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Pandemia Capitale: Postapocalittici&Disintegrati
Pandemia Capitale: Postapocalittici&Disintegrati
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E-book417 pagine6 ore

Pandemia Capitale: Postapocalittici&Disintegrati

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Info su questo ebook

La pandemia del Covid-19 è uno specchio improvvisamente puntato sulla società dell’Antropocene: individui uniti dalla competizione e barricati nei bunker immateriali della virtualità. Una dis-società di post-apocalittici e disintegrati, per parafrasare Umberto Eco. In una permanente emergenza socio-sanitaria, il restyling del «capitalismo delle piattaforme» nella sua vertiginosa crescita, non basta più. Gli autori ricompongono il frammentato quadro di un presente dove il capitale e il valore assestano il colpo di grazia alle risorse umane ed energetiche, tra «lavoro zombie», collasso ambientale e mercificazione delle identità digitali: ultimo stadio di un processo regressivo che necessita di un nuovo inizio. Con la sola certezza che, come appare in una scritta su un muro di Barcellona, «non possiamo tornare alla normalità, perché la normalità era il problema».
LinguaItaliano
Data di uscita23 giu 2021
ISBN9791280124289
Pandemia Capitale: Postapocalittici&Disintegrati
Autore

Leonardo Clausi

Leonardo Clausi (Bassano del Grappa, 1968) è il corrispondente da Londra del manifesto e ha collaborato a varie testate, tra cui L’Espresso e la Rai. È tra i fondatori del Festival of Italian Literature in London. Per i nostri tipi ha pubblicato Uscita di insicurezza. Brexit e l’ideologia inglese (2017).

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    Anteprima del libro

    Pandemia Capitale - Leonardo Clausi

    esplorazioni

    Leonardo Clausi Serafino Murri

    Pandemia capitale

    Postapocalittici e disintegrati

    manifestolibri

    © 2021 manifestolibri La Talpa srl

    Via della Torricella 46

    Castel San Pietro (RM)

    ISBN 979-12-8012-428-9

    www.manifestolibri.it

    book@manifestolibri.it

    In copertina:

    Oleg Agafonov, Crisi economica, graffiti, Shutterstok Inc.

    A

    www.manifestolibri.it

    https://www.Facebook.com/manifestolibri.it

    https://www.instagram.com/manifestolibri/

    @manifestolibri

    https://www.youtube.com/user/ManifestoLibri

    Sono soltanto i superficiali

    che non giudicano dalle

    apparenze. Il mistero del mondo

    è il visibile, non l’invisibile.

    Susan Sontag, Contro l’interpretazione

    Premessa

    Le pagine che seguono sono il risultato di un lavoro continuo e febbrile durato circa due mesi, e svolto, come si suol dire ormai ad nauseam, da remoto. Non sfuggirà al lettore che la critica implacabile del capitalismo delle piattaforme contenuta nelle pagine che seguono, non sarebbe stata possibile senza l’apporto tecnico delle sue infrastrutture digitali, che attraverso la Rete ci hanno permesso di lavorare in contemporanea durante i mesi del lockdown, restando dietro la sterile protezione dei nostri monitor a Roma e a Londra. Ma abbiamo preferito accettare questa patente contraddizione, piuttosto che optare per l’inutile coerenza del silenzio.

    Il primo obiettivo era quello, molto più snello del risultato finale, di un instant book che commentasse a caldo gli accadimenti: ma ne è venuto fuori qualcosa di più denso, che dalla contingenza risale micrologicamente a un’indispensabile riflessione di ampio respiro, soprattutto sul piano economico e critico, dalla cui urgenza non siamo riusciti a esimerci. Il risultato è una modalità di scrittura composita dal vivo: qualcosa a metà strada tra l’iniziale pamphlet e un’analisi critica sistematica dello stato attuale dell’economia globale. Una sorta di jam session ininterrotta (oggi si direbbe seamless, anglicizzando con il gergo della Rete), che non intende dissimulare la sua genesi estemporanea: quella di un lungo piano-sequenza girato senza stacchi e senza sceneggiatura – per così dire, on location.

