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Maledetto il ventre tuo
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E-book278 pagine3 ore

Maledetto il ventre tuo

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Info su questo ebook

Notte d’estate in città. Regina Enriquez, vedova anziana di alto rango, viene trovata nel suo appartamento orribilmente stuprata. Nessuno riesce a individuare lo strumento che ha provocato le gravissime lesioni interne causandone la morte.
Giulia Valli, brillante avvocato con trascorsi dolorosi alle spalle, viene incaricata dalla famiglia Enriquez di seguire le indagini.
Mentre il procuratore capo Pietro Aloisi e l’ispettore Mino Di Francesco cercano di identificare l’arma del delitto e di interpretare alcuni indizi, altri omicidi si susseguono a breve distanza di tempo con le stesse orrende modalità. Sembra che l’assassino stupri e uccida soltanto donne anziane. Ma l’omicidio di una studentessa universitaria e di un’anziana trans complicano il quadro.
Sarà l’intuizione di Giulia Valli a trovare il movente psicologico e il vero autore.
LinguaItaliano
Data di uscita18 feb 2014
ISBN9788898475476
Maledetto il ventre tuo
Autore

Vittoria Monforte

Vittoria Monforte è lo pseudonimo dietro il quale si cela un noto avvocato penalista italiano. Maledetto il ventre tuo è ispirato a una vicenda vera che l’ha vista coinvolta personalmente. Per il rispetto del segreto professionale, non sono indicati i luoghi in cui si svolge la storia. Come la protagonista di questo romanzo, l’autrice è fermamente convinta che una donna possa mettere a servizio della giustizia due principali caratteristiche: la capacità di intuizione e l’empatia con la sofferenza, della vittima e del carnefice. Visitato in carcere dall’avvocato, il protagonista reale di questa storia le confidava: «Cercavo qualcuno che mi fermasse. Lei lo ha fatto. Solo qui dentro mi sento protetto. Grazie.»

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    Anteprima del libro

    Maledetto il ventre tuo - Vittoria Monforte

    I

    Who am I and who are you?

    Which of us is really true?

    Anonimo

    L’uomo butta un occhio all’orchidea bianca, alta e imperturbabile sul tavolo accanto alla finestra. La seconda fioritura nel giro di qualche mese, pensa soddisfatto. Poi accosta le imposte, la stanza precipita nell’oscurità. Inserisce il dvd nel lettore e sprofonda sul divano. Le immagini scorrono sfocate, un po’ tremule. Non era ferma la sua mano, quel giorno.

    La donna appare: distesa, nuda, fili di nylon le assicurano i polsi alla testata di un vecchio letto in ferro battuto, le caviglie ai pomelli.

    La telecamera passa lenta sopra, la riprende tutta. Anche le orecchie, che lui, ancora una volta, ricorda profumate di Mitsouko. Era durato poco quell’aroma, sopraffatto dall’odore del sangue.

    Lei lo fissa con gli occhi sbarrati, scuote la testa, tossisce, sembra che soffochi. Le ha ficcato un tovagliolo in bocca, per attutire le urla. I seni grossi si accasciano sul petto. La telecamera indugia sul pube. La torcia illumina tra le gambe: la carne rossa, lucida, palpitante. Si trattiene a fatica, ma non è per lei il suo seme.

    Pochi istanti e cambia la prospettiva. Aveva appoggiato la telecamera sul comò perché, a un certo punto, gli servivano entrambe le mani. Se lo ricorda bene, come ogni istante della sua impresa gloriosa.

    Lo strumento, freddo, duro, implacabile, entra in profondità nel corpo caldo. Le immagini si fanno più sfocate.

    L’audio rimanda un rantolo cupo, senza fine.

    Seduta accanto sul divano, l’altra ha il volto in ombra. È la sola capace di distoglierlo dalle immagini. L’uomo si fa più vicino e, con dolcezza, la distende.

    In un rito sempre uguale, l’accarezza lentamente: i capelli, come se glieli pettinasse, le gote. Si imbeve di quell’alito caldo. Le lecca il collo, le guance, le ficca la lingua in bocca.

    Il rantolo del video giunge da molto lontano, ora. Un brusio fastidioso, indistinto. L’uomo non lo sente quasi più, è altrove. Tra i seni e le cosce della donna che gli sta sotto, sul divano. È lì che affonda.

