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Riscontri. Rivista di Cultura e di Attualità: N. 3 (SETTEMBRE-DICEMBRE 2020)
Riscontri. Rivista di Cultura e di Attualità: N. 3 (SETTEMBRE-DICEMBRE 2020)
Riscontri. Rivista di Cultura e di Attualità: N. 3 (SETTEMBRE-DICEMBRE 2020)
E-book365 pagine2 ore

Riscontri. Rivista di Cultura e di Attualità: N. 3 (SETTEMBRE-DICEMBRE 2020)

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Info su questo ebook

“Riscontri” è una testata unica nel suo genere che si caratterizza per l’approccio globale al mondo della cultura, con articoli di critica letteraria, di storia e di filosofia. Lontana dagli eccessi della specializzazione e al di fuori di ogni condizionamento che non consista nel rigore scientifico e nell’onestà intellettuale dei contributi, la Rivista mantiene da più quarant’anni l’approccio divulgativo che l’ha resa celebre anche oltre i confini nazionali.
In questo numero:
  • Retorica della guerra e tecnica dell’emergenza
  • Luoghi e tempi nella coscienza di Zeno di Italo Svevo
  • Trasgressione, memoria e speculum. Proust e la viseità
  • La «guerra dei segni» tra Bisanzio e l’islam. Questione iconoclastica e iconografia sulle monete

E molto altro ancora
LinguaItaliano
Data di uscita11 gen 2021
ISBN9791220249003
Riscontri. Rivista di Cultura e di Attualità: N. 3 (SETTEMBRE-DICEMBRE 2020)

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    Anteprima del libro

    Riscontri. Rivista di Cultura e di Attualità - Riscontri

    AA. VV.

    RISCONTRI. RIVISTA DI CULTURA E DI ATTUALITÀ

    N. 3 (SETTEMBRE-DICEMBRE 2020)

    UUID: 419a8768-b8ea-47b7-ab6e-3382194225b0

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice

    EDITORIALE

    Retorica della guerra e tecnica dell’emergenza

    STUDI E CONTRIBUTI

    Luoghi e tempi nella coscienza di Zeno di Italo Svevo

    Corrado Alvaro e il paese dell’anima

    Trasgressione, memoria e speculum

    La «guerra dei segni» tra Bisanzio e l’islam

    OCCASIONI

    Fiorentino Sullo, un democristiano atipico

    Te le do io le donne nude!

    MISCELLANEA

    L’influsso di Giordano Bruno sull’esperienza giuridica italiana

    Il sentimento dell’essere nell’Infinito

    Pirandello poeta

    ASTERISCHI

    Basta con l’Inghilterra e l’inglese

    RECENSIONI

    Fantasie represse. Due saggi di Lodovico Antonio Muratori sulla mente umana

    Un clandestino di nome Francesco

    Un(a) fiume di lava. La rivoluzione futurista attingeva energie dalla Sicilia

    La felicità nonostante tutto. Gli universi emozionali di Ilaria Caserini

    Come si fabbrica una santa. La doppia vita di Maria Maddalena de’ Pazzi

    Silenzi e occasioni. Recensione della silloge poetica di Angela Barnaba

    L’epica al ritmo del jazz. Il poemetto La Strige di Dario Rivarossa

    La critica letteraria come sacro furore estetico. Gian Pietro Lucini e il suo mondo di Poeta e ribelle nel libro di Isabella Pugliese

    LIBRI CONSIGLIATI

    Note

    In copertina:

    Perseo libera Andromeda

    di Pieter Paul Rubens (1620)

