Riscontri. Rivista di Cultura e di Attualità: N. 3 (SETTEMBRE-DICEMBRE 2020)
Di Riscontri
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In questo numero:
- Retorica della guerra e tecnica dell’emergenza
- Luoghi e tempi nella coscienza di Zeno di Italo Svevo
- Trasgressione, memoria e speculum. Proust e la viseità
- La «guerra dei segni» tra Bisanzio e l’islam. Questione iconoclastica e iconografia sulle monete
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Riscontri. Rivista di Cultura e di Attualità - Riscontri
AA. VV.
RISCONTRI. RIVISTA DI CULTURA E DI ATTUALITÀ
N. 3 (SETTEMBRE-DICEMBRE 2020)
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Indice
EDITORIALE
Retorica della guerra e tecnica dell’emergenza
STUDI E CONTRIBUTI
Luoghi e tempi nella coscienza di Zeno di Italo Svevo
Corrado Alvaro e il paese dell’anima
Trasgressione, memoria e speculum
La «guerra dei segni» tra Bisanzio e l’islam
OCCASIONI
Fiorentino Sullo, un democristiano atipico
Te le do io le donne nude!
MISCELLANEA
L’influsso di Giordano Bruno sull’esperienza giuridica italiana
Il sentimento dell’essere nell’Infinito
Pirandello poeta
ASTERISCHI
Basta con l’Inghilterra e l’inglese
RECENSIONI
Fantasie represse. Due saggi di Lodovico Antonio Muratori sulla mente umana
Un clandestino di nome Francesco
Un(a) fiume di lava. La rivoluzione futurista attingeva energie dalla Sicilia
La felicità nonostante tutto. Gli universi emozionali di Ilaria Caserini
Come si fabbrica una santa. La doppia vita di Maria Maddalena de’ Pazzi
Silenzi e occasioni. Recensione della silloge poetica di Angela Barnaba
L’epica al ritmo del jazz. Il poemetto La Strige
di Dario Rivarossa
La critica letteraria come sacro furore estetico. Gian Pietro Lucini e il suo mondo di Poeta e ribelle nel libro di Isabella Pugliese
LIBRI CONSIGLIATI
Note
In copertina:
Perseo libera Andromeda
di Pieter Paul Rubens (1620)
Tutti i diritti di riproduzione e traduzione
sono riservati
Responsabile: Ettore Barra
Registrazione presso il Tribunale di Avellino, n. 2 del 15/03/2018
Amazon Media EU S.à.r.l. (AMEU), 5 rue Plaetis, L-2338 Luxembourg
Anno XLI (Nuova Serie II) - N. 3, SETTEMBRE-DICEMBRE 2020
Periodicità: quadrimestrale
email: direttore.riscontri@gmail.com
sito: www.riscontri.net
EDITORIALE
Retorica della guerra e tecnica dell’emergenza
«Siamo in guerra!». È quello che, da quasi un anno a questa parte, si sente ripetere da governi e mezzi di informazione. E, va da sé, in guerra si fanno sacrifici. Se non fosse chiedere troppo, sarebbe certamente interessante chiedere a ministri e giornalisti di argomentare storicamente le loro affermazioni. Il pensiero, quando si parla di guerra, va subito all’ultimo conflitto mondiale. Quello che, secondo le stime, ha causato la morte di più di cinquanta milioni di persone. Eppure, nonostante l’inimmaginabile livello di violenza scatenato anche sui civili, a ben vedere, la Seconda Guerra Mondiale – al netto di tutte le limitazioni e le privazioni tipiche di ogni conflitto – non ha congelato la vita delle persone. Ad eccezione dei prigionieri politici, e nonostante i rischi concreti dovuti ai bombardamenti e agli altri pericoli, mai si è disposto il totale confinamento domiciliare dell’intera cittadinanza. A meno di trovarsi in stato di assedio, in guerra è possibile uscire di casa per andare a messa, al bar, dai parenti o per svolgere le proprie attività lavorative (anche quelle di tipo culturale e quindi non necessarie
). Tutte cose che, nell’ambito della pandemia, sono state negate del tutto e restano, tuttora, fortemente limitate. A causa della guerra
.
Oltre al riferimento storico, il concetto di guerra porta con se – anche se in modo alquanto brutale – dei significati filosofici che pure sarebbe interessante approfondire. Il concetto stesso di conflitto implica un noi
contrapposto a un loro
. Se, trattandosi in questo caso di una guerra contro qualcosa privo di anima, com’è un virus, che in quanto tale mal si presta all’attività di propaganda – tipica di ogni guerra – intesa almeno in senso classico, resta comunque da risolvere il problema della nostra identità. Chi siamo, e per cosa combattiamo? Siamo italiani, europei, occidentali? Se sì, con quale declinazione?
