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Favonio
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E-book261 pagine4 ore

Favonio

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Info su questo ebook

Quando due giorni dopo l'arrivo del Favonio, le nuvole furono spazzate via dalla furia del Grecale e il sole illuminò di nuovo gli appartamenti, le finestre si aprirono e i condomini guardarono il cielo finalmente sgombro. Qualcuno uscì sui terrazzi per sistemare i vasi di fiori, altri solo per godere dell'aria fresca e altri ancora rimasero un passo dietro le imposte. I loro sguardi erano sfuggenti, i gesti nervosi, le mani scosse da un leggero tremore. Un silenzio opprimente avvolgeva la palazzina. Nessuno di loro se ne rendeva ancora del tutto conto, ma nulla sarebbe più stato come prima.

Il nuovo romanzo di Marco Antonelli conduce il lettore dentro una storia corale, ricca di colpi di scena e personaggi indimenticabili, dove la misteriosa potenza del vento di Favonio fa esplodere rancori nascosti e svela gli inquietanti segreti degli abitanti di un'anonima palazzina di una grande città, in un gioco di incastri che si risolveranno solo nel sorprendente finale.
LinguaItaliano
Data di uscita1 feb 2024
ISBN9791222724157
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    Anteprima del libro

    Favonio - Marco Antonelli

    Parte prima

    Prima che tutto accadesse

    2. Due lineette. Cazzo, sono incinta!

    Due lineette. Cazzo, sono incinta! Bianca Ferro guardò le barre verticali virate rapidamente dal rosa al rosso cupo. Non c’erano più dubbi, era la seconda prova positiva e il ritardo aveva ormai raggiunto le tre settimane. Rimise il cappuccio sul tester e gettò il tutto nel cestino, coprendolo con uno strato di carta igienica, poi versò l’urina ancora calda nel water. Il suo sguardo si fissò sull’orologio appeso alla parete, ipnotizzato dalla lancetta dei secondi che vibrava impercettibilmente ad ogni scatto. Era l’inesorabilità del tempo che la torturava, l’impossibilità di tornare indietro. Fece un profondo respiro e rovistò fra la spazzatura per controllare di nuovo il display. Non era cambiato niente, era incinta. Il suo mondo fatto di certezze stava crollando, le fondamenta d’argilla sbriciolate sotto il peso di due linee verticale inaspettate. Era una follia.

    Non ho capito, cosa hai detto? Domandò sentendo in lontananza la voce di Carlo, suo marito. Controllò che la porta del bagno fosse chiusa e si sedette sul bordo della vasca. Le girava la testa.

    Ho detto che sta arrivando il Favonio, ci voleva un po’ di caldo. Ma stai facendo il bagno? Sono venti minuti che sei lì dentro. Fece Carlo battendo leggermente le nocche sullo stipite di legno.

    Sì, ora esco, non serve bussare. Ma cos’è il Favonio?

    È un vento caldo e secco che scende dalle Alpi. Magari tu lo chiami Zefiro o Foehn, ma è lo stesso. La temperatura salirà di almeno sette o otto gradi. Questa sera possiamo bere il caffè sul terrazzino, se vuoi. È il bello di abitare all’ultimo piano, possiamo goderci la vista del cielo, come due sposini al cinema.