    La stoffa rossa si macchia di sperma. Ricade sfinito, la testa riversa sullo schienale. Allunga il braccio e con la mano cerca la testa di lei. La vuole appoggiata alla sua spalla.

    «Chi sono io?» le sussurra all’orecchio.

    Ma la donna non risponde.

    Si alza e riapre le imposte. Sul divano lei non c’è più. Non c’è mai quando entra la luce. Un mal di testa feroce gli martella le tempie.

    Estrae il disco dal lettore e lo ripone, con la stoffa rossa bagnata, nella cassaforte a muro. Ripensa al corpo che l’ha fatto sognare in un bel pomeriggio di primavera, quando aveva girato il video: il ventre inciso da smagliature profonde, i seni sfatti e cascanti, i capelli bianchi appena venati di grigio raccolti alla nuca da un vecchio pettine.

    Ha appena iniziato. Riuscirà più a sottrarsi al sortilegio delle vecchie?

    II

    La sera del 25 giugno

    Giulia Valli arrivò a casa della madre che era appena l’imbrunire. Prima di infilare la chiave nella serratura fece il solito doppio trillo col campanello per non spaventarla. La porta era chiusa solo con lo scrocco: perché sua madre non le dava affatto retta?

    Una mescolanza di odori la investì subito: di legno, libri, cannella, composta di mirtilli. E poi, l’inconfondibile tepore del forno acceso, la fragranza della casa in cui era nata. La dolcezza si sfasciò nella malinconia.

    Per prima cosa si sbarazzò dei sandali. Mai avrebbe rinunciato ai tacchi alti ma, alla fine della giornata, i piedi le dolevano, col caldo si erano gonfiati. Al contatto col marmo verde, sempre tirato a cera, sentì un piccolo brivido di piacere. Attraversò il tinello sollevando bene i piedi che si incollavano al pavimento.

    I luminosi occhi neri di sua madre comparvero sulla soglia della cucina. Tradivano ancora la curiosità per il mondo e il desiderio di meravigliarsi. Nonostante tutto.

    Indossava le morbide ballerine che le aveva regalato al compleanno. Per abbracciarla Giulia si abbassò. Emma si era fatta piccola tutto d’un colpo nell’ultimo anno. Sul busto magro le costole sporgevano e la figlia sentì uno struggente bisogno di proteggerla.

    Lo studio del padre e la stanza del fratello erano chiusi. Come sempre. Giulia non provò ad abbassare la maniglia né le chiese se mai ci entrasse a fare la polvere.

    Andò in bagno, gli occhi le bruciavano. Erano arrossati, capitava spesso alla fine della giornata. Ravviò dietro le orecchie i folti capelli ramati, tolse le lenti a contatto e le buttò nel cestino. Si avvicinò allo specchio stringendo gli occhi come fanno i miopi. Le lampadine fluorescenti incassate nelle scanalature della parete evidenziavano occhiaie scure. Poi inforcò gli occhiali che portava in borsa.

    Nell’anticamera della sala da pranzo un lume inglese di opaline decorata a fiori e steli d’oro sul pianoforte verticale illuminava riviste di viaggi. Scoperchiò il piano, aveva preso lezioni da piccola. Accidenti, suonava sempre gli stessi pezzi, non trovava mai il tempo di impararne di nuovi. Sfiorò con le dita lunghe i tasti: sol do mi, sol do mi, i primi accordi del Chiaro di luna di Beethoven.

    Era suo padre a portarla, il pomeriggio, alle lezioni di solfeggio da una vecchia maestra gobba che la costringeva a mettere le pattine quasi già sul pianerottolo. Per anni Giulia aveva associato la musica del pianoforte al fruscio di passi strascicati.

    Col fratello, da bambini, si contendevano la sedia a dondolo. Si lasciò cullare e chiuse gli occhi.

    La notte in cui tutto era successo c’era un gran vento, il mare si sfasciava sulle pietre, a intervalli regolari. Nel suo fragore si perdeva il vociare degli ospiti in terrazza. La spuma delle onde inumidiva le tende di lino rigonfie d’aria. Schioccavano come vele.

    Perché proprio io? Perché sono sopravvissuta io?, si domandò. Sempre la stessa domanda. A cui non c’era risposta.