Qualche tentativo, piuttosto maldestro, di recuperare il concetto di patria e di relativo sacrificio si è avuto. Ma come mettere in piedi una simile operazione dopo esserci convinti che la parola stessa di patria sia intrinsecamente fascista
e nazionalista
? Complice anche la stucchevole retorica del Ventennio, che ancora oggi ci rende imbarazzanti i più semplici rituali civili come quelli del saluto alla bandiera e dell’inno nazionale (diffidenza che, per esempio, negli Stati Uniti non ha mai avuto motivo di esistere), neanche la pandemia sembra poter riesumare lo spirito patriottico.
È anche vero che, qualora così non fosse, la patria sarebbe ben poco utile ai fini dell’attuale guerra
. L’abnegazione e il sacrificio, richiesti dalla patria, sono possibili solo a patto di infondere coraggio nel petto del cittadino-guerriero, motivandolo fino allo spargimento del proprio sangue per il bene della collettività. Non è però il coraggio, con tutta evidenza, il sentimento inculcato dalla attuale narrazione
politico-mediatica.
Un altro significato che viene associato, per quanto impropriamente, al concetto di guerra è quello di emergenza. Probabilmente il politico che parla di guerra intende piuttosto dire che, considerate la gravità e l’urgenza e della situazione, non è possibile concedere spazio alla dialettica. Un’idea che appare errata in riferimento sia alla guerra che all’emergenza. Per quanto concerne la prima, è facile dimostrare che – per quanto in guerra si tenda a mettere da parte le consuete dinamiche tra maggioranza e opposizione – le democrazie in guerra non sospendono lo stato di diritto, per il semplice fatto che altrimenti non potrebbero più dirsi democrazie. E in ogni regime democratico è data possibilità a tutti di criticare, a torto o a ragione, il governo e quindi di cambiarlo (asserzione, questa, quasi indicibile fino a pochi giorni fa). È ciò che avvenne, proprio nella Seconda Guerra Mondiale, con l’insediamento del governo Churchill nei giorni del crollo del fronte occidentale, con l’invasione tedesca della Francia. Oppure, per restare in Italia, con la disfatta di Caporetto che portò alla decapitazione dei vertici militari e governativi.
Mentre nell’attuale guerra pandemica
sembrano non trovare posto il dissenso e il dibattito, dove alle conferenze stampa si preferiscono di gran lunga le dirette Facebook e la semplice proposta di una diversa gestione del problema si espone facilmente all’accusa di negazionismo
. Parola, questa, così demagogicamente sottratta al suo contesto originario da rendere bene l’imbarbarimento di questo periodo storico.
Cosa dire, invece, delle necessità dovute alla gestione di un’emergenza che, in quanto tale, richiede decisioni drastiche ed urgenti? Il problema di fondo è che l’emergenza è, per sua natura, un momento critico, che può durare giorni, settimane, forse mesi, ma non anni. Quello che dura anni non può più, per definizione, essere un’emergenza ma uno stato calamitoso permanente che consente tutto il tempo per le necessarie riflessioni. Tempo che, per esempio, è stato ampiamente concesso nella pausa estiva dove si sarebbero potute almeno abbozzare le riforme della Sanità e dei Trasporti delle quali – a causa della guerra
e della emergenza
permanente – non è lecito conoscere il destino. Salvo poi scaricare la responsabilità su un popolo stremato dal rispetto delle regole
(si prevede un crollo del PIL del 13%) che, allo stesso tempo, viene accusato di violarle sistematicamente. In un processo accusatorio dove si riconoscono, questa volta sì, i vecchi trucchi della propaganda di guerra, rivolta non più contro il nemico ma contro il proprio popolo in armi
.
Lo stato di emergenza permanente ostacola inoltre l’analisi dei dati. Com’è possibile che, con così tanti tamponi realizzati, non si disponga ancora di uno studio, anche parziale, del flusso
dei contagi? Quando sarebbe utile, dopo quasi un anno, sapere se siano più pericolosi i bar o i ristoranti; il cinema o le biblioteche; le passeggiate o le partite di calcetto. E se siano queste attività effettivamente pericolose ed imputabili, dati alla mano, di aver diffuso il virus in maniera statisticamente rilevante. Mettendo da parte, una buona volta, la contrapposizione tra economia e salute come se si trattasse di due entità distinte e separate. La bancarotta, conseguenza della totale distruzione della nostra economia, avrebbe infatti pesanti conseguenze sulla qualità e sull’aspettativa di vita della popolazione. Come si è già visto di recente, per esempio, nel drammatico caso della Grecia (dove nel 2012, secondo uno studio UNICEF, il 23% dei bambini viveva al di sotto della soglia di povertà) e già, in parte, in Italia con la crisi economica dell’ultimo decennio. Ignorare l’economia, con la prospettiva di chiusure generalizzate e dalla durata indeterminata – della cui utilità il virus si è già fatto beffe, anche in prospettiva di un vaccino che già si annuncia essere non risolutivo – significa precipitare in condizioni da Terzo Mondo. Dove non c’è Sanità, non esistono trasporti e non c’è welfare; con la possibilità di morire anche per la più banale delle cause.
