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Ancora gocce di fantasia
Ancora gocce di fantasia
Ancora gocce di fantasia
E-book198 pagine2 ore

Ancora gocce di fantasia

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Il libro è il seguito di “Gocce di fantasia “ed è una raccolta di ventinove racconti brevi di vario genere: dal giallo alla fantascienza, dall’attualità all’avventura, intervallati da qualche favola che risulta di piacevole lettura anche per un adulto. Leggendolo, Vi troverete proiettati in un mondo simile alla terra o proverete le emozioni di chi, suo malgrado sarà spedito sulla terra, conoscerete chi può contare su un affetto ultraterreno, chi ha paura dei topi, chi esagera con la critica, chi soffre per la fine di una particolare carriera , chi si farà beffe di un ladro, chi si angoscia per un cane che ha perduto o gioisce per averne trovato un altro e…be, lo scoprirete da soli .Scritte quale riflesso della realtà, d’un evento odierno, di una vicenda personale o scaturite dalla visione di un volto o di una situazione bizzarra, queste novelle non mancheranno di avvincervi ,commuovervi, sorprendervi e suscitarvi un sorriso.
LinguaItaliano
Data di uscita25 mar 2020
ISBN9788831664974
Ancora gocce di fantasia

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    Anteprima del libro

    Ancora gocce di fantasia - Nicoletta Niccolai

    www.li­brie­fa­vo­le­di­ni­ki.com

    Quel che resta di una vita

    Già nel sa­li­re la pri­ma ram­pa di sca­le quell’acre odo­re, che le sa­reb­be ri­ma­sto ap­pic­ci­ca­to al­la men­te per più di un me­se, le in­va­se le na­ri­ci. Sul pia­ne­rot­to­lo si apri­va­no quat­tro por­te, ma non fu dif­fi­ci­le tro­va­re quel­la giu­sta per­ché era sbar­ra­ta con na­stro bian­co e ros­so e, nel cen­tro, l’au­to­ri­tà vi ave­va af­fis­so quel car­tel­lo av­vi­san­te che den­tro quell’ap­par­ta­men­to era av­ve­nu­to un tra­gi­co fat­to.

    Mau­ro pro­vò un pa­io di chia­vi, aprì e pre­ce­det­te Lu­cia­na lun­go lo stret­to, atrio.

    Aspet­ta qui, va­do ad apri­re una fi­ne­stra.

    Lei cer­cò di guar­dar­si at­tor­no ma la pe­nom­bra le per­mi­se so­lo di as­si­cu­rar­si di non sbat­te­re con­tro un ta­vo­li­no di cri­stal­lo pie­no zep­po di og­get­ti­ni di mi­nu­sco­le di­men­sio­ni.

    Il puz­zo di fu­mo lì den­tro era co­sì for­te da ser­rar­le la go­la. Una fo­la­ta d’aria fre­sca e l’ar­ri­vo del­la lu­ce la rin­cuo­rò ma la tri­stez­za la in­va­se di nuo­vo nel co­sta­ta­re co­me era ri­dot­to quel luo­go che un tem­po po­te­va de­fi­nir­si da per­so­na più che agia­ta. Non era per le tap­pa­rel­le per me­tà di­vel­te dai Vi­gi­li del fuo­co, né per il vi­si­bi­le pas­sag­gio di chi ave­va pro­va­to a soc­cor­re­re e nep­pu­re per i se­gni del fuo­co per­ché in quell’am­pis­si­ma stan­za che fun­ge­va da sa­lot­to e sa­la da pran­zo, l’in­cen­dio non era ar­ri­va­to se non con l’odo­re. Era per il caos che vi re­gna­va, di si­cu­ro da an­ni, ve­sti­ti sui di­va­ni in­sie­me a cio­to­le e gio­chi­ni del ca­ne. Sab­bia del­la gab­bia dei ca­na­ri­ni in por­ta­ce­ne­re che con­te­ne­va­no di tut­to e… il ta­vo­lo col­mo di po­sta, bol­let­te, car­te, li­bri, po­sa­te, sca­to­le di ci­bo… o mam­ma mia com’è brut­ta ed av­vi­len­te una vec­chia­ia pas­sa­ta da so­li o con chi, in­ve­ce di aiu­tar­ti, ti sfrut­ta.

