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Ripetizioni di stregoneria: Un ricovero per creature magiche disadattate. Un mago dall’anima oscura che abita in un’antica teiera di porcellana. E otto streghe che hanno appeso cappelli e bacchette al proverbiale chiodo.
Ripetizioni di stregoneria: Un ricovero per creature magiche disadattate. Un mago dall’anima oscura che abita in un’antica teiera di porcellana. E otto streghe che hanno appeso cappelli e bacchette al proverbiale chiodo.
Ripetizioni di stregoneria: Un ricovero per creature magiche disadattate. Un mago dall’anima oscura che abita in un’antica teiera di porcellana. E otto streghe che hanno appeso cappelli e bacchette al proverbiale chiodo.
E-book265 pagine3 ore

Ripetizioni di stregoneria: Un ricovero per creature magiche disadattate. Un mago dall’anima oscura che abita in un’antica teiera di porcellana. E otto streghe che hanno appeso cappelli e bacchette al proverbiale chiodo.

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Info su questo ebook

Le streghe sono mature signore che amano non prendersi troppo sul serio. In proposito è bene chiarire un concetto: la storia della cattiveria è questione di marketing. Una scelta promozionale finalizzata a mantenere la riservatezza necessaria per chi custodisce un potere decisamente antico. E assolutamente pericoloso.

In ogni caso a Granlunda hanno attaccato la bacchetta al chiodo e si godono un meritato riposo in compagnia di una nutrita discendenza. Gestiscono una residenza protetta per esseri con caratteristiche particolari che trovano difficile adattarsi al mondo della realtà contemporanea. Collezionano lucciole e rondini (abitudine che spiega la cronica carenza di esemplari in circolazione). Giocano d'azzardo (e ovviamente barano, manco a dirlo). Fanno acquisti su internet. Stravedono per i giovani teppisti.

Ma la loro agognata tranquillità non sembra destinata a durare: il male, quello vero, è tornato. Nell'era digitale ha assunto una nuova forma. Più accattivante. Lo scopo è sempre lo stesso: conquistare città. Nel mirino dell'oscurità finisce proprio Granlunda che non è esattamente una metropoli, ma si trova in una posizione strategica. Nessuno sano di mente combatterebbe per lei. Sulla strada della conquista c'è però anche un minuscolo bosco. Che poi tanto piccolo non è. Una foresta abitata da una decina di agguerrite signore. Sarà questo il vero teatro dello scontro. Niente battaglie epocali o eroi senza macchia. Si combatte a colpi di carte bollate e marketing perché, come sanno le protagoniste, i tempi sono cambiati e bisogna adattarsi. A meno di trovare un modo per aggirare le regole.
LinguaItaliano
Data di uscita29 giu 2021
ISBN9791220345972
Ripetizioni di stregoneria: Un ricovero per creature magiche disadattate. Un mago dall’anima oscura che abita in un’antica teiera di porcellana. E otto streghe che hanno appeso cappelli e bacchette al proverbiale chiodo.

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    Anteprima del libro

    Ripetizioni di stregoneria - Aloisius Beltrand

    Indice

    Cover

    Indice

    Frontespizio

    Copyright

    Premessa

    Ripetizioni di stregoneria

    ALOISIUS BELTRAND

    RIPETIZIONI DI STREGONERIA

    Titolo | Ripetizioni di stregoneria

    Autore | Aloisius Beltrand

    ISBN | 9791220345972

    © 2021 - Tutti i diritti riservati all’Autore

    Questa opera è pubblicata direttamente dall'Autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'Autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'Autore.

    Youcanprint

    Via Marco Biagi 6 - 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    RIPETIZIONI DI STREGONERIA

    Una storia ambientata a Granlunda.

    Luogo di pura fantasia, privo di alcun riferimento al mondo reale.

    O quasi.

    Premessa

    Le streghe sono mature signore che amano non prendersi troppo sul serio. In proposito è bene chiarire un concetto: la storia della cattiveria è questione di marketing. Una scelta promozionale finalizzata a mantenere la riservatezza necessaria per chi custodisce un potere decisamente antico. E assolutamente pericoloso.

