L'altra parte di me
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Anteprima del libro
L'altra parte di me - Klisi Mirashi
Capitolo I
La mia storia inizia diciotto anni fa, esattamente il 16 febbraio del 2003, nella capitale dell’Albania. Sono nato a Tirana, nell’ospedale centrale Madre Teresa di Calcutta, in onore della santa del 20° secolo, orgoglio di ogni albanese. Mio padre, a quell’epoca, lavorava come muratore in Grecia, per l’occasione tornò a casa e mi portò in dono un asciugamano che ancora oggi custodisco gelosamente.
Tirana è la città che ha accolto i miei primi vagiti e in cui ho vissuto i miei primi anni. È una città caotica, con un traffico disordinato, gente in continuo movimento, strade larghe ed edifici che permettono di guardare il cielo. Negli ultimi anni ha avuto un grande sviluppo, così adesso accanto a vecchi palazzi svettano moderni grattacieli.
Da bambino ero una peste. La mia spiccata curiosità mi spingeva a toccare qualsiasi cosa fosse alla mia portata. A volte facevo danni, e quando mia madre mi scopriva, temendola, scappavo perché pensavo mi avrebbe messo in punizione. In realtà lo faceva solo in rarissime circostanze. Generalmente, prima mi ammoniva e poi con calma mi portava a riflettere sulle mie marachelle per coglierne le conseguenze e non ripeterle. Mamma è una donna ancora giovane e bella, dal carattere volitivo e fermo. La contraddistingue uno sguardo determinato e un sorriso dolce. È sempre attenta e non le sfugge mai nulla. È coraggiosa e ottimista. Mi ha sempre dedicato tempo e attenzioni nonostante sia sempre molto impegnata con il lavoro ed io da piccolo fossi un bambino vivace e incorreggibile.
Ero anche un bambino a cui piaceva giocare con le costruzioni Lego e fare i puzzle, ma ero molto bravo anche a costruire oggetti di fantasia. La creatività non mi ha mai fatto difetto. Ricordo che un giorno costruii una torre, così alta che dovetti chiedere aiuto a mia madre per posizionare l’ultimo pezzo in cima, visto che da solo non ci arrivavo. Custodisco ancora una fotografia di quel momento in cui concentrato tento di aggiungere l’ultimo mattoncino in alto senza riuscirci.
Ancora adesso mi piace giocare con i Lego per adulti. Costruisco per lo più macchine e aerei da migliaia di pezzi. A molti potrebbe sembrare un’occupazione noiosa e snervante, ma per me gestire migliaia di piccolissimi mattoncini riesce facile come per altri passeggiare, e poi mi diverte e mi rilassa allo stesso tempo.
Quando vivevo a Tirana solitamente giocavo per le strade del quartiere, in particolare in estate, con due bimbi della mia stessa età, un maschietto e una femminuccia. Loro abitavano di fronte a casa mia. Ogni giorno si ripeteva la stessa routine: mi alzavo trepidante per l’ansia di incontrarli e affrontare una nuova giornata fatta di piccole avventure. Purtroppo il tempo sfuma i dettagli e delle loro fattezze infantili serbo solo un vago ricordo. Rammento però perfettamente la gioia del condividere con loro giochi e avventure. Come in una nebbia rivedo la bambina, molto carina con i suoi capelli neri sciolti sulle spalle e gli occhi bruni. Mi piaceva tanto e ne ero segretamente innamorato. Una cotta fanciullesca, innocente, che mi metteva di buonumore e mi rendeva trepidante e impaziente di giocare con lei.
Entrambi erano bambini bravi e responsabili, gentili e disponibili. Giocavamo a nascondino, a pallone, per ore e ore. Correvamo e gridavamo a perdifiato. Tornavamo a casa sporchi e sudatissimi. Mamma immancabilmente mi spediva direttamente sotto la doccia, temendo che sporcassi gli ambienti di casa che teneva sempre lindi e profumati. Ricordo che a volte li invitavo a casa mia, altre mi invitavano loro per guardare i cartoni in tv, ma più spesso andavo io a cercarli per giocare per strada.