    Lu­cia­na non ave­va co­no­sciu­to be­ne quel­la pa­ren­te ac­qui­si­ta. L’ave­va sen­ti­ta spes­so per te­le­fo­no e l’ave­va in­tra­vi­sta ad un fu­ne­ra­le, se la ram­men­ta­va gros­sa nel vi­sto­so cap­pot­to az­zur­ro, ar­ran­can­te su gam­be mal­fer­me, con ca­pel­li trop­po ne­ri per la sua avan­za­ta età e gli oc­chi ce­la­ti da enor­mi oc­chia­li scu­ri. Ep­pu­re sua suo­ce­ra di­ce­va che la so­rel­la, da gio­va­ne, ave­va fat­to gi­ra­re la te­sta a non po­chi ra­gaz­zet­ti del pae­se.

    Vie­ni?

    Si scos­se e se­guì il ma­ri­to nel cor­ri­do­io che por­ta­va al­la zo­na not­te. Lì sì che c’era­no i se­gni del di­sa­stro. Un ar­ma­dio no­ce chia­ro, qua­dri, pa­re­ti e pa­vi­men­to scu­ri­ti da una pa­ti­na gri­gia muc­chiet­ti di ce­ne­re e una por­ta vi­si­bil­men­te lam­bi­ta dal­le fiam­me e la stan­za da let­to…. Dio, per for­tu­na ave­va al­le spal­le un me­stie­re che le ave­va fat­to toc­ca­re le atro­ci­tà del­la vi­ta al­tri­men­ti, si sa­reb­be sen­ti­ta ma­le. Dell’ele­gan­te am­bien­te sti­le ve­ne­zia­no (quel­lo con i mo­bi­li bian­chi e do­ra­ti) non era ri­ma­sto che un am­mas­so con­tor­to ed af­fu­mi­ca­to. Il let­to, il co­mò, la pol­tro­na, il di­va­net­to era­no muc­chi in­di­stin­gui­bi­li e di un uni­co scu­ro co­lo­re, la vio­len­za del­le fiam­me ave­va fat­to de­for­ma­re an­che me­tal­lo e ve­tro.  Si mor­mo­ra­va che la don­na fos­se mor­ta nel son­no, sof­fo­ca­ta dal fu­mo, sta­va, co­me di con­sue­to, fu­man­do, si era ad­dor­men­ta­ta gra­zie an­che ai far­ma­ci di cui non po­te­va più fa­re a me­no e quel­la brut­ta abi­tu­di­ne era sta­ta la sua con­dan­na. Lu­cia­na pe­rò ave­va dei dub­bi su quel­la ri­co­stru­zio­ne dei fat­ti per­ché sa­pe­va che l’an­zia­na era stan­ca, sfi­du­cia­ta ma­la­ta e, so­prat­tut­to, si sen­ti­va so­la.

    Usci­ro­no dal lo­ca­le e s’in­ter­ro­ga­ro­no con lo sguar­do:

    Da do­ve ini­zia­mo?

    Lo­ro era­no gli uni­ci con­giun­ti che ave­va­no avu­to il co­rag­gio di ac­cet­ta­re quell’im­pe­gno, ov­ve­ro: li­be­ra­re quell’ap­par­ta­men­to da ogni co­sa per met­ter­lo a di­spo­si­zio­ne dell’at­tua­le pro­prie­ta­rio. Già, la po­ve­ret­ta ave­va do­vu­to ven­de­re ciò che era sta­to suo e pa­ga­re an­che un af­fit­to.

    De­ci­se­ro di scen­de­re a pren­de­re gli sca­to­lo­ni e i sac­chi che ave­va­no por­ta­to, di ac­ca­ta­sta­re sul bal­co­ne ciò che avreb­be­ro, a col­po d’oc­chio, su­bi­to but­ta­to e poi fa­re una cer­ni­ta da ar­ma­di, con­te­ni­to­ri, sti­pi e cas­se­pan­che per sal­va­re il sal­va­bi­le.