    In ogni caso a Granlunda hanno appeso la bacchetta al chiodo e si godono un meritato riposo in compagnia di una nutrita discendenza. Gestiscono una residenza protetta per esseri con caratteristiche particolari che trovano difficile adattarsi al mondo della realtà contemporanea. Collezionano lucciole e rondini (abitudine che spiega la cronica carenza di esemplari in circolazione). Giocano d’azzardo (e ovviamente barano, manco a dirlo). Fanno acquisti su internet. Stravedono per i giovani teppisti.

    Ma la loro agognata tranquillità non sembra destinata a durare: il male, quello vero, è tornato. Nell’era digitale ha assunto una nuova forma. Più accattivante. Lo scopo è sempre lo stesso: conquistare città. Nel mirino dell’oscurità finisce proprio Granlunda che non è esattamente una metropoli, ma si trova in una posizione strategica. Nessuno sano di mente combatterebbe per lei. Sulla strada della conquista c’è però anche un minuscolo bosco. Che poi tanto piccolo non è. Una foresta abitata da una decina di agguerrite signore. Sarà questo il vero teatro dello scontro. Niente battaglie epocali o eroi senza macchia. Si combatte a colpi di carte bollate e marketing perché, come sanno le protagoniste, i tempi sono cambiati e bisogna adattarsi. A meno di trovare un modo per aggirare le regole.

    «La teiera mi guarda».

    «Sei uscita di senno? Le teiere non hanno occhi». La voce è calma. Leggermente spazientita, forse.

    «La tua sì. Proprio nel mezzo del paesaggio che orna la pancia, tra la contadina e la portatrice d’acqua». Cinese, il paesaggio. Si intravedevano abitazioni di foggia orientale. «Guarda i tetti delle case e gli alberi sullo sfondo: le linee formano come due occhi. Che mi fissano». Due donne nel bel mezzo di una vecchia cucina studiavano l’oggetto innocentemente disposto sulla credenza di fronte a loro. La più giovane si sentiva vagamente ridicola. «Immagina se qualcuno entrasse adesso e ci trovasse così» pensava. Intanto l’altra continuava «Proprio non capisco perché comprare una teiera scompagnata. Non è utile».

    «E’ un bell’oggetto, anzitutto – provò a giustificarsi la padrona di casa -. E poi ci serviva. Quella originale si è rotta durante l’ultima festa di Natale. La proposta di usarla per preparare il grog bollente non si è rivelata una grande idea. La porcellana non ha retto al calore. Per servire il tè possiamo usare le nostre tazze».

    Con un sospiro di rassegnazione l’ospite si accomodò su una sedia imbottita poco distante. «Già, non producono più la porcellana di una volta. Comunque dovresti fare attenzione a quello che compri. E’ pericoloso raccattare tutto quello che trovi nei negozi, senza conoscerne la provenienza».

    «Gli oggetti non sono pericolosi. In ogni caso non una teiera».

    «Sai bene che ho ragione. Non puoi prevedere cosa ti porterai in casa. Per questo i negozi dei rigattieri sono i luoghi potenzialmente più pericolosi della terra. Se solo la gente facesse mente comune, non ci si avventurerebbe con tanta leggerezza. Vendere tutti quegli oggetti che hanno già vissuto: è da irresponsabili. Conservano memoria delle persone e degli eventi. Questo li rende imprevedibili».

    Frida aveva ceduto all’impulso di un momento. In questo era decisamente in buona compagnia. I casi di incauto acquisto sono una fenomenologia molto diffusa. E rappresentano una delle prime ragioni di esistenza degli sgabuzzini nelle case di mezzo mondo. Quando realizzi di aver comprato qualcosa di irrimediabilmente inutile sull’onda dell’entusiasmo del momento, hai l’assoluta necessità di riporlo in un luogo sicuro. E appartato. Dove in genere invecchierà in buona compagnia. Il problema era che per lei si trattava di una novità. Non sapeva spiegarsi il perché. O meglio sì: le piacevano le cose antiche. La attirava proprio il fatto che possedessero un passato. Di solito manteneva un atteggiamento prudente. Esistevano delle regole precise in merito. Gli oggetti andavano bonificati con una procedura specifica. Qualcosa che aveva a che fare con frasi complesse pronunciate in maniera sufficientemente minacciosa e parecchio fumo derivante dalla combustione di certe erbe. L’espressione areare il locale dopo l’utilizzo era molto più di un suggerimento. Ma la teiera le era sembrata così innocua. E una minima percentuale di rischio nella vita va affrontata. Tanto per sentirsi vivi. Così l’aveva acquistata. Oltretutto si era rivelata un vero affare. Però l’amica aveva ragione sui rigattieri e la loro merce. Gli acquirenti avventati lo scoprivano a loro spese. Rischiavano di comprare molto più di un mobile o di un oggetto di arredo. Circolavano storie. Si sa che la gente esagera su certe questioni, ingigantisce i particolari. Ma è altrettanto universalmente noto che i racconti nascondono un fondo di verità. Conoscevano un tale che aveva dovuto restituire un cassettone: il mobile dimostrava un’aperta antipatia, per altro ricambiata, per i suoi maglioni. Preda ad ogni stagione di tarme che banchettavano lautamente con panciotti e girocollo, finì per disfarsi del mobile, sostituendolo con una moderna cassapanca. Meno estetica, ma decisamente più funzionale. E poteva considerarsi fortunato.