    Il persistere, o meglio il riproporsi quasi identico della situazione pandemica nel momento in cui il testo sta per essere dato alle stampe, rende questa sua estemporaneità meno effimera e cronachistica di quanto non temessimo quando ci gettammo a capofitto nella scrittura. Dunque, ringraziamo sentitamente l’editore e soprattutto Simona Bonsignori, che pur aspettandosi un libro se non proprio leggero nei contenuti, almeno agile e al passo con la drammaticità vorticosa degli eventi, si è vista recapitare qualcosa di molto diverso, e ha continuato a credere nella sua necessità.

    L.C. E S. M.,

    Roma/Londra, 7 novembre 2020

    Introduzione

    Non con uno schianto,

    ma un colpo di tosse

    Sono io la morte, e porto corona

    Io son di tutti voi signora e padrona

    Ballo in Fa Diesis minore, Angelo Branduardi

    Ciccillo: Laudato sii, o mio Signore,

    pe’ sto santo mondo, che ce vonno campà tutti,

    pure quelli che non ponno.

    Ninetto: amen!

    Da Uccellacci e uccellini, di Pier Paolo Pasolini

    Mai amaro fu più amaro. fermate il mondo, voglio scendere! esclamava Ernesto Calindri nella vetusta réclame televisiva, mentre sorseggiava da un bicchiere, seduto a un tavolino nel mezzo di una strada congestionata dal traffico. Contro il logorio della vita moderna, recitava lo slogan dell’aperitivo a base di carciofo filtrato nell’uso comune. Era l’utopia secondo Carosello, giocosamente rovesciata: non solo s’era mossa, la grande Proletaria di pascoliana memoria: era in piena corsa! Chi avrebbe voluto allora, nell’onda lunga del boom dei consumi dei gloriosi Sessanta, quando crescevamo più della Cina di oggi, metterci i bastoni fra le ruote? forse un misoneista, uno sciocco nostalgico esperto in autolesionismo, sembrava suggerire l’implicito assunto dello spot. Un Pier Paolo Pasolini, o magari un arci-reazionario come guido Ceronetti. Ebbene, eccolo brutalmente preso in parola, il vagheggiar pubblicitario del garbato Calindri. L’appello suo postumo è raccolto quasi mezzo secolo dopo, in quel tardo inverno del 2020 in cui il mondo davvero si è fermato, il logorio sospeso, l’utopia veramente capovolta in distopia, un immenso divario metaforico fra linguaggio e realtà riempito in pochi giorni. Controvoglia, in fila a debita distanza, mascherati e inguantati, siamo tutti dovuti scendere. Non sappiamo ancora esattamente da dove, né come e quando potremo risalire. Quasi dobbiamo reimparare a camminare, figuriamoci a correre, a parte i cosiddetti runner nelle loro buffe guaine colorate, che li fanno sembrare dei pitoni che hanno appena inghiottito se stessi.

