davanti alla cucina illuminata, getta un’ultima occhiata a sua madre che siede ancora immobile. Alle spalle della donna, la finestra incornicia le guglie illuminate della Sagrada Familia con l’immancabile gru di metallo nel mezzo. Luisa guarda distrattamente quella cartolina consumata dall’abitudine; si è sempre domandata se la gente vada a visitare il santuario per la sua architettura infantile ed eccessiva o per il mito dei lavori eternamente in corso. Si volta e torna in camera.

    È ormai quasi un anno che Luisa non va più a scuola. Da quel giorno di ottobre in cui aggredì una signora nell’autobus. Quella stronza l’aveva guardata, poi si era voltata verso l’amica e le aveva sussurrato qualcosa all’orecchio. E l’amica aveva cercato di reprimere una risatina, senza peraltro riuscirci neanche troppo bene. Ridevano della sua testa enorme. Alla faccia di chi diceva che non era vero. Doveva essere per quello, perché non vedeva nessun altro motivo.

    Luisa si avvicinò alla donna, quella che per prima l’aveva guardata, e le chiese cos’avesse da ridere, se trovasse tanto divertente una ragazzina dalla testa enorme. La donna la guardò come se le avesse tirato una secchiata d’acqua gelata addosso, strabuzzò gli occhi e le chiese di ripetere. E Luisa gliela ripeté, la domanda, solo che la riformulò scandendo ogni sillaba con uno spintone. Suo padre dovette correre dal lavoro. Chiuse il negozio e la trovò in ospedale sedata, completamente rincoglionita da una dose massiccia di diazepam, che ridacchiava farfugliando discorsi incomprensibili.

    La musica scandisce il tempo nella stanza buia, l’incenso ne riempie lo spazio. Sul comodino, accanto alla bacchettina accesa, la sveglia a cristalli liquidi segna le sette e mezza. A caratteri rossi.

    Luisa vuole bene ai suoi genitori, nonostante le abbiano mentito per tutti quegli anni. Sa che lo fanno a fin di bene, che credono di aiutarla. Solo che il risultato è stato disastroso. Per dieci anni ha dovuto convivere con quel teatrino cercando di assecondare le loro bugie. Sì, lo so, avete ragione, non ho la testa grande, chissà perché continuo a credere che sia così. Aveva perfino accettato di vedere la psicologa e quel neurologo, un altro imbecille. Lui le aveva dato da prendere delle pillole, l’avrebbero aiutata a sentirsi meglio.

    Eccome, se si era sentita meglio; tanto meglio, si era sentita, che per le prime due settimane non era riuscita ad alzarsi dal letto. E le nausee, poi, una tortura. Così aveva cominciato a fingere. Fingeva di prendere le medicine, tutto qua. Poi, per non essere scoperta, fingeva di stare meglio, il che praticamente consisteva nel dare ragione a chiunque le dicesse che la sua testa era normale.

    Per un po’ la cosa aveva funzionato, anzi, per un bel po’ di tempo. Ma dopo l’episodio dell’aggressione sull’autobus quello stronzo del neurologo le aveva cambiato le medicine, e aveva detto a suo padre di accertarsi che le prendesse davanti a lui. Anche questa volta però Luisa era riuscita a fregarli. Suo padre le diceva apri la bocca e alza la lingua, ogni volta che lei mandava giù una pasticca. Poverino, pensava, non è che sia poi tanto sveglio se non si accorge che la tengo tra la guancia e la gengiva.

    Sette e quarantacinque. Suo padre non tornerà prima delle nove e mezza, come ogni sera.

    Negli ultimi mesi, poi, Luisa ha superato se stessa: è riuscita davvero a far credere a tutti di stare meglio. Inutili, ecco cosa sono, degli inutili. Non tanto suo padre, che poveretto sta a sentire quello che gli viene detto, ma quei due, la psicologa e il neurologo. Bisogna stare attenti a quei due. Fanno sempre un mucchio di domande e spesso cercano di fregarla, di farla cadere in qualche contraddizione. Ma ha imparato, non è mica scema, lei.

    Suo padre le sembra sempre più stanco. Potrebbe rifarsi una vita ma tra lei e la mamma non è così facile. Per un po’ Luisa ha perfino sperato che accadesse. Ha immaginato come sarebbe stato se lui avesse rinchiuso il fantasma di sua madre in un manicomio e si fosse trovato un’altra donna. Una che magari gli avesse fatto notare che sbagliavano. Lui e i medici. Ha fantasticato sulla sua nuova matrigna, una donna di mezza età dolce e comprensiva che non avrebbe cercato di nasconderle la verità. Sarebbe arrivata a casa, un giorno, e lei l’avrebbe conosciuta. Ciao Luisa, le avrebbe detto, tuo padre mi ha parlato molto di te. Ti vuole bene, sai? Si preoccupa tanto per te, secondo me troppo. Sei proprio una ragazza carina. Certo, quel testone … ma vedrai che insieme troveremo una soluzione.

    Quale sarebbe stata la soluzione, Luisa non lo sapeva, ma una donna del genere l’avrebbe trovata. Magari sarebbe bastato che le dicesse va bene così, c’è gente coi peli sulla schiena o con le orecchie grandi; e lei aveva la testa enorme.

    Però suo padre non si è mai trovato nessun’altra. Figurarsi, vigliacco com’è. Non è fedeltà, quella, è masochismo.

    Otto e un minuto. Il tempo non passa mai. Forse è il caso di cambiare la musica. Ci vuole qualcosa di leggermente più movimentato, altrimenti rischio di addormentarmi, pensa Luisa. E poi è quasi ora di andare a fare cenare la mamma.

    La poveretta ormai è completamente bruciata, nemmeno riesce a mangiare da sola. Sta tutto il giorno immobile, fumando una sigaretta dietro l’altra senza dire una parola, non un sorriso, niente. Bisogna aiutarla a lavarsi, vestirsi, mangiare. Non che non sia capace da sola, alla fine se le metti il cucchiaio in mano lei mangia. Solo che non sa di doverlo fare. È come se il tempo per lei si fosse fermato e non sapesse più quando fare cosa, tutto qui.

    A Luisa però quella situazione non dà particolarmente fastidio. Una persona in meno che cerca di farle il lavaggio del cervello provando a convincerla che la sua testa è normale. Il problema è che è diventata pericolosa, sua madre, anche per gli altri.

    Fuma oggi, fuma domani, e un giorno ha dato fuoco alla camera da letto. Quelle medicine che le danno la fanno addormentare all’improvviso e, da allora, bisogna andare a controllare ogni tanto che vada tutto bene, che non si sia addormentata di nuovo con la maledetta sigaretta accesa tra le dita. Fosse riuscita a dare fuoco a tutto, si disse quel giorno Luisa, forse sarebbe stato meglio. Avrebbero smesso di soffrire trascinando quelle esistenze grottesche all’infinito. Sarebbe stato meglio per sua madre, che tanto ormai sembra un televisore acceso senza sintonizzatore, sarebbe stato meglio per lei, che non avrebbe più dovuto fingere di stare meglio. E anche per suo padre che in quel momento

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