    «Siamo gli unici al mondo a possedere una teiera allergica al tè» rincarò la dose l’interlocutrice.

    «Come puoi dirlo?»

    «Semplice, sparisce ogni qual volta mi propongo di prepararlo».

    Nella stanza scese il silenzio. La cucina era come ti aspetteresti un ambiente del genere nelle case di campagna. Solida, confortevole. Esattamente rispondente all’immaginario. Un’enorme stufa di ceramica accesa anche in piena estate, seppure a basso regime. Paioli di rame lucidissimi appesi ovunque. Assieme a fasci di erbe secche che oscillavano piano, profumando l’ambiente. Frutta e verdura in abbondanza sul tavolo dal ripiano in legno.

    A fianco della porta erano sempre provvidenzialmente appesi una giacca da pioggia in tela cerata, un maglione, un ombrello e una comoda borsa da viaggio. Gli stivali stavano fuori, sul primo gradino. Meglio farsi trovare pronti era il motto della casa.

    L’insieme restituiva un quadro perfetto di tranquilla normalità quotidiana. Unica nota stonata, la tendenza dei ferri impugnati da una delle due occupanti, la più anziana, a procedere da soli nel lavoro. O a correggere eventuali errori. Il ticchettare delle punte scandiva lo scorrere del tempo.

    Ad un osservatore esterno si presentavano come due tipi estremamente diversi. Di più, diametralmente opposti. Avresti detto che costituivano un campionario di quanto più vario può offrire la natura umana. Una bionda. Capelli raccolti in una coda bassa con riccioli ornamentali diffusi a coronamento del volto. Occhi chiari. Truccati. Labbra tinta ciliegia. Merito del nuovo rossetto di recente acquisito, di cui andava particolarmente fiera. Lavorava a maglia. O perlomeno imbracciava i ferri. Era lei l’ospite. Saturnia, all’anagrafe. A riprova dell’istinto infallibile di certe genitrici, il nome si adattava perfettamente alla natura variabile del carattere della donna che era diventata. Ma Saturnia era figlia unica e sua madre aveva avuto un sacco di tempo da dedicare alla questione del suo nome. Abbastanza da trovarne uno che le calzasse alla perfezione. Come un paio di scarpe su misura, come soleva dire lei. L’altra, quella che si chiamava Frida, era meno curata. Più stropicciata. Capelli decisamente crespi. Più corti. Più chiari, se possibile. Di una tonalità indefinibile al chiuso. Carnagione e occhi scuri. Del genere che non necessita di trucco per accrescere la capacità di penetrare le cose. E le persone.

    In quel preciso momento la loro attenzione era attratta da qualcosa che esulava dalla cucina: «Che succede fuori?». Il trambusto, proveniente dalla finestra spalancata sull’esterno, arrivava provvidenziale ad interrompere una conversazione che stava assumendo toni preoccupanti. Almeno in base ai canoni ordinari. Sicuramente secondo quelli di Frida. La infastidiva ammettere una debolezza. D’altronde non conosceva nessuno che si compiacesse nel riconoscere i propri errori. Si sarebbe dedicata al problema teiera più tardi, una volta rimasta sola.

    «Il figlio dei vicini. Il più piccolo della nidiata. Si è di nuovo messo in testa di far volare il gatto. E la bestia non collabora» spiegò Saturnia.

