Gli egoisti e altre storie romane
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Saggio introduttivo di Adele Costanzo.
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Anteprima del libro
Gli egoisti e altre storie romane - Federigo Tozzi
moglie
La città mondo
Federigo Tozzi giunge a Roma nel 1914, all’età di trentuno anni, spinto dall’urgente bisogno di trovare la propria identità artistica e di ottenere adeguato riconoscimento nel mondo letterario.
Archiviata la breve esperienza di impiegato e quella, fallimentare, di amministratore dei beni paterni, al giovane artista di provincia la capitale appare il luogo in cui poter mettere in gioco la cultura da autodidatta febbrilmente accumulata e rafforzare un’idea di letteratura che ha già prodotto Ricordi di un impiegato, Con gli occhi chiusi e un primo abbozzo di Bestie, opere destinate a rimanere per qualche anno in attesa di un editore.
Sono, questi compresi tra i primi due decenni - Tozzi morirà nel marzo 1920 per le conseguenze polmonari dell’epidemia di spagnola - gli anni fluidi della battaglia che La voce combatte in nome del frammentismo e dell’impossibilità della narrazione contro gli ultimi teorici del Verismo e i profeti della riedificazione
della struttura narrativa (fra tutti, quel Borgese che sarà di Tozzi esecutore testamentario, estimatore e violentatore). Gli anni in cui la luce impietosa dello sguardo espressionistico dissolve tanto l’estetismo dannunziano quanto la fiducia naturalistica in una rappresentazione oggettiva e vera, universalmente condivisa, del reale; gli anni in cui la visione meccanicistica della coscienza di stampo positivista perde i colpi sotto l’affermarsi delle teorie freudiane ma anche, specie negli ambienti letterari nostrani, della psicologia di stampo spiritualista di William James. Sono, infine, gli anni nei quali una modernità lenta e provinciale inizia a farsi strada in un Paese saldamente dimensionato su una condizione contadina ancora percepita, sotto certi aspetti, mitica e immodificabile.
In questi anni complessi, in questa realtà in divenire, in questa città ibrida protesa verso la colonizzazione della campagna e da questa, nello stesso tempo, assediata, Tozzi agisce da testimone e da perturbante, producendo opere, allora come adesso, di ardua collocazione e di non univoca interpretazione.
Non rientra nelle finalità di questa breve nota introduttiva indugiare sulla travagliata vicenda critica che ha accompagnato l’Autore a cominciare dalla pubblicazione, immediatamente postuma, di molte sue opere. Basti dire che, dopo il battesimo di Borgese quale continuatore del Verismo - e ciò non tanto per l’ambientazione ruralimpiegatizia delle sue narrazioni, quanto per il materiale e l’approccio finalmente
oggettivi proposti da Tre croci - bisogna attendere gli anni sessanta perché venga gettata sulla sua produzione uno sguardo capace di coglierne la novità e la profondità. Risalgono a quel periodo, infatti, l’edizione critica delle opere curata dal figlio Glauco e i puntuali, rigorosi, imprescindibili studi di Giacomo Debenedetti. Nei decenni successivi, studiosi quali Baldacci, Maxia, Luperini hanno rimarcato la carica innovativa, espressionistica, onirica, europea di uno scrittore troppo sbrigativamente archiviato sotto categorie anacronistiche e provinciali.
Quanto qui si vuole analizzare e dimostrare, in funzione della scelta antologica dei testi proposti, è più modestamente il senso che Roma e la campagna che la circonda(va) assumono di emblema, esemplificazione, contenitore di una angosciata e irrisolvibile visione del reale. Nel romanzo Gli egoisti e nei racconti romani
tratti dalla raccolta Giovani lo spazio, a nostro avviso, assurge a sintesi, a città mondo in cui si amplifica e si ripropone la realtà, solo esteriormente diversa, delle altre opere di Tozzi.
Romanzo breve o racconto lungo che lo si voglia intendere, Gli egoisti (1923) narra la vicenda di un giovane musicista che a trent’anni, era ancora costretto a farsi mantenere da una sua zia di Pistoia … piuttosto povera che ricca.
Giunto a Roma per realizzare i suoi sogni di bellezza e di gloria, spende oziosamente il proprio tempo tra amici di poco conto e nessuna morale e un amore che, per quanto puro e sincero, viene percepito come ostacolo alla realizzazione artistica.
È facile individuare nell’esile vicenda echi dannunziani: la donna come antagonista, ostacolo alla realizzazione del proprio magnifico destino (v. Forse che sì forse che no o, ancor più propriamente, Il fuoco) e, soprattutto, la città de Il piacere, la cui presenza accompagna i vagabondaggi del Gavinai.
