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Le incredibili curiosità della Sardegna
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E-book329 pagine3 ore

Le incredibili curiosità della Sardegna

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Info su questo ebook

Un viaggio alla scoperta dell’isola più misteriosa e affascinante del Mediterraneo

La Sardegna è una delle regioni con più storie da raccontare, perché è un’isola ancora troppo poco studiata, nonostante sia la terra della prima grande civiltà dell’Occidente mediterraneo. Nonostante sia, ad oggi, la regione geografica con il maggior numero di siti archeologici al mondo, ben un quinto dell’intero territorio nazionale. Ma oltre all’archeologia e ai suoi monumenti senza confronti nel Mediterraneo occidentale, come l’altare preistorico di Monte d’Accoddi o quello rupestre di Santo Stefano, troviamo tra le pieghe della storia locale aneddoti e peculiarità tutti da scoprire, che hanno coinvolto personaggi più o meno noti, da Napoleone Bonaparte, sconfitto in battaglia nell’arcipelago di La Maddalena da Domenico Millelire, ad Augusto Bissiri, geniale inventore di Seui trasferitosi con grande successo negli Stati Uniti d’America. E ancora le grandi donne dell’isola, come Elena di Gallura, prima “regina” della storia sarda, o Adelasia Cocco, la sassarese passata alla Storia come il primo medico condotto donna d’Italia, e tante altre ancora…

Tra le curiosità presenti nel libro:
Fate, chiese, pecore, musei e vinerie nelle tombe prenuragiche
I pozzi sacri, la pazzia e la gonna pietrificata di Santa Cristina
Le più antiche statue a tutto tondo del bacino Mediterraneo
Tra Metalla e il Sardus Pater: storia di una scoperta incredibile
Simboli indecifrabili nel sito rupestre di Santo Stefano
I neurochirurghi della preistoria sarda
Efisio Marini, l’imbalsamatore
Stefano Cardu, il primo italiano in siam
Adelasia cocco, il primo medico condotto donna in Italia
Edina Altara, la donna che “arredò” l’Andrea Doria

Gianmichele Lisai
È nato a Ozieri, in provincia di Sassari, nel 1981. Editor e autore, ha collaborato con varie case editrici, scritto per antologie e riviste e curato, con Gianluca Morozzi, la raccolta di racconti Suicidi falliti per motivi ridicoli. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 cose da fare in Sardegna almeno una volta nella vita, 101 storie sulla Sardegna che non ti hanno mai raccontato, Sardegna giallo e nera, Sardegna esoterica, I delitti della Sardegna, Misteri e storie insolite della Sardegna, Forse non tutti sanno che in Sardegna..., Proverbi e modi di dire della Sardegna e, scritto con Antonio Maccioni, Il giro della Sardegna in 501 luoghi.
LinguaItaliano
Data di uscita30 mag 2019
ISBN9788822734013
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    Anteprima del libro

    Le incredibili curiosità della Sardegna - Gianmichele Lisai

    628

    Prima edizione ebook: giugno 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3401-3

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per Corpotre, Roma

    Gianmichele Lisai

    Le incredibili curiosità

    della Sardegna

    Un viaggio alla scoperta dell’isola

    più misteriosa e affascinante del Mediterraneo

    Newton Compton editori

    Ad Alice, per tutto quello che mi ha insegnato

    in questi anni in cui l’ho vista crescere

    Ringraziamenti

    Grazie a Raffaello Avanzini, Gianluca Magnani Avanzini, Gabriele Anniballi, Gloria Giuliano, Roberto Galofaro, Alessandra Penna e tutto lo staff Newton Compton. A Paolo Paoloni, Anna De Girolamo e tutto lo staff Corpotre. A Manuela Carrara per la correzione delle bozze. A Gabriele Corda, Eleonora Sirigu, Francesca Saba, Antonio Maccioni, Silvia Valdés, mia madre e tutto il parentado.