    Sicuro, va benissimo. Ora vengo, dammi dieci minuti. Bianca aprì il rubinetto della vasca per coprire con un rumore insospettabile il pianto che l’aveva colta all’improvviso. Ora come faccio a dirglielo, si domandò ancora una volta. Non facciamo l’amore da almeno due mesi, che cosa mi invento? In pochi secondi l’acqua calda creò un velo di vapore sullo specchio sopra il lavabo. Bianca passò la mano sulla superficie bagnata e guardò nel riflesso opaco le prime rughe che segnavano il contorno dei suoi occhi. L’anno prossimo avrebbe compiuto quarant’anni e fino a pochi giorni prima si era cullata nella certezza che non avrebbe mai più rischiato di avere un figlio. Eppure, era accaduto e non con la persona giusta. Un miracolo assurdo che lei non aveva mai chiesto. Come poteva essere stata così sciocca e imprudente? Era proprio una pazzia, un paradosso, una di quelle cose che non succedono mai nel mondo reale, tantomeno a una persona come lei. Una vita non desiderata si era aggrappata al suo ventre e ora cresceva sfidando ogni logica e il più elementare buonsenso. Lisciò con una mano i capelli biondi che scendevano a grosse ciocche sulla fronte madida di sudore e si massaggiò le tempie. Doveva trovare una via d’uscita e doveva farlo in fretta. Guardò di nuovo la sua immagine riflessa. L’umidità aveva ingentilito i lineamenti, l’espressione sembrava quasi dolce, malgrado le lacrime scendessero ancora copiose. Aprì la finestra per disperdere il vapore, ma una folata di vento caldo la fece indietreggiare di un passo. Gli aloni sullo specchio si asciugarono in pochi istanti e con loro sparirono le parole che aveva tracciato sul vetro con un’unghia laccata di fresco: Vedo guai grossi….

    Carlo Ferro aprì la finestra della camera da letto, lasciando la porta spalancata alle sue spalle, in modo che potesse controllare i movimenti di Bianca quando sarebbe uscita dal bagno. Si sporse fino a intravedere l’ingresso della palazzina. Erano quasi le sette e Martina, la figlia dei Garavaglia che abitava al primo piano, sarebbe tornata di lì a poco. L’aveva vista uscire quella mattina in bicicletta, con i libri nel cestino, lo zaino da cui spuntava la borraccia colorata e un giubbotto a coprire la camicetta bianca. Sicuramente non era ancora rientrata, perché il suo posto nella rastrelliera in cortile era vuoto. Forse dopo la scuola si era fermata da qualche amica, ma sarebbe stata a casa entro qualche minuto, raramente rientrava dopo il tramonto. Fra poco la vedrò, pensò con un sorriso. Già da adolescente si era fatta carina, ma ora che aveva quasi diciotto anni era diventata una donna, e che donna! Martina sarebbe scesa dalla bicicletta, chinandosi per chiudere il lucchetto, poi avrebbe camminato fino al portone con i suoi seni saltellanti e le gambe sode, uno spettacolo meraviglioso. Quel pensiero gli provocò un brivido all’inguine che trattenne stringendo le cosce. Non ricordava da quando aveva cominciato a notarla. Era stato sicuramente l’estate scorsa, ma non sapeva esattamente il momento. Probabilmente da quando era tornata dalle vacanze al mare, con i capelli castani un po’ più chiari e il segno del costume ben in evidenza quando indossava vestiti scollati. Le prime volte si era accontentato di incontrarla casualmente nel quartiere o davanti a casa, ma poi aveva cominciato a studiare i suoi orari, in modo da poterla incrociare sul portone la mattina o vederla rientrare dopo la scuola. Ormai fissava gli appuntamenti di lavoro in funzione dei suoi movimenti, così da poter essere libero al posto giusto nel momento giusto. Aveva anche preso l’abitudine di passeggiare sul lato opposto della strada prima di cena, in modo da poter guardare la finestra al primo piano dove lei si affacciava ogni tanto, oppure quella del bagno, dove riusciva a intravedere la sua ombra quando entrava nella doccia che era proprio dietro alle imposte o, se era fortunato, anche quando si sedeva sul water.

    Mangiamo alle otto, se ti va bene. Cosa hai preparato per cena? Urlò verso la porta del bagno, più che altro per controllare che sua moglie fosse ancora lì.