Talvolta, ripensando a loro, mi domando che cosa ne sarà stato delle loro vite, che cosa staranno facendo, come saranno diventati.
Chissà se si ricorderanno ancora di me!
Oggi, ripensando a quei giorni, a quell’età così spensierata, a quei luoghi così lontani nella memoria e al contempo vicini, al modo in cui ero solito divertirmi e a quanto sia cambiata la mia vita da quei tempi, mi pervade una sensazione di profonda nostalgia. Rivivo quei candidi ricordi che a fotogrammi riaffiorano, talvolta nitidi e talora sfuocati, nella mia mente e una dolce malinconia mi prende il cuore.
Talvolta mi sovvengono le numerose pozzanghere che costellavano la strada di casa mia, dopo i frequenti temporali estivi, il tonfo e lo sciabordio che facevano i miei passi nel fango sono un ricordo sonoro ancora argentino nelle mie orecchie.
Ora, all’età di 18 anni, penso che l’età infantile sia trascorsa veloce come il vento caldo di scirocco, che lascia dentro sensazioni di benessere e calore a cui attingere nei momenti difficili, in cui il freddo maestrale imperversa e non dà tregua.
La mia casa, il mio quartiere, Tirana stessa finirono ben presto per essere solo un ricordo perché dovetti partire per l’Italia. Ero davvero piccolo e conservo solo pochi flashback di quella partenza. Ne ignoravo le ragioni. Sapevo solo che sarei andato lontano assieme a mia madre, ma sarei ritornato presto dalla mia adorata sorella e dal mio amato padre che erano rimasti ad aspettarci in Albania. Ignoravo che ci stessimo trasferendo in Italia.
Strana la mia vita di ora, qui in Italia; io sono lo stesso di sempre, ma così diverso da allora. Mi riconosco, ma il tempo ha mutato in me la percezione delle persone e dei luoghi, che sento allo stesso tempo così vicini, ma a volte estranei.
Era la prima volta che viaggiavo fuori dall’Albania. Ricordo vagamente il momento in cui scesi piano le scale della casa a Tirana, mano nella mano con mia madre. Ero eccitato perché avrei fatto il mio primo viaggio. Entrai nella macchina di un mio zio paterno, che ci avrebbe accompagnati in aeroporto. Vidi mio padre che trasportava le valigie e le sistemava nel cofano mentre il fumo della sigaretta che aveva tra le labbra gli disturbava gli occhi. Adesso penso a quella sigaretta come a uno schermo. Cercava un modo per difendersi dalla terribile sensazione di perdita che provava in quel momento. Stavamo partendo e non sapeva quando ci saremmo rivisti. Forse avrebbe avuto voglia e bisogno di piangere, ma non lo fece, con efficienza e pragmatismo si occupò dei bagagli e ci sistemò in auto. Non colsi allora lo sguardo che mamma e papà si scambiarono. Avevo solo quattro anni. Ero un bambino, e per me quel viaggio era una vacanza, una breve parentesi nella mia vita di sempre, ma allo stesso tempo vivevo la confusione di un bambino perso nei suoi perché. Ovvero, perché la mia amatissima sorellina e mio padre non venivano con noi? Perché erano tutti così seri? Perché mamma si sforzava di non piangere?
Ho capito solo più tardi, e dopo tanti altri perché formulati a mia madre, che non avrei rivisto presto come credevo il resto della mia famiglia. Infatti, entrambi ci avrebbero raggiunti in Italia appena io e mia madre ci fossimo sistemati e così la famiglia si sarebbe presto riunita.
Ciò che ignoravo allora è tutto quello che i miei genitori avevano dovuto affrontare fino a quel momento per poter arrivare in Italia.
Inizialmente c’erano state molte difficoltà. Papà