    Il la­vo­ro si ri­ve­lò la­vo­ro lun­go e stan­can­te.

    Si de­di­ca­ro­no agli ar­ma­di, an­ta per an­ta, ri­pia­no per ri­pia­no tol­se­ro ca­pi di ve­stia­rio che sem­bra­va­no ap­par­te­ne­re a ge­ne­ra­zio­ni di don­ne. Pel­lic­ce pre­gia­te ma di mo­del­li ri­sa­len­ti agli an­ni 50, gol­fi­ni e ma­glio­ni per tut­te le oc­ca­sio­ni e di va­rie ta­glie, ve­sti­ti da se­ra e co­mo­di grem­biu­li adat­ti a sfac­cen­da­re in ca­sa, gon­ne, ve­sta­glie e, ovun­que, ri­po­sti sem­pre in fon­do e ben pro­tet­ti in sac­chet­ti di pla­sti­ca, go­mi­to­li non fi­ni­ti di la­na, co­to­ne, fer­ri un­ci­net­ti e sca­to­le con roc­chet­ti per ri­ca­mo e cu­ci­to. I cas­set­ti si ri­ve­la­ro­no con­te­ni­to­ri di so­gni e ri­cor­di. Tra la bian­che­ria era­no ce­la­ti, car­to­li­ne, piat­ti­ni sou­ve­nir, nin­no­li e ca­ra­bat­to­le che pa­re­va­no es­se­re ap­par­te­nu­ti a una bam­bi­na.

    Quan­do fi­ni­ro­no di riem­pi­re tut­ti gli sca­to­lo­ni che ave­va­no por­ta­to, si guar­da­ro­no at­tor­no e com­pre­se­ro di es­se­re nep­pu­re a me­tà dell’ope­ra per cui de­ci­se­ro di fa­re una pau­sa, scen­de­re a man­giar­si un pa­ni­no, por­tar su al­tri con­te­ni­to­ri e ri­pren­de­re in fret­ta il la­vo­ro pri­ma che ca­las­se la se­ra.

    Ci mi­se­ro po­co, dal­la par­te op­po­sta del­la stra­da c’era­no un bar e una piz­ze­ria e, aven­do op­ta­to per toa­st e caf­fè se la ca­va­ro­no in una quin­di­ci­na di mi­nu­ti.

    Men­tre sta­va­no per ria­pri­re il por­to­ne con le brac­cia ca­ri­che di sac­chi e sca­to­le di car­to­ne, fu­ro­no af­fian­ca­ti da un an­zia­no si­gno­re che, ve­den­do­li, si era af­fret­ta­to ad usci­re dal suo ne­go­zio di par­ruc­chie­re.

    Sie­te i pa­ren­ti del­la si­gno­ra Ma­ri­nel­la?

    Sì, io so­no Mau­ro, il ni­po­te

    Oh, ce­ro… co­me mi di­spia­ce, po­ve­ra si­gno­ra la co­no­sce­vo da una vi­ta e… oh era ri­dot­ta pro­prio ma­le, no, non in­ten­do fi­si­ca­men­te, e che era la­scia­ta so­la. Sì ave­va la ba­dan­te ma, quel­la ba­da­va so­lo ai pro­pri in­te­res­si e a quel­li del fi­dan­za­to…un ubria­co­ne… Io cre­do che quei due ab­bia­no fat­to spa­ri­re un sac­co di ro­ba e..

    Lu­cia­na lo in­ter­rup­pe chie­den­do­gli del ca­ne.

    Oh, il ca­gno­li­no sta be­ne se ne sta pren­den­do cu­ra una bra­va ra­gaz­za, dor­mi­va in sa­la sul di­va­no, un po’ stra­no per­ché di so­li­to era sem­pre sul let­to con lei e, an­che gli uc­cel­li­ni se la so­no ca­va­ta e, vi di­ce­vo che la don­na che….

    Mau­ro in­ter­rup­pe quel­la fiu­ma­na di chiac­chie­re con la scu­sa, che poi non era ta­le, che ave­va­no po­co tem­po, nell’ap­par­ta­men­to era sta­ta tol­ta, per ra­gio­ni di si­cu­rez­za, la cor­ren­te elet­tri­ca e lo­ro ave­va­no quin­di an­co­ra po­che ore di lu­ce a di­spo­si­zio­ne.

