Riscontri. Rivista di cultura e di attualità: N. 2: (Maggio-Agosto 2021)
Di AA. VV
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In questo numero:
- Elogio della disobbedienza tra libertà e tirannide
- L’iperspazio di Dante
- Giacomo Leopardi tra zoroastrismo e ansia di infinito
- Il divario tra realtà e sogno ne "La rigenerazione" di Italo Svevo
- Spigolature zanzottiane. A proposito di echi da Virgilio e Orazio
- King Kong e l’evoluzione dello storytelling cinematografico
- Il poeta filosofo Domenico Giella
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Anteprima del libro
Riscontri. Rivista di cultura e di attualità - AA. VV
AA. VV.
RISCONTRI N. 2 (2021)
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Indice
EDITORIALE
Elogio della disobbedienza tra libertà e tirannide
STUDI E CONTRIBUTI
Giacomo Leopardi tra zoroastrismo e ansia di infinito
La figura del vecchio ringiovanito e il divario tra realtà e sogno ne la rigenerazione di Italo Svevo
Spigolature zanzottiane. A proposito di echi da Virgilio e Orazio e di morti celebri di imperatori romani
King Kong e l’evoluzione dello storytelling cinematografico
OCCASIONI
L’iperspazio di Dante
Il poeta filosofo Domenico Giella e il suo contributo al dibattito post unitario sulla pena capitale
Richiamo irresistibile. Lovecraft tra fonti colte e capolavori del fumetto
Scenari dell’alterità nella scrittura di Lorenza Rocco. Dal saggio critico al ritratto romanzesco di Michele Prisco
MISCELLANEA
Il re non è nudo, è ben nascosto. Misteri nella Monarchia
di Dante
Napoli o morte. L’ultimo Leopardi e i Paralipomeni
Impressioni dal jazz
L’inconscio
, la letteratura e l’ospite inquietante
in Carlo Di Lieto
ASTERISCHI
Contro la pubblicità
RECENSIONI
Una scrittura tra mondo onirico e pensiero finito
Elisabetta Sancino e la silloge poetica il pomeriggio della tigre (Riscontri Poetici 2020)
La suprema arte di arrangiarsi. Girolamo Cardano, Sulla consolazione
Le conversazioni civili di Francesco d’Episcopo
Avventure, gli incontri impossibili di luigi malerba. Raccolta di novelle dalla scrittura comica e fantasiosa per riflettere e divertirsi
Abbonamenti
Novità
Note
Ma se per avere la libertà è sufficiente desiderarla
con un semplice atto di volontà
si troverà ancora al mondo un popolo
che la ritenga troppo cara,
potendola ottenere con un desiderio?
(Étienne de La Boétie)
Tutti i diritti
di riproduzione e traduzione
sono riservati
In copertina:
Leonida alle Termopili
di Jacques-Louis David
(1814)
© 2021 Il Terebinto Edizioni
Sede legale: via degli Imbimbo 8/E
Sede operativa: via Luigi Amabile 42, 83100 Avellino
tel. 340/6862179
e-mail: terebinto.edizioni@gmail.com
www.ilterebintoedizioni.it
Responsabile: Ettore Barra
Registrazione presso il Tribunale di Avellino, n. 2 del 15/03/2018
ANNO XLIII (Nuova Serie IV) - N. 2, MAGGIO-AGOSTO 2021
Periodicità: quadrimestrale
email: direttore.riscontri@gmail.com
sito: www.riscontri.net
EDITORIALE
Elogio della disobbedienza tra libertà e tirannide
Quello della disobbedienza civile è, senza dubbio, un argomento spinoso. Da un lato esso può rischiare, infatti, di sfociare in un discorso anarchico; mentre, dall’altro, una certa disobbedienza di maniera – molto in voga ai nostri tempi – può diventare utile strumento per l’affermazione di un potere tirannico. Probabilmente è anche per questo che difficilmente un corso di educazione civica includerà nel programma il diritto di opporsi.
Nonostante ciò, la facoltà del cittadino di combattere con l’arma della disobbedienza il potere di un governo che si sta rendendo arbitrario rimane – non fosse altro che per il suo valore di deterrente – un requisito fondamentale per il preservamento dello stato di diritto.