    Tutti i diritti di riproduzione e traduzione

    sono riservati

    Responsabile: Ettore Barra

    Registrazione presso il Tribunale di Avellino, n. 2 del 15/03/2018

    Amazon Media EU S.à.r.l. (AMEU), 5 rue Plaetis, L-2338 Luxembourg

    Anno XLI (Nuova Serie II) - N. 3, SETTEMBRE-DICEMBRE 2020

    Periodicità: quadrimestrale

    email: direttore.riscontri@gmail.com

    sito: www.riscontri.net

    EDITORIALE

    Retorica della guerra e tecnica dell’emergenza

    «Siamo in guerra!». È quello che, da quasi un anno a questa parte, si sente ripetere da governi e mezzi di informazione. E, va da sé, in guerra si fanno sacrifici. Se non fosse chiedere troppo, sarebbe certamente interessante chiedere a ministri e giornalisti di argomentare storicamente le loro affermazioni. Il pensiero, quando si parla di guerra, va subito all’ultimo conflitto mondiale. Quello che, secondo le stime, ha causato la morte di più di cinquanta milioni di persone. Eppure, nonostante l’inimmaginabile livello di violenza scatenato anche sui civili, a ben vedere, la Seconda Guerra Mondiale – al netto di tutte le limitazioni e le privazioni tipiche di ogni conflitto – non ha congelato la vita delle persone. Ad eccezione dei prigionieri politici, e nonostante i rischi concreti dovuti ai bombardamenti e agli altri pericoli, mai si è disposto il totale confinamento domiciliare dell’intera cittadinanza. A meno di trovarsi in stato di assedio, in guerra è possibile uscire di casa per andare a messa, al bar, dai parenti o per svolgere le proprie attività lavorative (anche quelle di tipo culturale e quindi non necessarie). Tutte cose che, nell’ambito della pandemia, sono state negate del tutto e restano, tuttora, fortemente limitate. A causa della guerra.

    Oltre al riferimento storico, il concetto di guerra porta con se – anche se in modo alquanto brutale – dei significati filosofici che pure sarebbe interessante approfondire. Il concetto stesso di conflitto implica un noi contrapposto a un loro. Se, trattandosi in questo caso di una guerra contro qualcosa privo di anima, com’è un virus, che in quanto tale mal si presta all’attività di propaganda – tipica di ogni guerra – intesa almeno in senso classico, resta comunque da risolvere il problema della nostra identità. Chi siamo, e per cosa combattiamo? Siamo italiani, europei, occidentali? Se sì, con quale declinazione?

    Qualche tentativo, piuttosto maldestro, di recuperare il concetto di patria e di relativo sacrificio si è avuto. Ma come mettere in piedi una simile operazione dopo esserci convinti che la parola stessa di patria sia intrinsecamente fascista e nazionalista? Complice anche la stucchevole retorica del Ventennio, che ancora oggi ci rende imbarazzanti i più semplici rituali civili come quelli del saluto alla bandiera e dell’inno nazionale (diffidenza che, per esempio, negli Stati Uniti non ha mai avuto motivo di esistere), neanche la pandemia sembra poter riesumare lo spirito patriottico.

    È anche vero che, qualora così non fosse, la patria sarebbe ben poco utile ai fini dell’attuale guerra. L’abnegazione e il sacrificio, richiesti dalla patria, sono possibili solo a patto di infondere coraggio nel petto del cittadino-guerriero, motivandolo fino allo spargimento del proprio sangue per il bene della collettività. Non è però il coraggio, con tutta evidenza, il sentimento inculcato dalla attuale narrazione politico-mediatica.

    Un altro significato che viene associato, per quanto impropriamente, al concetto di guerra è quello di emergenza. Probabilmente il politico che parla di guerra intende piuttosto dire che, considerate la gravità e l’urgenza e della situazione, non è possibile concedere spazio alla dialettica. Un’idea che appare errata in riferimento sia alla guerra che all’emergenza. Per quanto concerne la prima, è facile dimostrare che – per quanto in guerra si tenda a mettere da parte le consuete dinamiche tra maggioranza e opposizione – le democrazie in guerra non sospendono lo stato di diritto, per il semplice fatto che altrimenti non potrebbero più dirsi democrazie. E in ogni regime democratico è data possibilità a tutti di criticare, a torto o a ragione, il governo e quindi di cambiarlo (asserzione, questa, quasi indicibile fino a pochi giorni fa). È ciò che avvenne, proprio nella Seconda Guerra Mondiale, con l’insediamento del governo Churchill nei giorni del crollo del fronte occidentale, con l’invasione tedesca della Francia. Oppure, per restare in Italia, con la disfatta di Caporetto che portò alla decapitazione dei vertici militari e governativi.