    Mi do­man­do co­sa ha fat­to per lei quel­lo che la co­no­sce­va da una vi­ta sbuf­fò Lu­cia­na sa­len­do le sca­le.

    Per­ché, co­sa han­no fat­to e co­sa stan­no fa­cen­do i miei pa­ren­ti? Lo­ro vi­vo­no qui, non a cen­ti­na­ia di chi­lo­me­tri co­me noi, ep­pu­re, nem­me­no una te­le­fo­na­ta.

    Vab­bè, la­scia sta­re, pe­rò quel­lo che ha det­to quel vec­chio, sai la sto­ria del ca­ne, au­men­ta la mia con­vin­zio­ne che…non sia sta­to un fat­to ac­ci­den­ta­le.

    Lo pen­so an­ch’io.

    Lu­cia­na si pre­se uno sgra­de­vo­le com­pi­to: ri­pu­li­re la cu­ci­na, per quel­lo che po­te­va fa­re sen­za ac­qua cal­da. Aprì tut­ti gli ar­ma­diet­ti, tol­se sto­vi­glie e pen­to­le spor­che e ma­leo­do­ran­ti e, sen­za pen­sar­ci un se­con­do, de­sti­nò lo­ro un po­sto nel­le sca­to­le sul bal­co­ne. Il fri­go le fe­ce riz­za­re i ca­pel­li. Do­vet­te apri­re va­set­ti sca­du­ti, svuo­tar­li, la­var­li e poi get­tar­li via, poi sgras­sa­re usan­do olio di go­mi­to e spo­sta­re tut­to per la­va­re an­che il pa­vi­men­to. In­tan­to Mau­ro si de­di­ca­va ai do­cu­men­ti, al­le let­te­re, al­le bol­let­te e agli ap­pun­ti che era­no sul ta­vo­lo da pran­zo.

    Sai… le gri­dò dal­la sa­la …si se­gna­va pro­prio tut­to, ogni cen­te­si­mo che do­ve­va spen­de­re, cre­do pro­prio che non si fi­das­se di nes­su­no. Poi ci so­no tut­ti i re­so­con­ti del­la ban­ca…po­ca ro­ba, la pen­sio­ne, bah, cre­do che il no­van­ta per cen­to di que­ste car­te pos­sa fi­ni­re nel­la spaz­za­tu­ra…hai fi­ni­to?.

    No, mi ci vor­rà an­co­ra una mezz’ora.

    Al­lo­ra io ro­vi­sto nell’ul­ti­mo cas­set­to del­la cre­den­za, do­ve ci so­no le fo­to, vor­rei con­ser­var­ne qual­cu­na.

    Riu­scì a rag­giun­ge­re il ma­ri­to so­lo un’ora più tar­di. Si but­tò, sfi­ni­ta, a se­de­re sul di­va­no. Una fio­ca lu­ce riu­sci­va an­co­ra a fil­tra­re dal­le tap­pa­rel­le, era tar­di, do­ve­va­no chiu­de­re tut­to, ri­con­se­gna­re le chia­vi e sob­bar­car­si un lun­go viag­gio di ri­tor­no.

    Dai, chiu­do que­sta sca­to­la e an­dia­mo le dis­se Mau­ro".

    Lei vi lan­ciò un’oc­chia­ta di­strat­ta e si chi­nò a rac­co­glie­re la fo­to­gra­fia che era in ci­ma al muc­chio. Su uno sfon­do ma­ri­no, una snel­la ra­gaz­za da­gli oc­chi ri­den­ti, mo­stra­va la sua bel­lez­za osan­do, per quei tem­pi, co­prir­si so­lo di un mi­nu­sco­lo bi­chi­ni, In boc­ca, l’im­man­ca­bi­le si­ga­ret­ta.

    Quel che re­sta di una vi­ta so­spi­rò Lu­cia­na.

