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Né muri né mari
Né muri né mari
Né muri né mari
E-book241 pagine3 ore

Né muri né mari

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Info su questo ebook

Questo non è un romanzo, non è una favola.
È un’esperienza vissuta in prima persona, dell’inizio e della fine di un sogno, per raccontare la condizione di disoccupato ultracinquantenne come conseguenza del fallimento, e la lotta ìmpari per sopravvivere alle innumerevoli difficoltà economiche. Ma anche la rinascita, e la forza di alzare la testa, in qualsiasi situazione; l’ostinazione a non arrendersi, facendosi portavoce di chi ha sacrificato la propria vita, sconfitto dalle circostanze.
Questo libro è una coraggiosa denuncia contro il silenzio e l’indifferenza che circonda il terribile flagello di piccoli imprenditori che, a causa della crisi, sono costretti al fallimento e talvolta arrivano anche a togliersi la vita: uccisi dalla burocrazia, strangolati dai debiti e dall’ingordigia di banche e finanziarie, abbandonati dalle istituzioni al proprio destino.
LinguaItaliano
Data di uscita26 mag 2021
ISBN9788855391245
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    Anteprima del libro

    Né muri né mari - Dario Farinelli

    morire.

    Due parole su di me

    Venerdì 27 marzo 2020 ore 01,20. Notte fonda.

    Con quest’ansia che mi chiude lo stomaco, non riesco proprio a prendere sonno: sono qui, seduto alla mia scrivania con il computer acceso, preso dalla noia assoluta, che rileggo il mio breve manoscritto dal titolo L’imprenditore.

    Si tratta di un pezzo della performance letteraria che da due anni sto scrivendo e perfezionando, un progetto ambizioso, che dovrebbe diventare una sorta di spettacolo teatrale, del quale sono regista e autore. Era tutto pronto. Il mio primo libro, Agonie di un’anima illogika, è appena uscito alla fine di gennaio. Ho già fatto una presentazione, ed ero in fase di programmazione per le prime serate in cui avrei dovuto promuovere il romanzo autobiografico, ed esordire con la performance letteraria.

    Tre anni di progettazione e duro lavoro stroncati sul nascere.

    Tutto sospeso. Rimandato a data da destinarsi. Sì, perché in concomitanza con il mio libro è uscito lui, il terribile e spietato Covid-19. Uno degli incubi peggiori dell’umanità, una pandemia, un virus meglio noto come Coronavirus.

    Partito dalla lontanissima Wuhan, in Cina, e giunto come un fulmine a ciel sereno in Italia e nel resto del mondo. In poco più di un mese ha già provocato una strage. A oggi i dati sono spaventosi.

    È stata dichiarata la pandemia, solo in Italia si contano già oltre novantamila contagi tra la popolazione e circa diecimila morti; tra questi ottomila operatori della sanità contagiati, e una cinquantina di medici che hanno perso la vita, mentre le televisioni continuano a ripetere che il picco non è ancora stato raggiunto.¹

    Siamo tutti in quarantena da quasi un mese, sigillati in casa.

    Le città, i bar, negozi e qualsiasi attività sono chiusi, ad eccezione delle farmacie e dei negozi di alimentari. La cosa peggiore è che oltre alle vite perse, a causa di queste restrizioni, la maggior parte della popolazione si è fatta prendere dalla paura di morire di fame e alcuni supermercati sono stati presi di mira e saccheggiati.

    Insomma con queste prospettive, e con questo scenario da film catastrofico in stile americano, questa notte ho preso una decisione. Scriverò il mio secondo libro.

    Lo faccio per non impazzire in questa sorta di prigione, per non pensare che viviamo con la morte a due passi, e perché da qualche tempo avevo in mente di scrivere la storia che andrete a leggere.

    Lo faccio per me, ma anche per chi si rispecchierà nel protagonista di questo racconto, affinché ne possa trarre spunto per non cedere, per non arrendersi, per lottare sempre per la propria vita e la propria dignità.

    Non c’è altro da aggiungere. Inizierò a scrivere con la forza della mia passione per la vita, e lo farò con la speranza che, in questo momento così drammatico, Dio assista l’umanità e ne allevi le sofferenze, trasformando questo terribile flagello in occasione unica per tutti noi, per riscoprire un mondo più luminoso, più attento ai valori e più solidale verso il prossimo. È arrivato il momento di una svolta epocale, è madre Terra che lo chiede.