    È un procedere a tentoni. Molti di noi sono morti senza poter salutare i propri cari, cauterizzati negli affetti, sterilizzati del più inalienabile dei diritti. Alcuni di noi, come in Cina, forse avranno sviluppato forme agorafobiche. Altri ancora attraversano notti costellate da incubi, o da sogni postmonitori che danno molto da fare agli psicanalisti d’ordinanza dei quotidiani. Così, preceduta dall’epifania critica del 2008 – semplice sua prova costumi –, oltre sessant’anni dopo la festosa esplosione del miracolo economico è arrivata la sorda implosione dell’anti-boom pandemico: una crisi che, tutto in una volta, restituisce il senso a questo termine abusato, che coniuga e trascende l’economico, il sociale e il culturale per farsi antropologica, ecologica, di specie. Dove categorie psicologiche come noi e gli altri hanno improvvisamente perduto le solite inalienabili frontiere, biologicamente spazzate via dalla malattia, solo per vederle restaurare politicamente di corsa, ripartendo, non sia mai nel senso di ripartizione, ma in quello di ripartenza, dopo la tappa imprevista in un viaggio dalla destinazione ormai più temuta che conosciuta. Una crisi, insomma, che mette l’umanità di fronte alla propria paura della morte così come, freudianamente, al proprio recondito suo desiderio. Privatamente però, nel segreto dell’urna delle proprie coscienze. Mentre fuori prosegue implacabile, forsennata, la ricerca di un colpevole. Che deve essere trovato e fatto pubblicamente espiare nelle piazze, che nel frattempo si son fatte digitali, pur restando medievali. Perché a conti fatti, qualunque misfatto umano trova la sua definitività con la ricerca di un capro espiatorio, qualcuno che incarni a posteriori la colpa della catastrofe collettiva. Uno degli sport morali più diffusi in Rete nel mese di marzo 2020, in quello che passerà alla storia come il periodo della crisi economica globale più grave (nonché istantanea) dalla fine della Seconda guerra Mondiale, è stato individuare e giudicare quelli su cui far ricadere il nefasto fardello della responsabilità della propagazione pandemica. Con la rutilante falsa coscienza che è il passaporto obbligato per la presenza predicatoria nei social network, a essere additati con il marchio d’infamia dall’opinione Pubblica orizzontale sono stati soprattutto gli indifferenti: non tanto nel senso gramsciano di coloro che subiscono passivi il peso della storia, quanto piuttosto nel senso degli irresponsabili che non avrebbero preso sul serio gli allarmi che giornali, governi ed enti locali avrebbero lanciato in forma di blanda richiesta facendo appello unicamente al senso civico, ben prima dei drammatici eventi affrontati in seguito tassativamente a suon di decreti governativi. Un esercito di disincantati rivendicatori del diritto del me ne frego, la vita è mia, pseudo-resilienti kamikaze del rito sociale, presto sconfitto (e redento) dall’insorgere delle statistiche mediche da cui si è sprigionata l’attuale maggioranza ossequiosa per cause di forza maggiore. Fatto sta che l’Italia si è ritrovata all’improvviso a detenere un primato spettrale e spaventoso, a partire dall’operosa e modernizzata regione lombarda: quello del paese con più alta e veloce diffusione del virus dopo il paese-focolaio, la Cina (primato durato solo poche settimane, prima dell’entrata nell’agone dei contagi degli Stati Uniti, ma poi strappatole anche dalla Gran Bretagna). Inutilmente si è cercato di stabilire l’itinerario del virus individuando il suo primo portatore, il paziente 0. I primi a pagare lo scotto del dagli all’untore sono stati i prodigiosi empori per la casa dei commercianti cinesi in Italia, costretti a chiudere per improvvisa mancanza di clientela prima che cominciassero i divieti di aggregazione, e che si intonasse il salmo dell’Io resto a casa come inno internazionale della coscienza civile.