C’è, infine, un altro aspetto altamente problematico dell’emergenzialismo, tutto italiano, che dovrebbe indurre maggiore prudenza nella accettazione, spesso passiva e acritica, della restrizione provvisoria
di libertà costituzionali. E si tratta del fatto che la storia italiana mostra come tutto quello che nasce come provvisorio
ed emergenziale
finisca spesso per diventare definitivo e permanente. «In Italia non c’è nulla di più definitivo del provvisorio e nulla di più provvisorio del definitivo», diceva, non a caso, Giuseppe Prezzolini.
Ettore Barra
STUDI E CONTRIBUTI
Luoghi e tempi nella coscienza di Zeno di Italo Svevo
I luoghi della vita di Zeno Cosini
Ettore Schmitz, vero nome di Italo Svevo (pseudonimo che denota la duplice ascendenza, germanica e italiana, dell’autore) nacque a Trieste nel 1861, quando ancora la città faceva parte dell’Impero austro-ungarico. La città natìa eserciterà una funzione molto importante nella formazione umana, culturale e artistica dello scrittore, come egli stesso afferma nel Profilo autobiografico:
per comprendere la ragione di uno pseudonimo che sembra voler affratellare la razza italiana a quella germanica, bisogna avere presente la funzione che da quasi due secoli va compiendo Trieste alla Porta orientale d’Italia: funzione di crogiolo assimilatore degli elementi eterogenei che il commercio e anche la dominazione straniera attirarono nella vecchia città latina[1].
Ma non è sul luogo di nascita che vogliamo soffermare la nostra attenzione in questo breve lavoro. Vogliamo, piuttosto, osservare come, in maniera atipica per un romanzo, i luoghi descritti dall’autore o, meglio, dal personaggio nel quale l’autore stesso si identifica, siano frutto di una rivisitazione compiuta dalla memoria. La coscienza di Zeno, infatti, è un romanzo costruito essenzialmente sui pensieri del protagonista Zeno Cosini. Ci troviamo di fronte a un anti-romanzo, una non-letteratura. Le antiche strutture narrative costituenti, con il loro impianto tradizionale, il classicismo formale della precedente letteratura non fanno parte di quest’opera. Il tentativo di definire la natura
del romanzo di Svevo deve tener necessariamente conto di questa nuova drammaticità (intesa, letteralmente, come sequenza di fatti e di azioni), rispetto alla quale ciò che il romanzo non è vale quasi quanto ciò che esso positivamente è.
Non ci troviamo in presenza di un romanzo psicologico, nel quale le azioni sono rappresentate dagli stati d’animo; siamo, bensì, davanti a uno spazio aperto all’analisi, alle supposizioni e, in particolar modo, al ricordo, cioè a una realtà non ancora o non più esistente e, comunque, non oggettivamente definita. I luoghi rievocati nel racconto svolgono sempre, pertanto, una funzione fondamentale per la comprensione della trama, in quanto ricostruiscono, insieme con le azioni, la memoria del protagonista e, dunque, la sua personalità e la sua storia. E la storia e la vita narrate stanno sempre a metà tra la storia e la vita di Ettore Schmitz e quelle di Italo Svevo. Questo particolare metodo di scrittura, dove un’acuta introspezione psicoanaltica domina la materia e lo stile, ha dato vita a un romanzo ricco di sentimenti complessi e contraddittori, osservati e percepiti in una personalità, quella di Zeno/Svevo, abulica e inetta che, secondo l’idea dell’autore stesso, rappresenta l’uomo comune. Quali siano i confini esatti tra verità, memoria e invenzione non sappiamo con precisione; sappiamo, però, che tra questi parametri la memoria è certamente l’elemento che svolge il ruolo centrale nel racconto.
La memoria di Zeno è fondata sul ricordo delle persone e, con esse, dei luoghi dove queste vivono o sono costantemente vissute. Ogni personaggio ha un luogo dove è maggiormente presente, dove svolge le proprie attività e dove sviluppa il proprio io. La famiglia Malfenti (tutte e quattro le sorelle: Ada, Augusta, Alberta, Anna, ma anche il suocero) sviluppa le proprie trame costantemente in salotto, luogo tipico nel quale una famiglia borghese si ritrova a discutere di tutti i problemi inerenti la famiglia: fidanzamenti, matrimoni o piccole discussioni. È vero, si potrebbe obiettare, che Ada e Augusta agiscono anche fuori dalle proprie abitazioni: ma si tratta di un agire statico; in realtà non svolgono nessuna azione reale, hanno, semmai, comportamenti che modificano il pensiero e lo svolgimento dell’azione di Zeno.
La commedia, valutata nei suoi risvolti comici, tragici e grotteschi, nella sua malinconica e involontaria ironia, è liberata dentro il salotto borghese dei Malfenti con una sregolata e puntualissima