    È la condizione al limite della sopravvivenza di milioni di esseri umani che lo chiede.

    Sono i guerrieri di luce che lo pretendono. Dobbiamo finalmente dare un valore alla nostra vita, prima che sia troppo tardi. Si può fare, ci vuole coraggio e determinazione, ma uniti, mano nella mano, ce la faremo a rendere questo mondo migliore.

    D. Farinelli

    Prologo

    Né muri né mari ostacoleranno il mio cammino. Non temo il mare, non temo la tempesta, non temo il nemico. Nessuno, mai, mi priverà della mia condizione di uomo libero, e per questo sono disposto a lottare con tutte le forze, per rivendicare i miei diritti e la mia dignità, così come mio padre mi ha sempre insegnato.

    Ho deciso di raccontare i fatti senza filtri, di denunciare a viso aperto e senza timori reverenziali lo Stato e le istituzioni, con l’obiettivo di dare il mio piccolo contributo nella difficile battaglia contro l’insensibilità dell’opinione pubblica sul tema dei suicidi di Stato.

    È una guerra. Davide contro Golia, ma un atto doveroso che la mia coscienza di onesto cittadino m’impone, in segno di rispetto nei confronti di chi ha perso la propria battaglia in piena solitudine, abbandonato dalle istituzioni e lasciato morire in modo ignobile. Piccoli imprenditori e commercianti, uccisi dalla crisi e dalla burocrazia. Strangolati dai debiti e dall’ingordigia di banchieri senza scrupoli.

    Una testimonianza reale, con fatti e cronaca di un personale percorso nel mondo dell’imprenditoria e dei disoccupati over cinquanta.

    Una lettera con dedica che, viaggiando chiusa in una bottiglia, sarà lanciata nell’oceano dell’indifferenza. Quale sarà il suo percorso, non lo so, ho il 99,9% di possibilità che si vada a insabbiare in qualche spiaggia, insieme a centinaia di migliaia di manoscritti gettati quotidianamente al macero dalle case editrici.

    Se, in questo momento, state leggendo queste righe, significa che il manoscritto è già stato trovato su qualche isola deserta, e di conseguenza lanciato nel difficile mondo dell’editoria da qualche editore coraggioso e sensibile.

    La mia speranza è che questa lettera, vagando tra le mani della gente comune, inizi a spargere qualche piccolo seme che, germogliando nelle coscienze di ognuno di noi, risvegli una consapevolezza collettiva in grado di dare vita a una specie di rivoluzione del pensiero. Un risveglio che, espandendosi a macchia d’olio, arrivi ai piani alti dei palazzi e in qualche modo si renda foriero d’idee utili a dare speranza e dignità a ogni cittadino di questa nazione.

    Un sogno utopico? Sì, un sogno degno di un visionario sognatore come me, di un cittadino qualunque, che crede ancora nella potenzialità delle piccole battaglie. Diceva Clarissa Pinkola Estès, una poetessa statunitense:

    «In tempi duri dobbiamo avere sogni duri, sogni reali, quelli che, se ci daremo da fare, si avvereranno.»

    Capitolo 1

    Il sogno

    – Quando sarò grande, costruirò una casa a tre piani in mezzo alla campagna, con una stalla, due o tre mucche, e un cavallo per fare felice papà; un grande pollaio, pieno di pulcini e galline, per fare felice la mamma, e un orto, dove seminare cipolle, aglio e pomodori, per donare gioia alla mia sorellina golosona…

    Era solo un sogno, un pensiero fisso che da sempre mi porto dentro.

    Rendere felice la mia famiglia, dare a mio padre la vita che desiderava.

    Restituirgli ciò che fu costretto ad abbandonare tanti anni fa, quando la terribile alluvione del Polesine², dopo avere portato distruzione e aumentato la povertà di piccoli nuclei familiari che vivevano nelle campagne locali, li costrinse a emigrare, alla ricerca di un lavoro nelle industrie metalmeccaniche, sorelle di mamma Fiat.

    Non c’è nulla di male nel pensare e credere che il futuro ti riservi prosperità, soprattutto alla tenera età di sei anni, periodo in cui non hai ancora messo il nasino oltre il cortile di casa.

    A quell’età io, come tutti i miei coetanei, ero convinto che nella vita tutto sarebbe stato facile: fare soldi, trovare un’occupazione, trovare una fidanzata che mi rendesse eternamente felice, e superare qualsiasi ostacolo senza difficoltà.