    Non lo so, adesso arrivo. Scusa, non mi sento tanto bene, ma sta passando. La voce di Bianca sembrava triste, ma Carlo immaginò che fosse solo l’effetto della porta chiusa che la faceva sembrare di un tono più basso del solito. Tornò a guardare dalla finestra e dopo pochi istanti la vide arrivare. Camminava a testa alta, facendo scivolare le scarpe da ginnastica sul selciato con un passo elastico e portando la bicicletta a mano, il giubbotto adagiato sul cestino. Aveva la stessa camicetta della mattina, ma lui notò immediatamente che aveva slacciato almeno due bottoni in più, perché ormai faceva caldo. Benedetto Favonio, pensò soddisfatto. Martina fece un cenno di saluto verso il secondo piano dove il professor Luciano Maso era uscito sul terrazzo per bagnare i suoi gerani. Fu proprio quel braccio sollevato che scostò ancora di più la camicetta dal petto, lasciando intravedere un solco profondo e perfettamente delineato. Gesù santo, che tette! Mormorò a sé stesso.

    3. Tra le parole che vi ho insegnato, l’acquerugiola

    Tra le parole che vi ho insegnato, l’acquerugiola che scende e che mai più avete usato, pensò il professor Luciano Maso esaminando le fotografie. Da quando era andato in pensione, cinque anni prima, aveva preso l’abitudine di guardare ogni sera le immagini degli studenti di qualcuna delle centinaia di classi in cui aveva insegnato. La scuola secondaria di primo grado Italo Calvino, a poche centinaia di metri da via dei Tigli, era stata tutto il suo mondo per più di quarant’anni e quei ragazzi il surrogato della famiglia che non era mai riuscito a costruirsi. Conservava in un cassetto tutte le foto di fine anno e ogni sera, prima di preparare la cena, ne prendeva un paio e gli dedicava un pensiero. Non poteva ricordarsi tutti i nomi, ma dei volti non voleva perdere memoria, quasi a voler prolungare all’infinito quella sensazione di appartenenza a qualcuno o a qualcosa, che era stata da sempre la più intima delle sue necessità.