Non a caso il pensiero umanistico si è spesso soffermato sul problema della tirannia, anche perché strettamente connesso al tema del libero arbitrio. Tra le opere di maggiore interesse in questo ambito, spicca certamente Il discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie. Un nome, quest’ultimo, sconosciuto ai più nonostante il suo grande contributo allo sviluppo del pensiero occidentale. Umanista francese noto grazie a Montaigne, di cui era amico fraterno, Étienne de La Boétie redasse l’opuscolo all’età di trent’anni, intorno al 1560, ma l’opera fu pubblicata postuma nel 1576 con un’edizione clandestina. Questo il punto di partenza della sua riflessione:
Per ora vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data, non ha potere di nuocere se non in quanto viene tollerato e non potrebbe far male ad alcuno, se non nel caso che si preferisca sopportarlo anziché contraddirlo. È un fatto davvero sorprendente e nello stesso tempo comune, tanto che c’è più da dolersene che da meravigliarsene, vedere milioni e milioni di uomini asserviti come miserabili, messi a testa bassa sotto ad un giogo vergognoso non per costrizione di forza maggiore ma perché sembra siano affascinati e quasi stregati dal solo nome di uno di fronte al quale non dovrebbero né temerne la forza, dato che si tratta appunto di una persona sola, né amarne le qualità poiché si comporta verso di loro in modo del tutto inumano e selvaggio[1].
Secondo l’umanista francese, nonostante la vistosa sproporzione di forze tra un individuo limitato come un tiranno e l’intera popolazione, le cose non cambiano anche in presenza di un potere predatorio – eppure non necessariamente violento – che porta le persone ad accettare di non possedere più «né beni, né figli, né genitori e neppure la propria vita».
La spiegazione, apparentemente logica, che si potrebbe dare di un simile fenomeno è quella della paura delle conseguenze dovute ad un rifiuto. Proprio qui, però, sta la scoperta di Étienne de La Boétie. È veramente possibile, si chiede infatti, che «mille città» e «milioni di uomini» si lascino così facilmente sopraffare per viltà? Evidentemente anche i vizi, come le virtù, hanno dei limiti: «non si può essere vigliacchi fino a questo punto, così come aver coraggio non significa che un uomo si debba metter da solo a scalare una fortezza, attaccare un’armata, conquistare un regno!».
Eppure, quandanche si trattasse di combattere e di farlo ad armi pari, il vantaggio sarebbe comunque dalla loro parte. La vittoria guarderebbe certamente con maggior favore coloro che in battaglia «sperano di ottenere in premio il mantenimento della loro libertà» rispetto ad un esercito di schiavi. Precedenti storici di questo tipo non mancano di certo:
Ripensiamo alle famose battaglie di Milziade, di Leonida, di Temistocle, avvenute duemila anni fa ma ancor oggi così vive nel ricordo dei libri e degli uomini [...] Ebbene domandiamoci: da dove venne a così pochi uomini, come a quel tempo i greci, non dico la forza ma il coraggio di respingere flotte talmente potenti e numerose da coprire il mare, e di sconfiggere così tante nazioni i cui eserciti avevano più capitani di quanto non fossero tutti i soldati greci messi assieme? A mio avviso solo dal fatto che in quelle gloriose giornate non ci fu semplicemente una battaglia di greci contro persiani, bensì avvenne la vittoria della libertà contro la tirannia, della liberazione contro l’oppressione.
Tutto questo quando, fatta eccezione per il caso dell’invasione armata, la deposizione del tiranno non richiede il ricorso alla violenza. Infatti «egli viene meno da solo», a condizione «che il popolo non acconsenta più a servirlo». Il punto non è infatti quello di «sottrargli qualcosa, ma di non attribuirgli niente».
Per certi aspetti, de La Boetie sembra qui anticipare l’idea di contratto sociale
di Hobbes, dove il potere politico fonda la sua legittimità sulla cessione di potere da parte del popolo per porre fine allo stato di natura basato sull’homo homini lupus. La novità più importante sta però nella scoperta del fatto che la tirannia sia sempre espressione del consenso popolare, senza il quale non potrebbe sussistere. Consenso che, senza dubbio, si sostanzia anche di adeguate politiche del terrore, ma che fa leva anche e soprattutto su altre componenti psicologiche. Ovvero su quella libido servendi che agisce nell’animo umano come contraltare della libido dominandi.