    Indice

    Introduzione

    parte prima. l’archeologia e la costante narrazione di una sardegna epica

    1. Fate, chiese, pecore, musei e vinerie nelle tombe prenuragiche

    2. Le più antiche costruzioni in pietra del mondo

    3. Quella ziqqurat nel Mediterraneo occidentale

    4. I castelli millenari dei nuragici

    5. Tombe di giganti e case di orchi

    6. I pozzi sacri, la Pazzia e la gonna pietrificata di santa Cristina

    7. La costante narrazione di una Sardegna epica

    8. Le più antiche statue a tutto tondo del bacino mediterraneo

    9. Tra Metalla e il Sardus Pater: storia di una scoperta incredibile

    10. Simboli indecifrabili nel sito rupestre di Santo Stefano

    parte seconda. riti e tradizioni tra passato e presente

    1. I neurochirurghi della preistoria sarda

    2. Un rituale antico tradotto dalla superstizione contemporanea

    3. L’erba mortale di un proverbiale sorriso

    4. Sacrifici di vergini e adultere nell’immaginazione popolare

    5. L’eutanasia nella società pastorale sarda

    6. La medicina sarda tra sapere empirico e magia

    parte terza. storia, storie e personaggi

    1. La Sardegna dei Templari

    2. La Sardegna dei pirati

    3. La Sardegna delle streghe

    4. La Sardegna dei pittori misteriosi

    5. La Sardegna dei banditi

    6. La Sardegna dei grandi personaggi

    Bibliografia

    Introduzione

    In questo libro sulle curiosità sarde, contrariamente a quanto da me proposto in pubblicazioni precedenti, più che isolare la singola curiosità nel singolo capitolo ho provato a disseminare di curiosità capitoli più estesi, che in certi casi tentano di restituire, oltre le peculiarità, un quadro più generale sul tema trattato e sul contesto di riferimento.

    L’inevitabile punto di partenza è stato l’architettura preistorica, che in Sardegna trova diversi esempi tra i più significativi in assoluto, sia del periodo prenuragico, ovvero dal Neolitico medio (4900-4300 a.C.) al Bronzo antico (1800-1600 a.C.), sia ovviamente di quello nuragico sviluppatosi in continuità. Nel merito si tenga presente che l’isola, in proporzione, detiene il record mondiale del numero di siti archeologici, che ammontano a circa un quinto di quelli presenti su tutto il territorio nazionale, e nonostante ciò l’antica Civiltà dei Sardi, un fatto storico imprescindibile per l’Occidente mediterraneo, e quindi di grande rilevanza globale, è argomento di studio pressoché escluso dai programmi ministeriali.

    Io stesso, sardo del Logudoro cresciuto in Gallura, sono uscito dal liceo alle soglie del nuovo millennio senza aver mai sentito parlare – o comunque non abbastanza affinché l’argomento sedimentasse nella mia conoscenza anche solo embrionale – di domus de janas, cioè le sepolture ipogeiche che costituiscono l’elemento cultuale più rilevante delle già evolutissime genti prenuragiche. Fino a quel momento, e solo grazie all’iniziativa individuale di alcune professoresse attente alla questione locale, avevo scoperto qualcosa sui circoli dolmenici e le tombe di giganti del territorio di Arzachena, altre due tipologie di edifici funerari riferibili rispettivamente ai periodi prenuragico e nuragico.

    Quanto ai nuraghi, nel mio immaginario di vent’anni fa – così come in quello della maggior parte dei miei coetanei del periodo che non erano cresciuti nei pressi di un sito archeologico complesso – erano semplici torri troncoconiche, assimilabili per struttura e funzione alle vedette aragonesi che caratterizzano il paesaggio costiero dell’isola. In quegli anni, insomma, non avevo mai sentito parlare di nuraghi polilobati, ovvero le nostre regge preistoriche composte da più torri unite tramite bastioni, che molti commentatori, per apparenza strutturale, associano ai castelli medievali. In compenso, sempre al termine del mio percorso di studi presso le scuole superiori, avevo maturato una discreta conoscenza su piramidi e antica cultura egizia.