    Il fatto è che il paziente zero, quello su cui ricade la responsabilità oggettiva del disastro sanitario e sociale a cui ora ci si trova a far fronte su scala planetaria, è lo spirito dell’antropocene, un’era in cui le conseguenze economiche, ecologiche e politiche del mercato globalizzato ricadono in maniera spietata e impersonale sulle persone più deboli, sul piano fisico come su quello economico, e sul pianeta come spazio antropico vivibile. Quello di un mondo di identità virtuali individualisticamente separate ma costantemente connesse, che si è gradualmente (e totalitariamente) trasferito nelle sue buone intenzioni e nelle sue apparenze di comoda e versatile asetticità tra le falde degli scintillanti template delle piattaforme digitali dell’Infosfera, ideale riparo orizzontale da una realtà produttiva, sanitaria e lavorativa sempre più abbrutita dalle privatizzazioni, dai tagli alle politiche pubbliche del welfare e dallo sfruttamento ad oltranza delle risorse naturali e di quelle umane. Una politica che ha prodotto il risultato di allargare la disuguaglianza tra la popolazione ricca e quella sotto la soglia di povertà fino a farle assumere proporzioni grottesche. Una società globale e globalizzata che ha oltretutto rinunciato alla Storia e alla memoria, archiviando millenni di narrazioni delle gesta umane come inutili anticaglie letterarie e accademiche per vivere nell’illusione di un futuro già diventato Presente in tempo reale, dove poter dissolvere per sempre la fastidiosa idea responsabilizzante del Passato. Un mondo, infine, dove la povertà, accolta a braccia aperte a pari diritto della ricchezza negli anfratti della sconfinata democrazia digitale e delle sue petizioni di principio egalitaristiche acquisibili alla modica cifra di 0,99 centesimi, ha finito per disconoscere se stessa, integrandosi grazie alla sempre più facile soddisfazione dell’unico bisogno primario universalmente riconosciuto: quello di un qualunque device che permetta di restare vivi e presenti nella Rete social-mediale, in una condizione di condivisione scopofiliaca che è il requiem definitivo di ogni barlume di coscienza (e non solo di classe).

    Fin quando non è arrivata la biblica e improvvisa sospensione di questo ordine per ragioni sanitarie. Come il roveto ardente davanti agli occhi abbacinati di Mosè, l’invisibile reso visibile dalla Pandemia è pressoché accecante, cambia il nesso fra il pieno e il vuoto, fra sovraccarico e deficienza. Quegli aeroplani, atterrati come se non ci fosse più un decollo, disciplinatamente in fila, uno sopra l’altro, goffi come l’albatro di Baudelaire a disputarsi uno spazio insufficiente, sono in netto contrasto con lo spazio – altrettanto mai visto prima – degli scaffali dei supermercati vuoti. Che per una volta non sono stati il corollario del fallimento rivoluzionario di un paese latinoamericano che ha cacciato la junta di turno messa lì dalla CIA, o della sopravvivenza miseranda e corrotta del realismo socialista europeo orientale di marca KGB che aveva ispirato il détournement concettuale che Mark Fisher avrebbe capovolto in realismo capitalista, ma gli elementi di una paresi sociosanitaria di proporzioni ineguagliate nella storia, antica o postmoderna che sia. Il fastidioso e ubiquo ricorrere a metafore belliche in ogni lingua e paese per descrivere la strenua lotta al contagio crescente e alle sue vittime – oltre a sancire la rassegnazione con cui nemmeno si tollera soltanto, ma si auspica l’uso della guerra come metodo di risoluzione delle controversie umane –, non tiene conto del fatto che neppure durante l’ultima guerra mondiale la macchina umana si è autosospesa in questo modo e in queste eclatanti proporzioni. Abbiamo preso a nuotare tutti insieme in acque sconosciute, dunque, nonostante le app che coscienziosamente mappano ogni nostro spostamento, e moriamo a frotte per un raffreddore virale nonostante quelle che computano diligentemente le nostre evacuazioni mensili e misurano il nostro battito cardiaco per meglio affrontare la sessione di fitness. Una fitness il cui cretinismo perenne, fin dai tempi della vis aerobica in Vhs della ex rivoluzionaria Jane fonda, ci insegue ora implacabile nella ca(tti)vità domestica, assieme al subitaneo diluvio di spam che promette serenità e sicurezza a base di barili di gel igienizzante e partite di carta igienica – gli accaparramenti della quale nei supermercati hanno finalmente sancito la supremazia della natica nella scala di valori del consumatore – e ai consigli di sopravvivenza di detenuti e astronauti per meglio sopportare se stessi e i propri familiari in quaranta metri quadrati di Italia.