    Luciano Maso ripose le fotografie e uscì sul terrazzo per annaffiare i gerani. La temperatura si era alzata rapidamente e un vento caldo e secco stava asciugando la terra nei vasi. Salutò distrattamente Martina Garavaglia che stava rientrando a casa, due piani sotto. Anche lei era stata una sua allieva quando frequentava le medie. Una ragazzina magra e insicura, che cercava sempre la sua approvazione o, in generale, quella di un adulto. L’aveva sempre tenuta a distanza proprio perché abitavano nello stesso palazzo e non voleva che qualcuno pensasse che lui avesse un occhio di riguardo nei suoi confronti. Malgrado questo, Martina trovava sempre una scusa per tormentarlo con domande, richieste di correzioni dei suoi compiti e un fiume di parole che non si esauriva mai. Quando aveva avuto la malaugurata idea di accettare di darle ripetizioni di italiano, era stato difficile rimandarla a casa, al piano di sotto, al termine della lezione. Non smetteva mai di chiedere qualche informazione in più, un consiglio sul prossimo libro da leggere o qualsiasi altra cosa e lui doveva faticare per farla uscire di casa. Spesso rimaneva sul pianerottolo a parlare, mentre lui non aveva il coraggio di chiudere la porta e rientrare. Poi, finalmente, aveva cominciato le superiori e le ripetizioni erano finite. L’aveva vista trasformarsi in pochi mesi, quando aveva poco più di sedici anni. Il suo corpo era cambiato, ammorbidito dalle curve femminili, e anche il suo atteggiamento si era fatto più adulto e sensuale, ma per lui era sempre e solo la solita ragazzina petulante che lo abbracciava tutte le volte che si incontravano e gli parlava a voce troppo alta. Sarà stata anche carina, pensò, ma non aveva classe, non aveva spessore, era invadente e noiosa. Nemmeno da paragonare a Corrado Lanzani, il ragazzo del terzo piano. Gli scappò un sorriso, lo chiamava ancora ragazzo, anche se ormai aveva ventisette anni e si stava per laureare in lettere moderne. Corrado aveva i capelli nerissimi, un fisico da nuotatore, gli occhi smeraldo e un sorriso così tenero e disarmante che accarezzava il cuore di chiunque lo incontrava. Impossibile non esserne affascinati. Il professor Maso tornò in sala e cercò nel cassetto una fotografia di quindici anni prima. Corrado era in ultima fila, perché era uno dei più alti della classe, ma in una posizione leggermente defilata rispetto agli altri, in modo che si potesse vedere la sua figura quasi intera. Lui si era sistemato proprio di fianco e quasi scompariva al suo cospetto. Maso seguì con un dito il contorno di quel viso che incorniciava un magnifico sorriso. I denti erano bianchi e curati, le labbra carnose e scure, le spalle larghe e la vita stretta, sembrava un fotomodello. Corrado abitava con i genitori proprio sopra al suo appartamento e spesso poteva sentire i suoi passi di notte, quando rientrava e si spogliava prima di andare a letto. Lui allora rimaneva immobile, trattenendo il fiato e immaginando i suoi gesti, uno per uno. Le dita che slacciavano lentamente i bottoni della camicia, poi scivolavano sulla fibbia della cintura, sfilavano la cinghia e abbassavano i pantaloni. Immaginava le sue gambe muscolose e il ventre piatto. A volte lo sentiva camminare verso la cucina, aprire la porta del frigorifero e rovistare dentro. Immaginava le sue mani che afferravano una bottiglia, la portavano alle labbra e il liquido fresco che scendeva nella gola, sfiorando la lingua. Luciano Maso sentì un brivido profondo attraversargli la schiena. Non era uno stimolo sessuale, ma qualcosa di più profondo, un sentimento che non aveva nome e nemmeno ragione, ma proprio per quello sembrava vivere di vita propria, sfidando ogni possibile razionalizzazione. Aveva bisogno di aria, così uscì di nuovo sul balcone. Si rese conto che stava ancora stringendo fra le dita la fotografia e si affrettò a posarla sul tavolino di ferro battuto sul quale d’estate consumava le sue cene solitarie. Non voleva rovinare l’immagine con il sudore che gli bagnava le mani. È il caldo, è questa camicia troppo pesante che blocca la traspirazione, sono i raggi del sole al tramonto, mentì a sé stesso.

    Sembra quasi estate. La voce di Rosa Lavis, l’inquilina dell’appartamento di fianco al suo, lo fece sussultare. Era affacciata sul terrazzo e aveva le mani tese verso la strada, per asciugare lo smalto che aveva appena applicato sulle unghie.

    È il vento di Favonio, porterà anche le nuvole fra poco. Rispose Maso indicando l’orizzonte. Si domandò ancora una volta perché quella donna, che ormai doveva avere più di sessantacinque anni ed era vedova da almeno venti, si tingesse ancora i capelli con quell’assurdo colore rosso e si smaltasse le unghie quasi tutti i giorni. Non usciva quasi mai, sembrava non avere amici o parenti, perché tutta quella messinscena? Negli ultimi anni, la loro non era stata una convivenza semplice a causa del cane di Rosa che abbaiava spesso di notte e aveva l’abitudine di orinare sul balcone, proprio sulla grata che divideva i due terrazzi, sporcando anche la parte di Maso e lasciando un odore sgradevole. Per fortuna il cane era morto da poche settimane e lui aveva ritrovato un po’ di pace.

    Vedo che ora che Tommy è morto, lei viene più spesso sul balcone. Il tono educato di Rosa non riusciva a mascherare la sua insofferenza. La perdita era troppo recente per dimenticare tutte le discussioni che avevano avuto in passato.

    Mi spiace per il suo cane, Rosa, davvero. Era importante per lei.