    «Qualcosa in contrario?» chiese distrattamente la padrona di casa.

    «Niente, se quel gatto non fosse nostro». L’unico caso al mondo di proprietà felina condivisa. Con andamento altalenante, a seconda delle simpatie volubili dell’animale. Un grosso micio grigio. Con occhi verdi. E un carattere solitamente intrattabile. Che aveva scoperto le indubbie attrattive del farsi corteggiare da due aspiranti padrone. Prime fra tutte, le praticamente illimitate scorte di cibo cui aveva accesso con poche, ben dosate, moine. Era un gatto con qualità decisamente umane.

    Era comparso senza preavviso. Come sono soliti fare quelli della sua razza. E sembrava deciso a restare. Se possedeva una casa, se l’era lasciata alle spalle senza rimpianti.

    Non avevano investigato sulla sua provenienza. Per esperienza Saturnia sapeva che c’è sempre una base di volontà, seppure inconscia, nell’atto di perdersi. Soprattutto in un felino dotato da madre natura di un istinto pressoché infallibile. E poi loro non erano il genere di persone che appendono volantini o mettono annunci sul ritrovamento di gatti o animali più o meno domestici.

    Da alcuni giorni il felino nutriva un’aperta ostilità per la casa di Frida, verso la quale soffiava in maniera minacciosa. Aveva inoltre deciso di sedurre il piccolo Otto, con uno scopo ben preciso: ottenere ospitalità notturna. Le radure lì intorno erano troppo frequentate per i suoi gusti. Così favoriva gli esperimenti del suo nuovo amico nel campo del trascendentale. In cambio il piccolo lo aveva gratificato con un «Tenero micetto dorme con me». Quindi era sfrecciato di fronte alla madre, diretto alla sua camera da letto, con andatura barcollante per via del peso del nuovo amico che reggeva in modo piuttosto malfermo sulle braccia. Ora, chiunque abbia otto figli di età compresa tra i 3 e i 10 anni ha decisamente poco tempo da dedicare alle cose superflue, come dimostrava la scelta di dare loro nomi corrispondenti alla sequenza numerica, in base alla quale erano venuti al mondo. E una scala di priorità modificata rispetto alle madri con un unico erede cui badare. Tra queste decisamente non rientravano le frequentazioni feline della progenie. Perciò il gatto ottenne asilo politico al coperto senza incontrare obiezioni.

    Per lui fu una rinuncia non da poco. Le notti erano la cosa che amava di più di quel posto. Una forza arcaica e incontrollata lo attirava nell’oscurità. Dove profumi e rumori avevano una loro consistenza solida. Non cacciava, ovviamente. Le sue necessità alimentari erano ampiamente soddisfatte. Ma qualunque essere vivente deve appagare altro, oltre allo stomaco. E l’istinto felino reclamava la sua parte. Di notte era veramente gatto. E pienamente felice. Nel termine gattesco della questione.

    Ora però c’era qualcos’altro in circolazione. Qualcosa che lo spirito di conservazione gli suggeriva caldamente di evitare. Millenni di esperienze, accumulate nel corso di un percorso evolutivo decisamente complesso, lo mettevano in guardia.

    Lo sentiva con ogni fibra del suo essere. Come sentiva le due nella casa vicina, intente a bere tè e parlare. Come avvertiva le corse dei ghiri che facevano la spola tra i rami degli alberi e i sottotetti. E non aveva intenzione di incontrarlo. A dispetto dei proverbi, pochi gatti sono stati uccisi dalla curiosità. Quasi mai appartenevano a streghe.

    E’ una sistemazione che non ti lascia grandi aspettative di una lunga vita se hai l’abitudine di occuparti di cose che non ti riguardano.

    La padrona, quella più giovane, sembrava ignara della cosa. Come non si era accorta di avere come ospite un intruso decisamente poco umano. Non le sarebbe piaciuto, quando lo avesse scoperto. Poco male. Non era quello a preoccuparlo. Tanto non permetteva neanche a lui di dormire in casa. Faceva un’eccezione solo nelle notti d’inverno, quando la temperatura raggiungeva livelli intollerabili. In tutti gli altri casi lui si aggiustava nella legnaia dietro casa. La porta restava accostata. E i mattoni del muro di fondo emanavano un piacevole tepore. Merito della stufa all’altro lato, nel centro della cucina.