Sono dunque i popoli stessi che si lasciano, o meglio, si fanno incatenare, poiché col semplice rifiuto di sottomettersi sarebbero liberati da ogni legame; è il popolo che si assoggetta, si taglia la gola da solo e potendo scegliere fra la servitù e la libertà rifiuta la sua indipendenza, mette il collo sotto il giogo, approva il proprio male, anzi se lo procura.
Verità, questa, ancora più difficile da accettare se applicata alla nostra storia recente. Basti pensare allo scandalo suscitato, a suo tempo, dalla biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice, dove si metteva in evidenza l’amplissimo consenso popolare del Duce. Evidenza ancora oggi indigesta per una cultura – come la nostra – abituata alla pratica dell’autoassoluzione che, non permettendo mai una vera presa di coscienza dei propri errori, ne comporta la costante ripetizione.
Il popolo che sceglie la schiavitù non tiene, inoltre, in conto l’inevitabile escalation del dispotismo, alla quale è possibile mettere fine solo con un semplice atto di volontà:
Siate dunque decisi a non servire mai più e sarete liberi. Non voglio che scacciate il tiranno e lo buttiate giù dal trono; basta che non lo sosteniate più e lo vedrete crollare a terra per il peso e andare in frantumi come un colosso a cui sia stato tolto il basamento.
A questo punto, l’umanista individua subito la centralità dell’educazione alla libertà: «la prima ragione per cui gli uomini servono di buon animo è perché nascono servi e sono allevati come tali». E il tiranno sa bene come le lusinghe di «teatri», «giochi» e «spettacoli» addormentino le coscienze della maggior parte delle persone.
Se, però, «l’origine nascosta del dominio» non risiede né nella forza né nella paura, ma nella libido servendi, qual è il premio cui va incontro il servo? Paradossalmente, la più infelice delle esistenze. Egli deve infatti continuamente mendicare i favori del tiranno, misurare «le parole, la voce, i gesti, gli sguardi», stare sempre «all’erta a spiare ogni suo desiderio» in modo da poterlo preventivamente esaudire.
La nascita del totalitarismo, con i più moderni metodi di coercizione, ha fatto sì che la condizione del servo alla corte del tiranno – da cui Étienne de La Boétie riteneva esclusi contadini e artigiani, tenuti alla semplice obbedienza – venisse estesa alla totalità della cittadinanza.
La richiesta di rinunziare alla libertà, in cambio della garanzia di un altro bene, non può che celare un inganno mefistofelico. Infatti, si può ben dire che una persona, una volta privata della libertà (spirituale prima ancora che fisica e politica), abbia perso già tutto. Incluso quel bene che doveva fungere come contropartita, e che sarebbe stato possibile raggiungere solo preservando il proprio stato di libertà.
Il tiranno, ancora oggi, ragiona esattamente come il grande inquisitore di Dostoevskij ne I fratelli Karamàzov, dove il ritorno di Cristo coincide col suo arresto, giustificato dall’insostenibile peso della libertà. Fardello da cui la popolazione viene sollevata in cambio della sicurezza, per mezzo di una coscienza fittizia che va a sostituire quella di cui ogni persona è naturalmente dotata per il discernimento tra bene e male.
Non appare casuale, quindi, che ormai il concetto stesso di libertà di coscienza – applicato a qualunque ambito della vita, senza eccezioni – incontri un sentimento di forte ostilità in ampia parte della popolazione, la quale è stata indotta a confondere un concetto fondamentale della civiltà giuridica occidentale con la licenza o, come spesso si dice, con la libertà di fare quello che si vuole
, anche a danno degli altri.
Nel nostro tempo, la coscienza sembra essere un lusso che non possiamo più permetterci senza scadere nell’anarchia, o senza precluderci gli obiettivi prefissati. La stessa possibilità che le persone possano mantenere nel loro intimo uno spazio che non si presti alle invasioni dello Stato è per molti una prospettiva inquietante.
Per questo nell’immaginario collettivo non c’è cittadino peggiore di colui che si rifiuti di obbedire ad un ordine palesemente ingiusto per un divieto impostogli dalla coscienza. Ed è questa la ragione per cui, di fronte allo spettacolo del nemico
che per coerenza è disposto a pagare le conseguenze del suo gesto – che siano civili o penali – e che pure potrebbe indurre un sentimento di stima se non di solidarietà, la reazione è molto spesso quella della viva esultanza per la punizione del gesto di libertà. Mentre i più caritevoli auspicano – con ineccepibile stile sovietico – la detenzione di qualunque dissidente in strutture manicomiali.