    Naturalmente, quello del Virus è il più fenomenale ed ancestrale dei simboli. Soddisfa qualsiasi ermeneutica, come vedremo più avanti: l’assortimento è imbarazzante. E la sua è l’epoca del cortocircuito simbolico assoluto: dal lavarsi le mani ossessivo che ha perso il tradizionale significato pilatesco per diventare bisogno di purificazione dall’immondizia della colpa, fino al più osceno, che prende la parola cancro e la associa scandalosamente al pianeta. Perché, ammettiamolo, è impossibile non pensarci: con il coronavirus, gaia, il nostro orbe da tempo malato terminale, sta facendo la chemio. E prima che inorridiate credendovi di fronte alla deiezione verbale di un qualche econazi, specifichiamo subito che il cancro non siamo noi, come nemmeno lo è il virus. Il portatore delle metastasi è il Capitale, con la sua supremazia feroce sul lavoro e la sua voracità insaziabile di risorse terracquee. Ora, pur aggrappandosi a tutto l’ottimismo gramsciano della volontà, non c’è bisogno di scomodare un supercomputer per capire che, restando uguale il sistema operativo nonostante l’antivirus abbia fatto cilecca mentre la natalità continua esponenzialmente ad aumentare (i malthusiani che indicano nel controllo delle nascite e nella soppressione dei poveri l’unica via d’uscita dall’incubo futuro saranno trattati in seguito), il passaggio dall’antropocene all’antropocidio – e dunque al suicidio collettivo – è perfettamente tracciato, come una pista d’atterraggio in notturna. Non prima di aver mandato i pensionati di domani a fare una gita con vendita promozionale di pentole su un torpedone dello spazio gestito dal consorzio Virgin/Tesla per il comune di houston, naturalmente. Ficcatevelo in testa: lo sentivate lo sgocciolio nell’immobilità del tempo ritrovato della quarantena? C’è meno ghiaccio in antartide ora, che quando avete temerariamente incominciato a leggere queste pagine. Che le finiate di leggere oppure no, ce ne sarà ancora di meno.

    La situazione presente, si diceva, è quella in cui l’avvicinarsi precipitoso di una fine drammatica è più o meno comprovato da fattori non più soltanto teorico-scientifici, ma empirico-esperienziali, tanto per mettere d’accordo una volta per tutte gli idealisti tedeschi con i pragmatisti anglosassoni. Dragando il fondale dell’oceanografico Slavoj Žižek: ci troviamo in una condizione tale per cui la luce che vediamo improvvisamente in fondo al tunnel dev’essere per forza quella di un altro treno. A questa Pandemia ne faranno ragionevolmente seguito altre, ammoniscono gli scienziati. E bisognerà farvi fronte con i servizi sanitari ridotti al lumicino, e sullo sfondo di catastrofi economico-climatiche prossime venture e già da lunga pezza annunciate. Nell’Italietta degli apericena à gogo, una delle ragioni non del tutto implausibili dell’alto tasso di contagi nazionale è da ricercarsi anche nella totale assenza di inverno di quest’anno, in un’Europa mediterranea che, mentre va inesorabilmente tropicalizzandosi, continua beata a bere spritz sui Navigli. E come darle torto. Dopotutto, ogni Titanic ha la sua eroica orchestrina. E poi, chi farebbe diversamente, ora che oltre alla mezze stagioni sono finite pure le stagioni? La differenza è che la prima era una battuta per ridicolizzare lo small talk, la seconda una raggelante e disperatamente triste verità: tanto che pure ascoltare Vivaldi diventerà, da piacere assoluto che era, un esercizio di memoria doloroso... Troppo brutto, perfino per farci sopra delle battute o dei MEME.