Ma le affinità con il profeta del superomismo e dell’estetismo si fermano qui. Da un lato, infatti, la passione tra Dario e Albertina si svolge entro l’orizzonte piccolo borghese di camere in affitto e gite fuori porta in tram; dall’altro, la città descritta da Tozzi non ha nulla del languore bizantino e barocco della decadente Roma di Sperelli. Piuttosto, nei suoi tratti ora inferici ora luminosi, riflette l’oscillare del protagonista tra presa di coscienza della propria sconfitta e scatti di autoinganno.
Non che manchi, nei frequenti momenti descrittivi, un registro realistico che evidenzi le contraddizioni di un luogo in cui splendori e miserie convivono più che altrove, ma l’intenzione non è rivolta alla rappresentazione/denuncia, quanto all’incarnazione oggettiva e sensibile d’uno stato d’animo, d’un pensiero del protagonista: " Quasi sentì correre la pioggia da un capo all’altro della via; dove i gatti razzolavano nei mucchi della spazzatura, accanto a un uomo che con un sacco aperto in mano, vi frugava dentro. Mentre una donna, seduta in terra, con le spalle al muro, smoveva la bocca, prendendo con la punta delle dita il mangiare accattato da un cartoccio, rotto. Pensò che non avrebbe mai potuto adattarsi a far lo stesso." Non pietà né indignazione sostengono lo sguardo del Gavinai chiuso nella gabbia del suo egoismo, ma la paura: gatti randagi e mendicanti sono qui ammonimenti, proiezione soggettiva di un futuro personale possibile.
Non sempre, tuttavia, il protagonista si sofferma sui simulacri della città eterna: più frequentemente vi passa davanti registrandone la presenza. Ed ecco che persone e cose incrociate nel cammino diventano oggetti di enumerazioni paratattiche, non gerarchizzate perché non sottoposte a giudizio: In Piazza di Trevi l’acqua della fontana scrosciava, e tre uomini dormivano tra le colonne della chiesa di Sant’Antonio. All’angolo di Via del Lavatore, su lo spigolo di una casa, c’era una Madonna entro un medaglione fiorito, con gli angioli di gesso e una lampadina elettrica che non faceva luce anche perché era tutta sporca di polvere; e, alla finestra accanto, un pappagallo che si rigirava smovendo tutta la sua catena. All’improvviso, all’ultimo piano della casa, una donna nuda si sporse a prendere le persiane per chiuderle. Un carabiniere passeggiava in cima alla salita di Via della Dataria…
Descrizioni come questa potrebbero indurre a tacciare l’Autore di descrittivismo, di indulgenza verso il colore locale, se non fosse che il succedersi di oggetti, questa paratassi del reale perfettamente incarnata nella paratassi sintattica, non obbedisse, come fa notare il Luperini, ad una visione disarticolata e centrifuga del reale. E se, aggiungiamo noi, non rappresentasse la sostanziale indifferenza al mondo, o meglio estraneità, del Gavinai e, probabilmente, dell’Autore stesso: Egli voleva amare Roma, e non gli era possibile.
Quanto prima sostenuto non intende, tuttavia, negare al romanzo un valore di testimonianza sociologica e storica rintracciabile, ad esempio, in alcune presenze ossimoriche che popolano la città in bilico tra i veloci tempi moderni e l’immobilità arcaica: In quel mentre passò un’automobile, lucida e nera…
e, qualche riga più sotto, a rassenerare il severo Carraresi: Un gregge di pecore, a branchi, usciva di tra le piante basse…
oppure, e ancor più, nella rappresentazione di un campionario umano costituito da impiegati lassisti e giovani inurbati scialacquatori di patrimoni familiari e di sé stessi.
A tal proposito, sarebbe interessante approfondire l’eventuale ruolo che questo testo degli anni venti ha avuto nell’elaborazione del mito triste della città carnevalesca rappresentato da La dolce vita di Fellini, dal contemporaneo romanzo di Quintavalle, Segnati a dito, e riproposto dal recente successo di Sorrentino.
Per quanto ne Gli egoisti manchi l’affollata galleria grottesca che caratterizza le opere citate, non si può non notare come anche il libro di Tozzi tenda a strutturarsi su un sistema dualistico che contrappone modelli di vita antitetici nella sostanza e nel segno, in cui il valore positivo è, anche qui, rappresentato da un personaggio esterno, geograficamente oltre che culturalmente, all’inferica bolgia capitolina. Qui, più che la figura femminile - ricordiamo la Paola felliniana e l’Elisa di Sorrentino - ad indicare al protagonista un modo diverso di vivere è un solido provinciale tra contadino e signore
, il Carraresi, vero e proprio alter ego di quella parte dell’Autore votata al misticismo e al disprezzo per la vanità e la mondanità che l’altra parte, incarnata dal giovane artista, invece insegue.
Tuttavia, per ricondurre l’analisi entro coordinate più sicuramente tozziane, non possiamo non riportare come, nella presentazione iniziale del Giachi, ministeriale lavativo e furbetto,