    Un violento colpo di tosse la fece sussultare e Giulia, sentendosi soffocare, portò istintivamente una mano al collo.

    Emma Valli afferrò il canovaccio dal gancio sotto la finestra e mise sul carrello il timballo di maccheroni.

    «La parte con la crosta», raccomandò Giulia alla madre che lo tagliava con cura. Emma depose le posate di portata e si avvicinò con la sedia alla figlia. Le prese le mani:

    «Perché le hai sempre fredde? Vorrei che tu fossi felice, tesoro» disse, mentre gliele accarezzava.

    «Sto bene, mamma. Non preoccuparti.»

    «Mi preoccupo invece… Sei separata da tre anni ormai, e non pensi affatto a rifarti una vita. Sei ancora giovane, bella, vivace. Cosa aspetti? La tua esistenza non può ridursi al lavoro. Esci con un uomo… non ti mancano i corteggiatori, invita amici a casa, riempi quel maledetto frigorifero… Vivi, tesoro mio.»

    «Mi godo la libertà, mamma.»

    «Davvero saresti libera?» domandò la madre arricciando il naso piccolo e lentigginoso. E il suo volto assunse per un attimo un’espressione quasi infantile.

    «Ne dubiti?»

    «Se fossi libera avresti chiesto il divorzio.»

    «Ho altro a cui pensare. Non ho tempo per questo, adesso» troncò Giulia.

    «La verità è che sei ancora innamorata di tuo marito.»

    La digestione le si bloccò, la pancia si gonfiò. Ancora una volta si stupì della capacità di sua madre di andare al nocciolo delle questioni.

    «Non è facile dimenticare, distruggere i sogni…» sospirò.

    «Cara, solo il desiderio scalda le mani e il cuore. E non mi riferisco al desiderio di una persona in particolare. Il desiderio è il motore dell’esistenza… devi riaccenderlo quel motore…»

    Sua madre si alzò per andare in cucina a prendere le coppette della macedonia. Honoré si spostava guardingo sul pavimento di graniglia veneziana, poi venne a strusciarsi contro le caviglie. Non si era ancora abituata alla presenza del gatto e detestava i rivestimenti di tela grezza con cui la madre proteggeva sedie e divani dalle unghie del persiano.

    «Mamma, hai voglia di ballare?» domandò d’un tratto.

    «Oh, finalmente, questa è la Giulia che conosco! Ti ho mai detto che da ragazza ho vinto il primo premio di charleston?»

    «Sì» rispose spostando lo sgabello del piano per sedersi, «ma mi piace sentirtelo ripetere.»

    «Non ti ho mai detto però in che cosa era consistito il premio: un set completo di bocchino, boa di piume nero e calze a rete.»

    Un sorriso ampio, luminoso, che Emma non le vedeva da tempo, esplose sul volto ovale e magro di Giulia. Con gioia accennò le note di Money, Money del musical Cabaret.

    Emma piegava le ginocchia, coordinava con grazia i passi e agitava la gonna con leggerezza di ragazza. Giulia accompagnava la musica con la voce e coi piedi batteva il ritmo.

    «Quasi l’una!» esclamò poi la madre guardando l’orologio. Afferrò una rivista e si sventolò il viso accaldato e sudato. «Che peccato che il tempo sia passato tanto in fretta» disse con rammarico mentre accompagnava la figlia alla porta di casa.

    «Chiudi con tutte le mandate, ti prego. È più sicuro, soprattutto di notte.»

    «Non esagerare! Vuoi che sia prigioniera nella mia stessa casa?»

    Giulia attraversò velocemente lo spiazzo. Era sempre poco illuminato. Cosa aspettava il comune ad aggiungere qualche lampione? Il cuore prese a batterle forte. La sua Mercedes, classe B, la scorse unicamente per il riverbero della luna sulla vernice metallizzata grigia scura.

    In casa, Emma spalancò le finestre. Faceva un caldo insopportabile, afoso e umido. I davanzali erano sporchi della fuliggine delle foglie incenerite dal sole durante il giorno. La spazzò via con la mano. Da lontano giungeva come un lamento il latrato di un cane.

    Squillò il telefono. Pensò a sua figlia. Che fosse già arrivata o avesse dimenticato qualcosa? Alzò la cornetta:

    «Pronto?»

    «Pronto» ripeté.