    Quando sei ragazzino, credi di essere invincibile ed eterno, ma io andavo oltre.

    Avevo la convinzione di possedere poteri magici, con i quali un giorno avrei potuto salvare il mondo dalla malvagità dell’uomo.

    Il costume di Zorro, l’eroe spadaccino dal mantello nero degli anni settanta, non lo indossavo solo a carnevale, ma lo esibivo tutto l’anno, con il mio bel cappello in cartone e un’affilatissima spada di plastica, con la quale sfidavo eserciti di malandrini alla ricerca di guai, costringendoli alla fuga per sparire tra i cactus del deserto come polvere al vento.

    Fantasia, era tutta fantasia. Immaginazione di un piccolo ometto, dal carattere permaloso e timido che, nonostante l’età, non vedeva l’ora di crescere e diventare adulto, con la certezza che un giorno avrebbe conquistato il mondo.

    È trascorso mezzo secolo da quel periodo e, se devo essere sincero, le cose non sono andate nel modo in cui speravo. Non so ancora come sia successo, ma in questo breve tempo ho polverizzato una vita intera, seminando per strada e disintegrando uno a uno i miei sogni di gloria. Se tutto ciò che re Mida osava toccare si trasformava in oro (come dice un’antica leggenda), tutte le mie ambizioni e i miei progetti di vita si sono trasformati in un immenso mare di cacca, dove l’unica cosa che sono riuscito a salvare sono la mia pellaccia e un pizzico di autoironia.

    Questo è il breve riassunto della storia che andrò a raccontare, una storia comune a tante altre, dove i protagonisti partono sempre da un sogno meraviglioso.

    A volte tutto va bene, ma spesso, soprattutto in questi maledetti anni di crisi globale, si finisce per vivere il peggior incubo della propria esistenza.

    Così, io che sognavo di fare l’imprenditore, oggi mi ritrovo a scrivere una triste storia di fallimenti, dolore e abbandono da parte delle istituzioni che avrebbero dovuto proteggere un onesto cittadino italiano, figlio di una nazione allo sbando, in cui una casta di eletti si è impossessata di giornali, tivù, tribunali e tutto ciò che può dare potere. Una denuncia indirizzata a chi vive incollato a poltrone conquistate con la menzogna e che ignora volutamente – o addirittura contribuisce a crearle – le dinamiche perverse del sistema politico italiano.

    Fortunatamente questa storia ha un doppio risvolto; perché se è vero che oggi mi ritrovo ad ammettere la mia sconfitta, per non essere stato capace di raggiungere i miei personali obiettivi lungimiranti, è altrettanto vero che questo scritto può significare per tutti una speranza, un messaggio positivo.

    C’è sempre la vita prima di ogni cosa. Per essere chiari: prima della corda al collo.

    Con la disperazione e la rabbia di chi non vuole arrendersi, ci si può comunque salvare, ed è ciò che ho fatto io, anche se la mia vita è segnata per sempre, perché ho la certezza che i debiti mi rincorreranno fino alla tomba. Perché, nel mio Paese, a cinquant’anni se sei senza lavoro sei un uomo morto, inutile alla società e invisibile come l’aria.

    Comunque ho imparato a non arrendermi, a salvare la mia dignità lottando ogni giorno su ogni fronte, a ritrovare in qualche modo rispetto per me stesso, inventando mille mestieri e mille espedienti per non soccombere, per garantire con ogni mezzo un sostegno dignitoso alla mia famiglia e non essere costretto a delinquere.

    La mia sventura è identica a quella di tanti piccoli imprenditori, che oggi vivono nel silenzio un dramma senza fine. Questa testimonianza, per quanto mi riguarda, è un piccolo seme nel deserto dell’indifferenza, che se in qualche modo germoglierà, vorrà dire che qualcuno di voi, dopo avere letto il mio racconto, si sentirà un po’ meno solo e un po’ più forte. E chissà che qualcun altro, dall’altra parte della barricata, preso dal rimorso, non capisca che non è mai troppo tardi per dare pace e giustizia agli omicidi di Stato.