    Si risparmi il cordoglio, tanto lo so che lo odiava, povera creatura. Rosa trattenne le lacrime e si voltò dalla parte opposta, agitando le mani per asciugare più velocemente lo smalto. Ogni volta che usciva sul balcone rivedeva Tommy agonizzante, con la bava alla bocca e gli occhi sbarrati. Fino a pochi minuti prima aveva giocato con il suo osso in soggiorno, poi lei l’aveva fatto uscire sul terrazzo e non era più rientrato. Era stato qualcosa di fulminante, nemmeno il veterinario aveva saputo dire esattamente cosa. Un attacco di cuore, probabilmente. Rosa non aveva mai immaginato che anche i cani potessero avere un infarto. Aveva scoperto troppo tardi che era una delle cause più frequenti di morte degli animali di piccola taglia e che avrebbe potuto salvarlo con un massaggio cardiaco, per questo non si dava pace e non riusciva a stare sul balcone per più di pochi minuti senza scoppiare in un pianto inconsolabile. Chissà perché aveva avuto quell’attacco di cuore, si domandò per la millesima volta. Forse si era spaventato per qualcosa, magari era stato proprio Maso, che spesso usava una scopa per allontanarlo dall’inferriata che divideva le due proprietà.

    Rientro a preparare la cena, buona serata. Disse Maso salutandola con la mano. Era davvero dispiaciuto per lei, ma la sua vita era nettamente migliorata da quando quel cane non c’era più.

    Buona serata anche a lei, Professore. Rispose freddamente Rosa, guardandolo scomparire dietro alle tende del soggiorno. Se sei stato tu, ti ammazzo, pensò.