    Mentre nell’attuale guerra pandemica sembrano non trovare posto il dissenso e il dibattito, dove alle conferenze stampa si preferiscono di gran lunga le dirette Facebook e la semplice proposta di una diversa gestione del problema si espone facilmente all’accusa di negazionismo. Parola, questa, così demagogicamente sottratta al suo contesto originario da rendere bene l’imbarbarimento di questo periodo storico.

    Cosa dire, invece, delle necessità dovute alla gestione di un’emergenza che, in quanto tale, richiede decisioni drastiche ed urgenti? Il problema di fondo è che l’emergenza è, per sua natura, un momento critico, che può durare giorni, settimane, forse mesi, ma non anni. Quello che dura anni non può più, per definizione, essere un’emergenza ma uno stato calamitoso permanente che consente tutto il tempo per le necessarie riflessioni. Tempo che, per esempio, è stato ampiamente concesso nella pausa estiva dove si sarebbero potute almeno abbozzare le riforme della Sanità e dei Trasporti delle quali – a causa della guerra e della emergenza permanente – non è lecito conoscere il destino. Salvo poi scaricare la responsabilità su un popolo stremato dal rispetto delle regole (si prevede un crollo del PIL del 13%) che, allo stesso tempo, viene accusato di violarle sistematicamente. In un processo accusatorio dove si riconoscono, questa volta sì, i vecchi trucchi della propaganda di guerra, rivolta non più contro il nemico ma contro il proprio popolo in armi.

    Lo stato di emergenza permanente ostacola inoltre l’analisi dei dati. Com’è possibile che, con così tanti tamponi realizzati, non si disponga ancora di uno studio, anche parziale, del flusso dei contagi? Quando sarebbe utile, dopo quasi un anno, sapere se siano più pericolosi i bar o i ristoranti; il cinema o le biblioteche; le passeggiate o le partite di calcetto. E se siano queste attività effettivamente pericolose ed imputabili, dati alla mano, di aver diffuso il virus in maniera statisticamente rilevante. Mettendo da parte, una buona volta, la contrapposizione tra economia e salute come se si trattasse di due entità distinte e separate. La bancarotta, conseguenza della totale distruzione della nostra economia, avrebbe infatti pesanti conseguenze sulla qualità e sull’aspettativa di vita della popolazione. Come si è già visto di recente, per esempio, nel drammatico caso della Grecia (dove nel 2012, secondo uno studio UNICEF, il 23% dei bambini viveva al di sotto della soglia di povertà) e già, in parte, in Italia con la crisi economica dell’ultimo decennio. Ignorare l’economia, con la prospettiva di chiusure generalizzate e dalla durata indeterminata – della cui utilità il virus si è già fatto beffe, anche in prospettiva di un vaccino che già si annuncia essere non risolutivo – significa precipitare in condizioni da Terzo Mondo. Dove non c’è Sanità, non esistono trasporti e non c’è welfare; con la possibilità di morire anche per la più banale delle cause.

    C’è, infine, un altro aspetto altamente problematico dell’emergenzialismo, tutto italiano, che dovrebbe indurre maggiore prudenza nella accettazione, spesso passiva e acritica, della restrizione provvisoria di libertà costituzionali. E si tratta del fatto che la storia italiana mostra come tutto quello che nasce come provvisorio ed emergenziale finisca spesso per diventare definitivo e permanente. «In Italia non c’è nulla di più definitivo del provvisorio e nulla di più provvisorio del definitivo», diceva, non a caso, Giuseppe Prezzolini.