    L’iniziazione

    Una splendida giornata di sole, maggio del 1977. La campanella della scuola media «Anna Frank» di S. Ambrogio, un piccolo paesino all’ombra della Sacra di San Michele in Val di Susa, suonava a ritmo incalzante. Quella mattina, il suo trillo fu un segnale di grande festa. Per i ragazzi della III B significava la conclusione di un ciclo, la fine delle scuole medie, l’inizio di nuove esperienze che avrebbero diviso le strade di tutti noi.

    Il futuro: una nuova dimensione apparentemente poco importante, fino a una certa età. Quando inizi a ragionare con la tua testolina, quella parola, quasi sconosciuta, diventa invece motivo d’inquietudine, capisci che è giunta l’ora di smettere i panni del tuo supereroe Zorro, e decidere in breve tempo cosa fare da grande.

    Negli anni settanta non c’era l’obbligo di proseguire gli studi dopo le medie, quindi, per i miei genitori di origine contadina e cultura limitata ai primi anni delle elementari, per il proprio figliolo esisteva solo una scelta obbligata: un lavoro in fabbrica, operaio apprendista, e piccolo stipendio rigorosamente da consegnare alla famiglia.

    Nei loro progetti non era considerata la possibilità di figli diplomati, tale opportunità era un’esclusiva delle famiglie agiate della piccola borghesia. A un figlio di operai, si prospettava una vita da operaio.

    Per quanto mi riguarda, tra me e lo studio, il grande amore non è mai sbocciato. Odiavo la matematica, e a causa della mia emotività, di fronte ai miei professori, provavo un tale disagio da perdere completamente la parola.

    Ero convinto che proseguire con gli studi sarebbe stato inutile, uno spreco di tempo che mi avrebbe reso la vita impossibile per altri cinque lunghissimi anni.

    Meglio andare a lavorare.

    Purtroppo anche mio padre la pensava come me, per questo motivo decise che per il suo ometto, quasi quindicenne, era giunta l’ora di portare a casa lo stipendio.

    – Fiòl, adess andem a sèrcar un bel post, in tna fabrica. A tiè grand, lè ora che at guadagni un bel stipendi… ciò!³

    Non era un consiglio, ma un ordine al quale, per una questione di rispetto, non avrei mai potuto disobbedire.

    Una notizia meravigliosa da festeggiare con l’entusiasmo di chi ha vinto la sua prima coppa del mondo.

    Ricordate la galoppata sul campo, a occhi sbarrati, del centravanti Marco Tardelli, al Santiago Barnabeu nel 1982, quando l’Italia vinse il titolo mondiale contro la Germania?

    Bene. Per gratificare la scelta di mio padre, feci più o meno la stessa cosa, correndo come un mentecatto per circa un’ora nella mia stanza da letto di soli sedici metri quadri, a mani alzate e al grido di:

    "Fanculo la scuola! Fanculo la scuola! Fanculo la scuola!"

    Festeggiai la fine degli studi, inconsapevole che ciò che in quel momento sembrava essere una vittoria, in realtà si rivelò la prima grande sconfitta della mia vita.

    A quattordici anni, e soprattutto in quel periodo, se non avevi gli stimoli giusti o interessi particolari, abbandonare gli studi, dopo la scuola media, non era sicuramente una tragedia. Forse i miei genitori avrebbero potuto condizionare il mio destino, mettendomi al corrente che un diploma ti può cambiare la vita e aprire strade che diversamente non saresti in grado di percorrere.

    Probabilmente avrebbero dovuto essere un po’ più responsabili nei miei confronti, ma come potrei addossare a loro ogni responsabilità di un errore così grave?

    Papà Vinicio e mamma Angelina alla mia età erano già nei campi a coltivare la terra, come accadeva nelle famiglie numerose di dieci o quindici fratelli, abituate ad arrangiarsi, faticando dalla mattina alla sera per mettere in tavola un piatto di patate bollite o poco più. Mia madre ha trascorso la sua gioventù nelle risaie del ferrarese con l’acqua alle ginocchia e la schiena piegata a raccogliere quel frutto pregiato di Madre Terra, mentre suo marito accudiva le bestie del nonno e si spezzava la schiena con i lavori più pesanti. Quando furono costretti a migrare al nord, lasciando cuore e anima al loro paese d’origine, il lavoro in fabbrica rappresentava una vita nuova e il miraggio che avrebbe dovuto realizzare i sogni di due giovani sposini in attesa del primogenito.

    Negli anni ’70 la cultura superiore non era indispensabile, esisteva l’apprendistato, che rappresentava la

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