    Lo Scambio

    Il suo pas­so era di­ven­ta­to pe­san­te. L’avan­za­ta età non ave­va in­tac­ca­to la to­ni­ci­tà del­le sue gam­be, tal­men­te abi­tua­te al mo­vi­men­to che po­te­va af­fer­ma­re di ave­re pas­sa­to la vi­ta cam­mi­nan­do ep­pu­re, quell’ul­ti­mo trat­to che lo se­pa­ra­va dal­la pre­fis­sa­ta me­ta, era ve­ra­men­te osti­co. 

    Gli era sta­to as­si­cu­ra­to che, in quei gior­ni, avreb­be tro­va­to spa­zi di stra­da più tran­quil­la, per­va­sa di se­re­ni­tà e, so­prat­tut­to, sen­za trop­pi osta­co­li ed aspe­ri­tà ed in­ve­ce…ades­so era co­stret­to a cam­mi­na­re qua­si pie­ga­to in avan­ti ma sem­pre con lo sguar­do vi­gi­le e la men­te pron­ta ad af­fron­ta­re qual­sia­si eve­nien­za.  Era un ve­ro esper­to del ge­ne­re uma­no e quin­di era con­sa­pe­vo­le che, sen­za pre­av­vi­so po­te­va in­cap­pa­re in ag­gres­si­vi, fal­si, fur­bi, op­por­tu­ni­sti, mi­se­re­vo­li, su­per­bi e rap­pre­sen­tan­ti di ogni sor­ta di ne­ga­ti­vi­tà in­si­ta in quell’es­se­re che si chia­ma­va uo­mo. 

    Una fit­ta raf­fi­ca di scheg­ge ge­la­te lo col­pì in vol­to ed il suo cuo­re si strin­se pie­no di tri­stez­za. An­co­ra mal­va­gi­tà, odio, pre­giu­di­zi… quan­do sa­reb­be cam­bia­to tut­to in no­ne dell’amo­re? Ep­pu­re Lui ci ave­va pro­va­to. 

    So­spi­rò, s’in­tru­fo­lò in mez­zo ad un in­tri­go di ra­ma­glie pie­ne di spi­ne che cer­cò di scan­sa­re sen­za fe­rir­si le ma­ni. Pos­si­bi­le che non vi fos­se un’al­tra stra­da. Oh che ra­gio­na­men­to bal­za­no, fin dal­la na­sci­ta sa­pe­va che il suo iti­ne­ra­rio sa­reb­be sta­to uni­co, che le va­ria­zio­ni non sa­reb­be­ro mai di­pe­se dal­la sua vo­lon­tà ma, da quel­la de­gli uo­mi­ni e del de­sti­no e che lui non avreb­be po­tu­to far al­tro che ac­cet­tar­le, as­sor­bir­le den­tro se stes­so. 

    Era tal­men­te as­sor­to dal­le sue me­di­ta­zio­ni che qua­si non si ac­cor­se di es­se­re giun­to in un’am­pia ra­du­ra. Fu il sen­so di ca­lo­re, di gio­ia, di fe­sta che gli fe­ce driz­za­re la schie­na. Spa­lan­cò gli oc­chi e, sen­za ces­sa­re d’in­ce­de­re, si beò di quel­le es­sen­ze ra­re e ne im­pre­gnò l’ani­mo. Per­ce­pi­va an­co­ra de­gli spraz­zi di cat­ti­ve­ria e di di­spe­ra­zio­ne ma so­pra di tut­to aleg­gia­va­no, for­tis­si­mi, l’at­te­sa e la fe­de.  Dun­que, non tut­to era per­du­to. For­se quel­la gen­te si po­te­va an­co­ra sal­va­re, se con­fi­da­va nel buon au­spi­cio e nel Cre­do, una va­ria­zio­ne era an­co­ra pos­si­bi­le. Del re­sto, l’uma­ni­tà era sta­ta do­ta­ta d’in­tel­li­gen­za e di fer­vi­da fan­ta­sia, do­ti che, se mes­se al­trui­sti­ca­men­te a di­spo­si­zio­ne del pro­prio pros­si­mo, avreb­be­ro po­tu­to tra­mu­ta­re la Ter­ra nel Pa­ra­di­so ter­re­stre ed in­ve­ce, l’uso più fre­quen­te che que­gli es­se­ri vi­ven­ti ne fa­ce­va­no era a pro­prio be­ne­fi­cio cal­pe­stan­do, so­ven­te, il di­rit­to ed il be­nes­se­re al­trui. 