    4. Qualcuno ti ha notata, hai un nuovo messaggio

    Qualcuno ti ha notata, hai un nuovo messaggio. Sul computer una finestra azzurra lampeggiava senza sosta. Rosa Lavis si sedette di fronte allo schermo e aspettò qualche istante prima di fare doppio click sull’icona della posta. Aveva sempre un po’ di batticuore quando arrivava un messaggio e quei pochi secondi, fra la consapevolezza che qualcuno l’aveva cercata e la rivelazione di chi e perché, erano spesso il momento migliore della sua giornata. Si era iscritta piena di dubbi a un sito di incontri online da sei mesi, dopo averci pensato per altrettanti, ma una volta entrata in quel meccanismo di gratificazioni e delusioni continue, non era più riuscita a uscirne. Rosa aprì il suo profilo sotto il falso nome di Giulietta e sorrise, come faceva sempre guardando l’immagine che aveva scelto. All’inizio aveva pensato di usare una sua foto di dieci anni prima, ma il terrore che qualcuno la riconoscesse l’aveva spinta a preferire un’immagine trovata su internet. Era quella di una donna di poco più di cinquant’anni, capelli biondi, con un fisico asciutto e l’aspetto di una persona determinata. Un viso anonimo, ma un bel sorriso e gli occhi chiari come i suoi. In effetti un po’ le somigliava, a parte il colore dei capelli, ma il rosso le era sembrato troppo personale. Anche il seno era diverso, quello nella foto era rigoglioso, sottolineato da una scollatura generosa ma non sfacciata, mentre il suo petto era quasi piatto. Si era pentita spesso di quella scelta, perché gran parte dei messaggi che riceveva rimarcavano proprio quello specifico aspetto, in modo più o meno volgare, ma ormai era troppo tardi per cambiare e, in fondo, in qualche caso quei commenti l’avevano divertita. Con qualcuno aveva perfino giocato un po’, stupendosi della sua capacità di provare ancora desiderio alla sua età, dopo una vedovanza casta di vent’anni e una menopausa dolorosa che le provocava ancora vampate bollenti e sudore freddo quasi tutti i giorni. Nessun uomo, nessun compagno e neppure un piacere solitario per tutto quel tempo. L’unico affetto era stato il suo cane Tommy, che ora però non c’era più e gli mancava immensamente. Aveva mentito sull’età, indicando cinquantasei anni, togliendosene quindi una decina, ma nessuno se ne sarebbe accorto. Non aveva mai pensato di incontrare realmente qualcuno e le conversazioni che intratteneva erano quasi tutte virtuali. Con un paio di persone si era spinta fino a qualche chiacchierata al telefono, consapevole che la sua voce aveva ancora un tono giovanile, ma aveva sempre rifiutato categoricamente le richieste di videochat o di appuntamenti, con il risultato che le sue frequentazioni duravano pochi giorni. Spesso i messaggi di addio erano offensivi, pieni di rabbia e frustrazione, a volte addirittura sarcastici, solo pochi uomini erano stati gentili e rispettosi. Era certa che di nessuno di loro avrebbe mai sentito la mancanza, soprattutto da quando era comparso Sergio. Lui era diverso, lo era stato fin dal primo momento. Era educato, gentile, sensibile, mai insistente. Era l’unico con cui intratteneva un rapporto quotidiano da quasi due mesi. Non si erano mai parlati al telefono, ma avevano uno scambio fitto di messaggi e molti pomeriggi li avevano passati insieme, anche se virtualmente. Era un bell’uomo, almeno da quello che si poteva vedere nelle due foto che aveva pubblicato. Più giovane di lei di una decina d’anni, anzi, più giovane di quella che lui pensava fosse la sua età. Era divorziato, con una figlia grande che viveva all’estero con la madre. Non aveva capito che attività svolgesse esattamente, era qualcosa che aveva a che fare con i computer, ma sicuramente aveva molto tempo libero, soprattutto dopo pranzo, quando evidentemente non lavorava. Era stato l’unico con il quale aveva parlato di libri, cinema, viaggi e sogni. Non che lei fosse una donna di grande cultura, ma se si paragonava alle persone che di solito la contattavano, allora si sentiva cinque gradini sopra, come le piaceva affermare con il suo miglior tono ironico quando conversava con Sergio. E lui almeno venti, perché sapeva sempre molto di più. Non era mai stato invadente, non aveva mai chiesto nulla della sua vita privata, del lavoro o della sua situazione sentimentale. Lei aveva accennato qualche volta a suo marito, gli aveva detto che era mancato tempo fa e aveva lasciato trapelare qualcosa sulla città nella quale viveva. Per un motivo che non sapeva, non gli aveva mai parlato di Tommy. Quando era morto, gli aveva detto che era mancata una sua zia alla quale era affezionata. Una menzogna banale e senza senso, che non avrebbe mai retto a un incontro faccia a faccia, ma più che sufficiente per il loro rapporto. Sergio era anche un uomo sensuale, con grande fantasia e virilità, e qualche volta si erano lasciati andare ad alcuni momenti di pura follia, ma nell’incontro virtuale successivo lui non ne aveva mai approfittato, anzi non ne aveva mai fatta menzione. Era stato cordiale, simpatico e dolce come sempre. Lei trovava quel comportamento da un lato poco comprensibile e dall’altro, forse proprio per lo stesso motivo, incredibilmente affascinante. Rosa spostò lentamente il mouse e fece doppio click. Ora i messaggi erano diventati due, uno dei quali di Sergio. Aprì l’altro, con un sentimento in bilico fra curiosità e rassegnazione.

    Ciao Giulietta, ho visto la tua foto. Scusa se te lo dico, ma le tue tette mi hanno fatto sballare. Ti va se stabiliamo un contatto? Bacio (ovunque vuoi tu). Lattaio44.

    Eccolo, un altro idiota, pensò Rosa cancellando la mail e bloccando Lattaio44. Il messaggio di Sergio era molto più lungo. Raccontava la sua giornata, soffermandosi sui dettagli, come era solito fare, e su ogni particolare che lo emozionava. Rosa adorava quel suo modo di vivere la vita con intensità. Gli veniva sempre in mente L’attimo

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