    Dall’altra parte udì un respiro. Poi qualcuno riattaccò.

    III

    Quella stessa notte

    L’una. La signora Tierro non riesce a prendere sonno. La odia quella maledetta sveglia sul comodino, marca implacabile le ore mentre lei si rigira inquieta nel letto. Sfinita, spalanca la finestra, forse l’aria la calmerà. Ma fa troppo caldo e niente si muove. Le tende ricadono a terra, immobili e pesanti. Indossa la vestaglia, in salotto sprofonda nella poltrona davanti al televisore. Chissà che le immagini sullo schermo non l’assopiscano a poco a poco.

    I film sentimentali e violenti che stanno trasmettendo le procurano agitazione. Ha bisogno di qualcosa che la calmi, come questo splendido documentario sulla natura del National Geographic.

    Finalmente si addormenta.

    Ma un urlo dilania il silenzio. Straziato, bestiale.

    La donna si ridesta di colpo. Intontita fissa lo schermo: è da lì che proviene? Nel sonno – e il suo è così leggero – tutto penetra. Se l’è sognato? Stenta a crederlo, di sogni lei non ne fa più. Eppure la voce l’ha sentita, gridava aiuto, implorava pietà.

    Luisa Tierro drizza la schiena, immobile. Si stropiccia gli occhi. È davvero sveglia? Spegne il televisore. Dannata notte, monotona messaggera di insonnia. Ora tutto tace. Smorza la luce del salotto e si avvia in camera. Forse veniva dal piano di sopra, dove abita Regina Enriquez. Loro due soltanto sono rimaste nell’elegante palazzo stile liberty. Così è l’estate coi vecchi, crudele. Peggio che con gli animali abbandonati in questa stagione. Questi, all’inizio si è contenti di averli.

    Ma un altro urlo la inchioda: lacera l’aria, come la lama il collo di un maiale.

    Cosa diavolo sta succedendo?

    Inforca gli occhiali, le mani che tremano cercano tra le pagine della rubrica il numero di telefono del custode.

    Gli squilli si sentono fin sulle scale: uno, due, tre, quattro, cinque. L’uomo non risponde e la signora Tierro riattacca.

    L’occhio sbarrato allo spioncino, ha il fiato corto: la luce della applique sulla parete di fianco all’ascensore illumina bene la stampa antica sul pianerottolo e la targa di ottone dello studio medico di fronte. Non sto sognando, si rassicura. Salire al piano di sopra? Non ci pensa nemmeno. Dà un’altra mandata alla serratura.

    L’orologio a pendolo dell’ingresso segna le due. Forse dalla finestra del bagno può scorgere qualcosa. Apre gli scuri, la testa le gira, guarda in alto. L’appartamento di Regina Enriquez è illuminato.

    Che sia sveglia, a quest’ora? Strano: Regina si corica presto, tiene tantissimo alla cura della sua persona; ha un viso ancora quasi del tutto privo di rughe.

    Deve essere accaduto qualcosa. Forse si è sentita male e non può chiamare soccorso.

    O il figlio: che sia tornato? No, impossibile. Incontrandola casualmente per le scale ieri pomeriggio, le aveva confidato con voce rotta che quell’unico figlio era preso da altro e che, questa estate, non sarebbe venuto in Italia a trascorrere qualche giorno con lei.

    Sì, è successo qualcosa. Luisa lo sente, ne è certa. Assicura gli infissi.

    La testa pulsa così forte che la tempia le fa male. Strascica i piedi, la paura li paralizza. Di nuovo si attacca allo spioncino, non scorge niente. Poi da qualche parte passi frettolosi, forse nell’androne. Si precipita in camera e si affaccia. Nella concitazione, senza occhiali, riesce a scorgere soltanto un’ombra. Si immette furtiva nel vicolo di fronte.

    Richiude con forza la finestra, prende la testa tra le mani, se almeno smettesse di farle male la tempia… e quel continuo abbaiare di un cane randagio. Deve essere nelle vicinanze, tanto lo sente distintamente. Poi chiama la polizia: che non la prendano per una vecchia pazza. Ma lei è sicura, non ha sognato.

    Il viso avvampa mentre si versa del cognac. Il citofono suona dopo quella che pare un’eternità. Luisa Tierro sobbalza, risponde. Sono loro, due poliziotti.