    È anche a causa di simili lacune, di tanta trascuratezza istituzionale, che diversi autori, quasi in una sorta di compensazione, propongono oggi della Sardegna un racconto mitico, eccessivo, forse in minima parte utile dal punto di vista ideologico, ma pressocché superfluo a fini identitari: per restituire l’importanza diacronica dei Sardi, la dimensione storica del nostro popolo, basterebbe già il solo nuraghe, cioè, parafrasando Lilliu, il «fatto architettonico e ingegneristico» che rappresenta la visualizzazione e la cristallizzazione di uno stato di Civiltà ricco di contenuti spirituali e materiali; ma ben oltre il nuraghe, e ancora prima della civiltà legata a questo monumento, la Sardegna aveva già prodotto l’altare preistorico di Monte d’Accoddi, unica struttura nel Mediterraneo occidentale assimilabile alla ziqqurat, e le summenzionate domus de janas, i circoli megalitici, i dolmen, le allée couverte ecc. Intorno a queste strutture, e a seguire a quelle coeve al nuraghe, come le tombe di giganti e i pozzi sacri, sono sorte miriadi di ipotesi, certe dimostrabili, altre platealmente leggendarie, altre ancora più o meno verosimili o più o meno fantasiose ma comunque destinate a depositarsi nell’estesa zona grigia entro i confini delle incertezze.

    È proprio in questa zona grigia che nasce e prolifera la costante narrazione di una Sardegna epica cui facevamo riferimento e che dà il nome alla prima parte del presente volume. Una narrazione troppo spesso debordante, futile, come dicevamo, se contrapposta o anche solo accostata alle concretezze che già oltre un secolo fa portavano Giovanni Patroni, studioso campano e dunque avulso da qualsiasi battaglia identitaria sarda, a definire la Civiltà nuragica come la perla dell’occidente mediterraneo, in quanto prima vera civiltà di quest’area geografica.

    Gli ultimi due capitoli della parte dedicata all’archeologia – quello sul tempio del Sardus Pater, la cui ricerca, parafrasando il professor Raimondo Zucca, è stata la più appassionante vicenda topografica dell’isola, e quello sull’altare rupestre di Santo Stefano, come l’altare preistorico di Monte d’Accoddi altro unicum nell’Occidente mediterraneo di origine e funzione ancora oggi misteriose – completano l’avanzamento cronologico fino al periodo bizantino, passando per il punico-romano.

    La seconda parte del volume, come recita il titolo dedicata ai riti e alle tradizioni tra passato e presente, è una sorta di isola tematica fuori dal tempo, di raccordo tra la prima e la terza parte. Si pensi solo alla medicina popolare sarda, che derivando da pratiche antiche come i riti di incubazione del periodo nuragico è giunta quasi incorrotta fino al xx secolo, attraversando il periodo buio dell’Inquisizione in cui chi la praticava, non esclusivamente ma soprattutto donne, rischiava di essere messo al rogo.

    Argomento, quest’ultimo, che trova ampio spazio nella terza parte del libro, Storia, storie e personaggi, posta in continuità cronologica con la prima: se il capitolo dedicato all’altare rupestre di Santo Stefano rimanda al periodo bizantino, infatti, i primi due della sezione conclusiva, dedicati rispettivamente ai Templari e ai pirati, prendono le mosse da quell’incerto periodo di passaggio tra l’autorità centrale bizantina e la nascita in Sardegna dei quattro giudicati autonomi di Cagliari, Arborea, Gallura e Torres. Vi troveremo figure come quella di Gonario ii, giudice crociato del xii secolo che, partito per la Terra santa, dopo aver conosciuto Bernardo di Chiaravalle si sarebbe ritirato a vita monastica presso l’abbazia cistercense di Clairvaux; e ancora Hassan Agà, rinnegato sardo cresciuto dal pirata Barbarossa come un guerriero, che in una storica battaglia ad Algeri nel 1541 avrebbe tenuto sotto scacco la flotta di Andrea Doria e sconfitto la potente armata di Carlo v. In questo stesso secolo, e già dalla seconda metà del precedente, oltre i pirati operavano in Sardegna, con tutt’altri fini, anche misteriosi pittori come i maestri di Castelsardo e Ozieri sulle cui identità ancora oggi gli studiosi indagano fornendo numerose ipotesi appassionanti ma mai risposte definitive. Il penultimo capitolo della parte, e dell’intero volume, prendendo le mosse dal concetto di costante resistenziale sarda proposto da Lilliu, riporta diversi aneddoti curiosi legati alla criminalità, come tappe rappresentative della storia del banditismo sardo non solo in senso cronologico ma anche tematico, dalla genesi, allo sviluppo, al decadimento, anche morale, che ha spogliato nel corso del tempo i fuorilegge della Sardegna di qualsiasi acculturazione socio-politica.