    La società senza classi (per usare il termine sarcastico con cui Thomas Bernhard apostrofava il nostro mondo nel monologo Minetti), è dunque una società che si è liberata del fardello della classe, sostituendolo con i livelli di googleabilità dei singoli e con il numero di followers (seguaci fa troppo Vecchio Testamento) e di visualizzazioni dei contenuti, di fronte all’evidenza sempre più incalzante della differenza estrema, in termini di qualità della vita, tra ricchezza e povertà. E in filigrana a questo quadro virtuale fatto di illusioni, proiezioni desideranti, e malcelate ambizioni a entrare nella sfera degli influencer pagati solo per esistere, appare con un ghigno macabro il peso della separazione definitiva tra individuo e immagine. A differenza della separazione descritta da Debord nella Società dello spettacolo, in questo caso si tratta della separazione non tra l’individuo-spettatore e l’immagine del mondo, ma tra l’individuo in carne ed ossa con i suoi triboli quotidiani, e la propria immagine virtuale: il più compiuto, perfetto e auto-ingannevole concetto di alienazione immaginabile per un essere umano. La separazione tra soggetto e immagine di sé, nella forma di un auto-isolamento inserito nella connessione della Rete, ha portato così all’imposizione/accettazione di un modello di esistenza che appare come una specie di inveramento della distopia raccontata da E. M. Forster nel 1909 in La macchina si ferma (The Machine Stops): un mondo in cui gli esseri umani vivono immobili, chiusi in una prodigiosa macchina che produce realtà, ma hanno del tutto perso la memoria del fatto che si tratti di una macchina, e non della realtà stessa. Scrive Forster:

    abbiamo creato la Macchina perché eseguisse il nostro volere, ma noi ora non riusciamo a farle eseguire il nostro volere. Ci ha privato del senso dello spazio e del senso del tatto, ha offuscato ogni rapporto umano e ha ridotto l’amore a un atto carnale, ha paralizzato i nostri corpi e la nostra volontà, e adesso ci costringe a venerarla.

    Il Giappone contemporaneo ultra-digitalizzato, dall’immobile stagnazione economica ribattezzata Abenomics, soffre, com’è noto, di varie patologie sociali, una delle quali è perfettamente in sintonia col mondo in lockdown: si tratta dell’hikikomori. È così denominato un soggetto tra i venti e i trent’anni d’età, che sceglie di trascorrere periodi lunghi fino a sei mesi nella propria camera, evitando situazioni sociali: un eremita post-moderno che oltre a disordini psichici evidenzia tracce di alienazione tardocapitalistica infantile, in un paese dove non lavorare è più che mai considerato una vergogna. Si ritiene che ce ne siano almeno intorno a un milione, e non solo in giappone. Un fenomeno che estremizza con la cultura dell’intontimento da Pachinko (il micidiale gioco d’azzardo nazionale) quello non meno depressivo della inoccupazione, e cioè la condizione di disoccupati che preferiscono restare tali e affrontare in silenzio le pietre e i dardi dell’oltraggiosa fortuna piuttosto che affrontare l’umiliante giostra dell’inseguimento di un posto di lavoro in un mercato che offre solo una pletora di ridicoli sfruttamenti interinali. Così, il cittadino globale arruolato a forza nell’esercito di adulti infantilizzati e rabboniti dal gaming reale e da quello esistenziale nelle proprie camerette, forzato all’improvviso nello spazio casalingo separato per decreto, costretto da sano a una quarantena fatta di abbandono delle abitudini quotidiane, della libertà di circolare, del poter svolgere il proprio lavoro e ossequiare la sopravvivenza con una costellazione di consumi, ha cominciato a rendersi conto d’un tratto che lo stato di connettività non basta, che non sarà l’abbonamento a un Wi-fi a salvarlo: non c’è piattaforma, Social Network o strumento di messaggistica in grado di colmare il senso di angoscia concreta che si sprigiona nella consapevolezza di essere tutti esposti a un male invisibile e apparentemente stocastico nella scelta delle sue vittime: come direbbe Totò, a prescindere. Il rifugio nella realtà patinata dell’Infosfera è diventato così una fuga alla Second Life nel proprio avatar, senza più contatti con il mondo reale, dove una riacquisita pruderie morale ha momentaneamente trasformato tutti gli user in uomini di buona volontà che riscoprono ex post una solidarietà tra simili che aborrivano fino a qualche giorno prima, e si gettano come volontari in grandi battaglie solidali e campagne virtuali al grido solenne di ave, Digital. Morituri te salutant. Nell’arena della salvezza digitale, di una redenzione ancora una volta fatta di visibilità, il cittadino-gladiatore impiega il tempo della sua quarantena nell’ansiosa ricerca dell’iniziativa più ammirevole a cui aderire (dai film collettivi girati in selfie, alla raccolta di fondi contro il Virus, ai flash-mob canterini sui balconi). Ma dietro il bric-à-brac dell’impegno social-mediale e ai suoi necessari correlati cosmetici fatti di stickers e filtri che smussano le imperfezioni, sta il volto pallido e sgomento del grande e piccolo Capitale, ridotto a contare gli spiccioli nelle tasche della paralisi dei suoi sempre più veloci, pervasivi e consensuali cicli di sfruttamento. Un Capitale produttivo digitalizzato (e ancillare alla Digital Economy), che pencola appeso alle decisioni dei governi di azzerare debiti pubblici e sospendere garanzie e tutele del sacro diritto al libero mercato, dogma dei dogmi protetto finora dall’anatema della scomunica.