    Rin­fran­ca­to dal­le po­si­ti­ve sen­sa­zio­ni, di­men­ti­cò la fa­ti­ca e la mar­cia gli ap­par­ve più lie­ve.  Non po­te­va ac­ce­le­ra­re, no, poi­ché la sua fal­ca­ta do­ve­va es­se­re ca­den­za­ta, sem­pre ugua­le ma, si sen­ti­va più leg­ge­ro e me­no in­cli­ne al­la sfi­du­cia. 

    Il viot­to­lo era ri­pe­ne­tra­to nel bo­sco che, pe­rò, si era fat­to me­no fit­to. Guar­dò il se­gna­tem­po: non man­ca­va mol­to for­se… 

    Sì, for­se sfor­zan­do la vi­sta avreb­be po­tu­to scor­ge­re l’al­be­ro. Il fu­sto più an­ti­co del mon­do. 

    L’ave­va co­no­sciu­to una vol­ta so­la ma se lo ri­cor­da­va po­co… ah ah, era mol­to vi­va­ce e   im­pul­si­vo, al­lo­ra. 

    Ram­men­ta­va va­ga­men­te un tron­co gi­gan­te­sco, dal­la cor­tec­cia du­ra e del­le ma­sto­don­ti­che ag­gro­vi­glia­te ra­di­ci e…il pas­sag­gio.  

    Il suo di pas­sag­gio era sta­to ful­mi­neo: dal buio al­la lu­ce, dal nul­la al tut­to. Si chie­se co­me sa­reb­be sta­to ora, te­me­va il va­li­ca­re quel­la por­ta e… se fos­se piom­ba­to in un nien­te sen­za fi­ne? Non po­te­va sot­trar­si all’ine­lut­ta­bi­li­tà: tut­to ciò che pren­de vi­ta è de­sti­na­to a fi­ni­re. 

    Gli al­be­ri, che fian­cheg­gia­va­no la brul­la stra­di­na, pa­re­va aves­se­ro ri­pre­so vi­go­re e co­lo­re, non più in­gri­gi­ti e in­fred­do­li­ti dall’in­ver­no ma, rav­vi­va­ti da me­ra­vi­glio­si co­lo­ri au­tun­na­li, seb­be­ne fos­se sta­gio­ne di ghiac­cio e ne­ve. 

    Il vec­chio at­tri­buì quel­lo stra­no fe­no­me­no al­la vi­ci­nan­za dell’al­be­ro che ave­va il po­te­re di scal­da­re il mon­do, del re­sto era da  quel ve­tu­sto le­gno che tut­to ave­va ini­zio e tut­to ave­va fi­ne nel­la fra­zio­ne di un at­ti­mo. 

    Ec­co­lo, ec­co­lo, là in fon­do cir­con­da­to da pian­te ver­di… al­to, tre­men­da­men­te al­to; al­zan­do gli oc­chi al cie­lo non ne ve­de­va la fi­ne. 

    Lo ave­va ram­men­ta­to be­ne: pro­pag­gi­ni smi­su­ra­te e con­tor­te e un ap­pa­ra­to ra­di­ca­le che, fuo­riu­scen­do dal ter­re­no, da­va l’im­pres­sio­ne di ce­la­re nel suo in­ter­no com­pli­ca­te gal­le­rie e… oh si sen­tì sol­le­va­re, do­vet­te re­si­ste­re per non far­si so­spin­ge­re da: al­le­gria, ot­ti­mi­smo, fi­du­cia, buon au­spi­cio e, in­nan­zi­tut­to, spe­ran­za e…ma, là in fon­do co­sa sta­va suc­ce­den­do. 

    Pro­prio ai pie­di del gran­de tron­co, in una sor­ta di ca­ver­na sca­va­ta nel­la le­gno­sa so­stan­za, si

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