    Infine troviamo, a chiudere il libro, una rassegna di grandi personaggi della Sardegna che si sono distinti sull’isola, in Europa e nel mondo intero.

    parte prima

    L’archeologia e la costante narrazione

    di una Sardegna epica

    immagineimmagine

    Nuraghe in un’incisione tratta da Alberto La Marmora, Voyage en Sardaigne, Turin, Parigi 1826.

    1

    Fate, chiese, pecore, musei e vinerie nelle tombe prenuragiche

    «Ci sono buchi in Sardegna che sono case di fate», scrive Michela Murgia introducendo il suo Viaggio in Sardegna. Case di fate che in limba, e nella loro definizione comune, si traducono come domus de janas. Questo nome deriva dall’antica leggenda secondo cui, nelle stanze che si aprono oltre simili buchi nella roccia, dimoravano appunto sas janas, piccole creature femminili descritte a volte come gentili e graziose, altre come vendicative e dispettose. Esistono diversi racconti popolari che ne descrivono bene il carattere. Nel territorio di Giave, per esempio, in provincia di Sassari, si trova sa pedra mendalza, affioramento roccioso da cui parte una lunga striscia di basalto radente al suolo, larga circa un metro, che viene chiamata su camminu ’e sas fadas, ovvero il cammino delle fate. Per tradizione, infatti, anche in questa roccia dimorano sas janas, che di giorno resterebbero chiuse a tessere fili d’oro e d’argento, per uscire di notte al chiaro di luna. Se si innamorano di un uomo, lo seducono nel sonno, sussurrandone il nome per tre volte e portandolo presso sa pedra mendalza, luogo in cui ne diventano le spose. Ciò accadde a un contadino che, conquistato da una fatina e dai grandi tesori di sas janas, si trovò presto recluso nelle stanze della roccia. Quando ebbe nostalgia della sua vecchia casa chiese il permesso di uscire, che in un primo momento gli fu negato, ma a veder crescere la tristezza dell’uomo la sposa infine, dopo molto tempo, acconsentì, raccomandandogli tuttavia di non intrattenersi con nessuno durante il tragitto. L’uomo, per una parte del viaggio, seguì il suggerimento, poi vide una contadina e si avvicinò per accarezzare i pulcini che portava con sé, stramazzando al suolo. Quella donna era in realtà la morte, camuffata per ingannare lo sciagurato e portargli via la vita. In suo soccorso intervennero sas janas, che dopo averlo riportato in volo a sa pedra mendalza lo resuscitarono, dandogli una seconda occasione di vivere nella dimora magica. Dopo qualche mese il contadino fu colto nuovamente dal desiderio di uscire, e dopo aver promesso ancora una volta che non si sarebbe fermato a parlare con nessuno ottenne il permesso, purché scortato da una cagnetta che lo avrebbe avvisato in caso di pericolo. Giunto al suo paese, tuttavia, scoprì che era disabitato perché andato distrutto, e tornando indietro incontrò un pastore che gli chiese di aiutarlo a tirare fuori da una pozza il suo asino azzoppato. La cagnetta iniziò ad abbaiare e il contadino si allontanò in tutta fretta. Più avanti vide una vecchia cui era caduto un cestino di pere, le andò incontro per aiutarla ma la cagnetta lo trattenne mordendogli l’orlo dei pantaloni, permettendogli dunque di arrivare sano a salvo nei pressi di sa pedra mendalza. Proprio qui, tuttavia, incontrò un bambino che piangeva, e impietosito lo prese in braccio ignorando il terzo avvertimento della bestiola da guardia. Come nel caso della contadina con i pulcini, il malcapitato morì all’istante, e nuovamente le fatine uscirono dalla roccia per riportarlo in vita. La lezione non bastò comunque a reprimere il desiderio dell’uomo, che per la terza volta, alcuni mesi dopo, volle uscire dalla roccia. Questa volta gli fu dato un talismano protettivo, che per nulla al mondo si sarebbe dovuto sfilare dal collo. Lungo il percorso incontrò un paese nel quale si stava svolgendo una grande festa, e tra la folla vide la sua piccola sposa che, per dispetto, ballava con un altro uomo. Colto dall’ira le scagliò contro il talismano e se ne andò. Sa jana, raccolto l’amuleto, lo seguì e lo riportò a sa pedra mendalza.