    Ettore Barra

    STUDI E CONTRIBUTI

    Luoghi e tempi nella coscienza di Zeno di Italo Svevo

    I luoghi della vita di Zeno Cosini

    Ettore Schmitz, vero nome di Italo Svevo (pseudonimo che denota la duplice ascendenza, germanica e italiana, dell’autore) nacque a Trieste nel 1861, quando ancora la città faceva parte dell’Impero austro-ungarico. La città natìa eserciterà una funzione molto importante nella formazione umana, culturale e artistica dello scrittore, come egli stesso afferma nel Profilo autobiografico:

    per comprendere la ragione di uno pseudonimo che sembra voler affratellare la razza italiana a quella germanica, bisogna avere presente la funzione che da quasi due secoli va compiendo Trieste alla Porta orientale d’Italia: funzione di crogiolo assimilatore degli elementi eterogenei che il commercio e anche la dominazione straniera attirarono nella vecchia città latina[1].

    Ma non è sul luogo di nascita che vogliamo soffermare la nostra attenzione in questo breve lavoro. Vogliamo, piuttosto, osservare come, in maniera atipica per un romanzo, i luoghi descritti dall’autore o, meglio, dal personaggio nel quale l’autore stesso si identifica, siano frutto di una rivisitazione compiuta dalla memoria. La coscienza di Zeno, infatti, è un romanzo costruito essenzialmente sui pensieri del protagonista Zeno Cosini. Ci troviamo di fronte a un anti-romanzo, una non-letteratura. Le antiche strutture narrative costituenti, con il loro impianto tradizionale, il classicismo formale della precedente letteratura non fanno parte di quest’opera. Il tentativo di definire la natura del romanzo di Svevo deve tener necessariamente conto di questa nuova drammaticità (intesa, letteralmente, come sequenza di fatti e di azioni), rispetto alla quale ciò che il romanzo non è vale quasi quanto ciò che esso positivamente è.

    Non ci troviamo in presenza di un romanzo psicologico, nel quale le azioni sono rappresentate dagli stati d’animo; siamo, bensì, davanti a uno spazio aperto all’analisi, alle supposizioni e, in particolar modo, al ricordo, cioè a una realtà non ancora o non più esistente e, comunque, non oggettivamente definita. I luoghi rievocati nel racconto svolgono sempre, pertanto, una funzione fondamentale per la comprensione della trama, in quanto ricostruiscono, insieme con le azioni, la memoria del protagonista e, dunque, la sua personalità e la sua storia. E la storia e la vita narrate stanno sempre a metà tra la storia e la vita di Ettore Schmitz e quelle di Italo Svevo. Questo particolare metodo di scrittura, dove un’acuta introspezione psicoanaltica domina la materia e lo stile, ha dato vita a un romanzo ricco di sentimenti complessi e contraddittori, osservati e percepiti in una personalità, quella di Zeno/Svevo, abulica e inetta che, secondo l’idea dell’autore stesso, rappresenta l’uomo comune. Quali siano i confini esatti tra verità, memoria e invenzione non sappiamo con precisione; sappiamo, però, che tra questi parametri la memoria è certamente l’elemento che svolge il ruolo centrale nel racconto.

    La memoria di Zeno è fondata sul ricordo delle persone e, con esse, dei luoghi dove queste vivono o sono costantemente vissute. Ogni personaggio ha un luogo dove è maggiormente presente, dove svolge le proprie attività e dove sviluppa il proprio io. La famiglia Malfenti (tutte e quattro le sorelle: Ada, Augusta, Alberta, Anna, ma anche il suocero) sviluppa le proprie trame costantemente in salotto, luogo tipico nel quale una famiglia borghese si ritrova a discutere di tutti i problemi inerenti la famiglia: fidanzamenti, matrimoni o piccole discussioni. È vero, si potrebbe obiettare, che Ada e Augusta agiscono anche fuori dalle proprie abitazioni: ma si tratta di un agire statico; in realtà non svolgono nessuna azione reale, hanno, semmai, comportamenti che modificano il pensiero e lo svolgimento dell’azione di Zeno.

    La commedia, valutata nei suoi risvolti comici, tragici e grotteschi, nella sua malinconica e involontaria ironia, è liberata dentro il salotto borghese dei Malfenti con una sregolata e puntualissima

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