    Ignara dei maneggi felini in atto, Saturnia sollevò le spalle e chiuse la questione «E’ ora che quell’animale si svegli». Il gatto non aveva nome. Saturnia nutriva la ferma convinzione che ciascun essere vivente ne avesse uno in dotazione. Considerava quindi inutile e presuntuoso sostituirlo con qualcosa che si sarebbe comunque rivelato inadatto. In attesa di scoprire quello del gatto, si rivolgeva a lui in maniera generica.

    Otto invece rientrava per lei nel gruppo dei nuovi nati che comprendeva indistintamente soggetti tra i primi anni di vita e l’adolescenza. Ovviamente possedevano dei nomi. Anche pittoreschi. I genitori li avevano forniti adeguatamente. Ma ai suoi occhi non avevano ancora assunto un’identità precisa.

    Non tale, comunque, da meritare uno sforzo di memoria da parte sua per ricordarli come un’entità singola.

    «Quel giovanotto mi sta simpatico» concesse. Un sentimento non condiviso dalla sua dirimpettaia. La signora stava manifestando tutta la sua disapprovazione. Fuori una serie di proteste, pronunciate da una voce femminile un tantino troppo acuta, esplose in direzione del minuscolo giardino popolato di marmocchi. Salutate dalle urla fameliche del piccolo destinatario. E dalle altrettanto veementi risposte della di lui madre. Una selva di «Non se ne può più … turbare così la calma di gente tranquilla» esplose nell’aria. Seguirono suggerimenti sull’educazione dei bambini, resi di difficile comprensione dal generale schiamazzo. La donna, per altro, esercitava il suo diritto di protesta da dietro una persiana abbassata del villino a due piani di sua proprietà. Aveva una parlata decisamente inconfondibile che la qualificava come la signora Dooodle. Un accento ruvido. Dovuto probabilmente alle sue origini esotiche, secondo i parametri del luogo. Che, per altro, facevano coincidere il concetto di esotico con qualunque cosa sita a più di una ventina di miglia di distanza. In effetti la signora in questione costituiva un’eccezione rispetto agli altri residenti. Era entrata a far parte della comunità in tempi recenti. Trasferita per prepensionamento, era stato riferito a Frida. E quindi oggetto di una distaccata diffidenza da parte dei locali. Aveva portato con sé i tuberi di certe peonie giganti che si erano adattate al nuovo giardino senza difficoltà e una salsa dolce, con cui si ostinava a condire tutti i piatti, suscitando l’orrore degli occasionali compagni di tavola. Era fiscale a proposito delle tre o nel cognome. Per ottenere la sua attenzione era necessario trascinare la pronuncia, assicurandosi di pronunciarle tutte. Per il resto seguiva le regole della piccola comunità. Che presentavano anche dei vantaggi. A saper guardare bene. Ciascuno esercitava sugli altri una blanda sorveglianza. Il che garantiva a tutti un certo livello di sicurezza. Potevi sempre confidare, con un ragionevole grado di certezza, nel fatto che ci fosse una finestra in discreta, ma attenta osservazione. Soprattutto dei bambini. Qualcuno controllava e, come in questo caso specifico, interveniva se riteneva necessario offrire il proprio parere. Che poi fosse accettato con altrettanta generosità, questa era un’altra questione. Ma l’ingratitudine è un carattere distintivo di quasi tutte le società di ridotte dimensioni.

    «Quella carampana», il commento arrivò questa volta dall’interno. Saturnia non discriminava gli altri in base alla loro provenienza. Lo faceva secondo precisi criteri, basati sulla simpatia maggiore o minore che provava per loro al primo incontro. Bisognava almeno riconoscerle un certo criterio di giudizio, se non proprio una patente di imparzialità. La signora Dooodle decisamente non rientrava nelle sue grazie. E in questo una certa responsabilità spettava alle famose tre o. Le considerava un vezzo. Decisamente pretenzioso. «Alla sua età dovrebbe fare a meno di darsi della arie di superiorità. Ti aspetteresti un comportamento più maturo» era solita commentare. Poi faceva seguire all’osservazione una scrollata del capo. Tutte le volte. A sottolineare il carattere definitivo del giudizio.