    Il campanello acuto dell’appartamento di Regina Enriquez buca il silenzio della notte. L’agente lo preme più volte, accosta l’orecchio alla porta blindata, ma non percepisce alcun rumore. Non passi, non voci.

    Scuote la testa e fissa il collega più giovane mentre la mano sfiora il calcio della pistola.

    «Fa uso di sonniferi la signora Enriquez?»

    «Non lo so…»

    L’uomo abbassa con cautela la maniglia, la porta non è chiusa a chiave. Che la signora Tierro non gli stia così addosso, porca puttana. Toglie la sicura alla pistola. Spalanca la porta.

    Un alone evanescente di luce si propaga per il lungo e sottile cilindro bianco di una lampada a stelo, sbocca sulla parte superiore illuminando il soffitto rosa tenue dell’ingresso. Le spalle dei poliziotti sfiorano la sahariana di seta che pende dal portamantelli in ferro battuto. Pistole in pugno, si guardano intorno.

    «Signora Enriquez?»

    Silenzio.

    Il parquet scuro del pavimento è lucido e pulito. Sulla console di cristallo lunghe rose bianche fremono in un vaso. Luisa Tierro lo riconosce subito quell’effluvio intenso, lo stesso dell’acqua di rose con cui si inumidisce gli occhi prima di coricarsi la sera.

    Da terra, un putto di marmo grande quanto un bambino li osserva sorridente. I faretti incastonati nel soffitto del corridoio sono accesi.

    Luisa Tierro tallona i poliziotti.

    C’è uno strano odore, ora.

    «Oh, cazzo!»

    Un agente si volta di scatto e blocca la signora Tierro.

    Il cadavere giace supino sopra un tavolo basso tra due divani rossi. La testa rovesciata, lunghi e fini capelli castani penzolano impercettibilmente su schegge di vetro. Ha gli zigomi lividi, le braccia tese all’indietro, sopra la testa, legate da una fascia azzurrina. Flaccida e sottile, quasi trasparente, la pelle è percorsa da grosse vene blu. In vestaglia da notte e camicia di seta. Senza mutande, i radi peli pubici sono intrisi di sangue; tra le gambe spalancate la vulva è squarciata, il sangue bagna il tavolo e la faccia interna delle cosce è imbrattata di escrementi.

    «Oh, poveraccia, se l’è fatta addosso.»

    Il poliziotto si china con cautela, c’è qualcosa per terra, alla base del tavolo: brandelli di carne violacea, rossa, biancastra in certi punti.

    «Chiamo il magistrato di turno.» Ma l’altro non lo sta ascoltando. Non riesce a distogliere gli occhi da quelli atterriti del cadavere.

    IV

    Il magistrato Andrea Pauli aveva la giacca stazzonata, i capelli schiacciati dal cuscino. Entrò insieme al medico legale, Elisabetta Sangiorgio.

    Gli uomini della Scientifica posarono nell’ingresso una bara di metallo. Le potenti lampade alogene che avevano piazzato nel salotto strappavano la notte all’oscurità. Sulla credenza veneziana del seicento bottiglie bianche, fluorescenti, spettrali, come i liquori immobili che contenevano. Sembrava giorno, ma un giorno strano, di un chiarore atroce. Scattarono le foto.

    Chino sul cadavere il medico legale ne misurava la temperatura con il tanatoscopio per stabilire l’ora della morte.

    Il magistrato diede un’occhiata veloce al corpo, poi si allontanò. Ci voleva stomaco. All’università aveva escluso la medicina legale dal suo piano di studio: i morti ammazzati gli facevano troppa impressione. Non erano questi i delitti di cui si occupava abitualmente. Che sfortuna essere di turno proprio stanotte.

    Sotto la grande e colorata carta di Francia che copriva l’intera parete del salotto i poliziotti della Scientifica, con soprascarpe di lattice, si aggiravano attenti, eterei come fantasmi. Bianchi anche loro come le tute che indossavano.

    La scena del crimine fu subito recintata con un nastro bicolore. Osservavano dettagli, fotografavano, prendevano misure, disegnavano planimetrie, numeravano buste di nylon in cui cominciarono a ficcare i reperti. Cercavano sperma e peli sul corpo della vittima. Avvolsero le mani del cadavere nei sacchetti di carta, chissà che sotto

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