    Leggende come questa, legate a luoghi che la tradizione considera magici, ce ne sono molte. Se sa pedra mendalza può definirsi la reggia delle fatine, potremmo dire che le domus de janas sono le loro case. Al di là di queste suggestioni popolari, tuttavia, tali strutture sono sepolcri prenuragici scavati nella roccia, databili a un periodo compreso tra il iv e il iii millennio a.C., rinvenuti a centinaia in tutte le zone dell’isola, fatta eccezione per buona parte della Gallura. Ne esistono di forme e dimensioni varie: monocellulari, quindi con singola stanza scavata nella roccia, o pluricellulari, con due o più camere collegate tra loro che, in diversi casi, attraversano i costoni affioranti fino in profondità, costituendo necropoli assai vaste. In quanto dimore dei morti, deputate al proseguimento dell’esistenza del defunto nella vita ultraterrena, esse riproducono quelle che erano al tempo le abitazioni dei vivi, presentano quindi, molto spesso, elementi architettonici come false porte, travi scolpite sul soffitto, colonne ecc. Erano legate al culto della Dea Madre e del dio Toro, così attestano diverse raffigurazioni, come per esempio i rilievi di protomi taurine. Secondo alcune letture, le stesse domus riprodurrebbero l’utero della Grande Madre, la massima divinità femminile simbolo di fertilità, al cui grembo, nel ciclo morte-rinascita della cultura agropastorale sarda, sarebbero stati affidati i defunti. In certi casi, all’interno degli ipogei, sono stati rinvenuti scheletri in posizione fetale. Quanto ai riti, non è facile determinare con certezza in quale modo si svolgessero. È possibile che la salma venisse dipinta con l’ocra rossa, come le pareti interne del sepolcro che in diversi casi ne portano ancora traccia, e fosse accompagnata dagli oggetti posseduti in vita dal defunto, circostanza testimoniata dalla presenza nelle tombe di vari monili, tra cui frecce di ossidiana, coltelli, collane, bracciali e anelli. A questi oggetti, verosimilmente, si accostava il cibo simbolico, necessario per il viaggio verso l’aldilà.

    Come abbiamo già detto, in Sardegna di monumenti simili ce ne sono a centinaia. Tra i complessi più noti ricordiamo la necropoli di Anghelu Ruju, nel territorio di Alghero. Fu scoperta all’inizio del Novecento quando due operai impiegati in una cava, durante l’attività estrattiva, portarono alla luce un cranio e un vaso nell’attuale Tomba i. Il censimento delle trentotto tombe, avviato dall’archeologo Antonio Taramelli nel 1904, fu terminato nel 1967 dal collega Ercole Contu. Come nella descrizione generale fatta in precedenza, le camere riproducono quelle che erano anticamente le capanne delle popolazioni prenuragiche, e sono distribuite, si pensa, secondo lo schema abitativo del villaggio di riferimento. Hanno forme diverse, tondeggianti e rettangolari, in alcuni casi gradini all’ingresso, e fatta eccezione per la Tomba xxvi sono pluricellulari, quindi composte da più vani alcuni dei quali dotati di cavità utilizzate forse per le offerte, per le statuette votive come quelle della Dea Madre, che sono emerse dal sito, e per la deposizione del pasto del defunto. Per ogni domus de janas sono stati rinvenuti resti ossei corrispondenti a diversi individui, anche più di trenta, e, come nella maggior parte dei casi per questo tipo di monumenti, gli studiosi hanno stabilito che la necropoli è stata largamente riutilizzata nel tempo. Un caso peculiare di riutilizzo, anche con funzioni molto diverse da quelle originarie, è rappresentato dalla necropoli di Sant’Andrea Priu, come testimoniato dall’archeologo Roberto Caprara: «In numerose grotticelle funerarie, in Sardegna, è stato osservato un riuso in età punica, o romana, o altomedievale, ma forse ancora il sito emblematico rimane questo di S. Andrea Priu, con uno degli ipogei preistorici più vasti e significativi trasformato in chiesa»¹. È dello stesso avviso il professor Pier Giorgio Spanu, che scrive: «[…] lo splendido esempio del Sant’Andrea Priu, chiesa insediatasi già dall’età paleocristiana in un articolato ipogeo preistorico»².