Il pericolo di un nuovo totalitarismo, che non appare affatto estinto con la fine del socialismo reale, ma che sembra anzi farsi sempre più incalzante e in forme più raffinate dal punto di vista psicologico, dovrebbe porre al centro di una nazione che voglia dirsi libera il tema dell’educazione alla libertà. Anche un Paese con la più antica tradizione democratica non può infatti fare a meno di una massa critica di cittadini che conosca i fondamenti dello stato di diritto e sia pronta a difenderlo con ogni mezzo. Specialmente una volta che siano saltati tutti gli organi di garanzia.
Se in molti casi può risultare difficile capire quando adottare un metodo così estremo come quello della disobbedienza civile, è vero anche che ve ne sono altri così chiari da lasciare pochi spazi al dubbio. Come può essere, come caso di scuola, quello di un governo che operi al di fuori della legge fondamentale e che – per definizione – non agisce più a tutela del bene comune.
Ettore Barra
STUDI E CONTRIBUTI
Giacomo Leopardi tra zoroastrismo e ansia di infinito
La lirica degli esordi
Una rilettura attenta e una disamina obiettiva della produzione poetica di Giacomo Leopardi, ispirata ai più recenti orientamenti della critica, rivela una visione nuova e inedita del poeta romantico per antonomasia dell’Ottocento letterario italiano. Il poeta recanatese, per la sua sensibilità profonda e straordinaria, non solo non ebbe una visione materialistica
o atea
dell’esistenza – come spesso la critica tradizionale ci ha abituato a ritenere – ma non fu neppure un nichilista
, nel senso di totale azzeramento della vita umana al nihil. Al contrario, come si evince da una meticolosa indagine critica, applicata ai pensieri dello Zibaldone, alle prove poetiche giovanili fino ai Canti della maturità, trascinò la sua esistenza attraverso una religiosità complessa e tormentata. Il poeta subì l’influsso del Sensismo e del Materialismo ma l’orientamento materialistico non intralciò la sua forte dimensione spirituale[1].
Leopardi non negò mai l’esistenza di Dio ma ci offre una sua visione complessa e poliedrica, presenza ricorrente nei suoi pensieri diffusamente profusi nei fitti appunti dello Zibaldone, a partire dal 1820. Ma attraverso la successiva evoluzione del pensiero leopardiano, dal pessimismo storico al pessimismo cosmico, si passa dalla visione di un dio del bene, identificato nella Natura benigna
, dispensatore di gioie, a un dio del male o Natura matrigna
, causa e origine dei dolori per l’uomo e per tutti gli esseri animati che popolano la terra.
Tuttavia, ogni individuo, attivando le potenti facoltà della propria immaginazione, può costruire
un’immagine divina, quale entità trascendente la realtà fenomenica, relativa e mutevole, che è sostanzialmente un’Idea di Infinito nel tempo e nello spazio. Leopardi sul problema escatologico e divino fu un relativista
e un possibilista
ma non un agnostico
[2].
Nell’età giovanile, almeno fino al 1819, subì una forte influenza da parte della madre, Adelaide Antici, che gli trasmise una visione cupa, modellata sulla Bibbia, soprattutto sull’Antico Testamento, di cui Leopardi fu un attento e assiduo lettore. Vi si delinea l’immagine di un Dio iustus et terribilis, che somiglia tanto al dio Zeus greco, e di una religione basata sul mistero, sulla consapevolezza della vanità delle cose umane, di cui in Qohelet, sulla condanna della ragione che, spazzando via le illusioni, diventa motivo di infelicità per l’uomo.
In una significativa pagina dello Zibaldone del 25 novembre 1820 lo stesso Leopardi parla della religiosità della madre che considerava la morte prematura una fortuna da accogliere con gioia:
Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl’invidiava intimamente e sinceramente, perché questi erano volati al paradiso senza pericoli, e avevan liberato i genitori dall’incomodo di mantenerli [3].
Quella del Leopardi giovane era una visione della religione cristiana filtrata dal mondo degli adulti che lo circondavano, esteriore e ritualistica, influenzata anche dalle letture dei molti libri di devozione presenti nella rifornita biblioteca paterna. Furono quelle letture ad accendere la sua fantasia di bambino, non ancora capace di elaborare un’ideologia critica e personale: «La natura, e l’essenza istessa di un