    Frida sollevò un sopracciglio. Non riteneva saggio far notare all’amica l’evidente parità anagrafica che condivideva con la signora in questione. «Il piccolo – si limitò a commentare, sperando di sviare la conversazione – in effetti è piuttosto rumoroso. Almeno porta un po’ di vita in questo mortorio».

    Ma Saturnia sembrava non ritenere chiusa la questione. Era un osso duro. «La verità è che lei appartiene decisamente alla categoria dei benpensanti. Lo sai com’è. Bisogna seguire le regole. Non importa se sono giuste o sbagliate».

    Frida sorrise. La signora Dooodle era effettivamente un tantino rigida. «Chissà come la prenderebbe – suggerì - se sapesse che ha come vicine delle studiose della materia e delle sue implicazioni».

    «Streghe» chiosò l’altra, agitando una mano a mezz’aria. I ferri si produssero in una complicata serie di punti in totale autonomia.

    «Sei estremamente prosaica. In ogni caso lo siamo solo di nome, ormai. Una linea di sangue non basta a rendere una cosa reale o a identificare una persona». Da quelle parti avevano appeso il cappello al chiodo da decenni. La magia era una sorta di presenza, ostinata e costante, ma non esattamente operativa. Incantesimi e maledizioni erano decisamente fuori dalla portata delle residenti. Esulavano, per così dire, dai loro molti interessi.

    «Abbiamo delle tradizioni, delle capacità – protestò Saturnia - . Vorrà pur dire qualcosa».

    «Non è niente di più che un gioco di società. Siamo delle bisbetiche eccentriche con nomi decisamente insoliti».

    «Beh, siamo anche quello. Immagino faccia parte del pacchetto» sbuffò l’altra.

    «Non vorrei tu la prendessi sul personale, ma Saturnia non è un nome comune».

    «L’ho sempre ritenuto un tratto distintivo». Così dicendo tirò su con il naso, in quella che voleva essere una decisa dimostrazione di orgoglio professionale. Poi si diede al tentativo di sgrovigliare la lana che aveva formato una serie fantasiosa di nodi, suscitando lo sdegno evidente dei ferri. Oltre al totale blocco del lavoro.

    «Per quello bastano i tuoi vestiti», sbottò Frida, fissando l’accostamento di gonna rosa e giacca lilla che la sua ospite aveva scelto per quello specifico giorno.

    Saturnia aveva sviluppato una certa resistenza alle provocazioni. Refrattarietà ad offendersi che esercitava con discrezionalità tutta femminile. Frida ne era la principale beneficiaria, a ragione di un’amicizia che le legava dall’infanzia. Erano nel bel mezzo di uno dei loro tè pomeridiani. La casa che le ospitava era sua. Una scelta obbligata, se uno dei due convenuti è nubile e l’altro sposato con una prole di 5 elementi, capace di ridurre qualunque momento di relax in un campo di battaglia.

    «Stai ancora facendo calzini. Non ti sembrano superati?» Frida sembrò ritenere opportuno un nuovo tentativo di cambiare argomento.

    «Il piccolo Otto ne avrà bisogno. Sta iniziando a camminare. Un passaggio determinante. Sono un regalo sempre gradito. Anti smarrimento. Impediscono ai bambini di perdersi durante il loro girovagare intorno a casa. E lasciano le mamme tranquille. Utili, se uno ha una decina di figli. Basta nascondere in casa un filo della lana usata. Ricondurrà qui invariabilmente i calzini. E quello che contengono». Quello era un esempio perfetto della magia passiva che abitava il luogo. Funzionava indipendentemente dalla volontà dei soggetti coinvolti. Semplice, pragmatica, diretta. Niente formule. O pozioni. O riti al chiaro di luna.

    «Mi domando dove trovi quella roba» borbottò Frida, fissando il gomitolo che rotolava sul pavimento in preda ad un’apparente sovraccarico di vitalità.

    «Ho i miei fornitori».

    Poi si concentrò sul lavoro. Era nel calcagno che, si sa, è la parte più difficile di un calzino.

    Fu più o meno a quel punto che successe. La padrona di casa scolò con cura il cucchiaino nella tazza che aveva di fronte e lo posò meticolosamente di lato. L’altra unì di scatto i due ferri, ripiegando il lavoro e infilando il gomitolo sulle punte per fermare le maglie. Il resto accadde come in base ad una precisa regia. Entrambe

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