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    La necropoli di Sant’Andrea Priu, in un’incisione tratta da Alberto La Marmora, Voyage en Sardaigne.

    Realizzata in un costone trachitico nel territorio di Bonorva, anche la necropoli di Sant’Andrea Priu è molto complessa e composta da numerose camere. Tra le tombe spicca quella detta del capo, divenuta, per un certo periodo, sede della chiesa menzionata da Caprara e Spanu, ma già studiata dal canonico Giovanni Spano verso la metà dell’Ottocento. In riferimento agli affreschi delle pareti, lo studioso, considerato da molti il padre dell’archeologia sarda, riportava: «Onde spurgare dalla superstizione gentilesca questo luogo e convertirlo in sacro vi passarono un nuovo intonaco a stucco, e vi eseguirono quelle pitture come segni vivi di quei misterii che adoravano»³. Oltre a occuparsi dei dipinti religiosi, le icone dei santi apparsi laddove un tempo erano raffigurate divinità pagane, lo Spano disegnò una pianta della tomba del capo, descrivendola come l’ipogeo «più degno di attenzione […] che noi appelliamo catacomba, perché sarà servito di rifugio ai primi cristiani, e di sepoltura a qualche martire nei primi tempi di persecuzione del cristianesimo»⁴. Al netto dell’ipotesi dello studioso sull’utilizzo dell’edificio come catacomba, sappiamo per certo che, agli inizi del xiv secolo, già trasformato in chiesa campestre, fu consacrato, come attesta lo storico ottocentesco Pietro Martini: «[…] nel 1775 nell’altare della chiesa di S. Andrea Frius, situata un tempo nella diocesi di Sorra, si trovò […] una pergamena, in cui si poterono leggere le seguenti parole: Anno Domini 1303, die… Jul… rem Dei op. max., et S…. Andr… Apostol…. Guantinus de Farfara ep.pus Sorren consecra…»⁵.

    Nel secondo vano della Tomba del Capo sono state rinvenute anche due sepolture di epoca bizantina, nel terzo, quello presumibilmente destinato all’adunata dei fedeli, si trovano alcuni degli affreschi paleocristiani citati dal canonico Spano, con figure di uccelli, ghirlande e di una donna con lo sguardo rivolto verso il crocifisso della porta che introduce all’ultimo locale, che si pensa fosse destinato ai prelati, e dove troviamo altri affreschi con le immagini di Gesù, della Madonna, di Giovanni Battista e degli apostoli. Oltre questi tre ambienti riadattati alla funzione religiosa, la tomba del capo ne conta altri quindici, per un’estensione totale di 250 metri quadri circa. Altre testimonianze, tra cui delle iscrizioni medievali, dimostrano l’uso della chiesa anche in periodi successivi, quando sopra l’altare fu ricavato un punto luce in grado di illuminare il sacerdote durante le celebrazioni. All’esterno della necropoli si trova il cosiddetto campanile, scultura ricavata lavorando un monolito di trachite, che anticamente si pensa raffigurasse la divinità prenuragica maschile, per quanto priva della testa. Per questo motivo il monumento viene detto anche toro sacro.

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    La pianta della Tomba del Capo nella necropoli di Sant’Andrea Priu. Disegno di Francesco Giarrizzo tratto da Antonio Taramelli, Fortezze,

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