    Assistiamo così alla nascita dell’Homo Insipiens, evaso controvoglia dall’evasione, spaventato e disorientato da eventi che lo sovrastano come gli antenati cavernicoli dalla minacciosa potenza improvvisa di tuoni e fulmini, e del suo 41bis interiore, lo spleen di una strana forma di consapevolezza da isolamento: quella di essere in balia di un velivolo che tira dritto per la sua rotta oltre la fine del ondo sugli scenari deserti delle città presidiate dai militari, ma senza pilota, e il cui pilota automatico comincia evidentemente a dare i numeri. Nessun algoritmo riesce a fornire risposte esaustive agli interrogativi esistenziali che si sollevano nella propria casa-cella, in cui si è costretti a fare i conti con la realtà umana che ci si è creati, ma che non si è avuto da troppo tempo la possibilità di fermarsi a guardare in faccia. E accanto alla dilagante ondata dei depressi e iperattivi gladiatori della rete, dolenti per lo scippo ob-legis di una vita IRL (In Real Life) dalla quale in precedenza erano essi stessi a isolarsi non appena se ne presentava l’occasione, nasce a poco a poco quella dei rinati: coloro che sentono questi eventi della Separazione come un gigantesco reset della grande macchina della post-storia, dove si apre improvvisa la prospettiva di tornare con rinnovellata innocenza a stabilire nuovi confini di sé, del mondo e delle sue leggi. Come se la Pandemia, al pari di una nuova Rivelazione, costituisse un passaggio necessario attraverso un obliterante diluvio universale, dove ai salvati, dopo aver opportunamente pianto la perdita dei consimili sommersi, si presentasse l’occasione imperdibile di una tabula rasa dove mettere in discussione tutti i totem e i tabù che hanno costituito i capisaldi etici e autopoietici dell’esistenza occidentale del terzo millennio. Una presa d’atto che andrebbe così, sic et simpliciter, a inficiare tutto il logos razionale (algoritmicamente comprovato da inoppugnabili metrics), che ne costitutiva la sostanza. Questi ultimi, nell’attesa dell’immanente e imminente palingenesi, sono i tanti che riscoprono il piacere dell’esprimersi, prendono lezioni di yoga, di cucina e di musica online, mentre c’è chi ostenta al contrario il duro lavoro di ufficio che è proseguito come un incubo in isolamento nello smart working a ritmi incalzanti, e a onta delle défaillance imposte da cattive connessioni e dagli overload della Rete. Il punto critico di questo isolamento che ha portato alla scoperta della profonda solitudine che anima la vita onlife, è stato però il limite imposto ai consumi: ristoranti, cinema, centri estetici, discoteche, stadi, e tutti gli status symbol del travel blogger incluso l’intero settore turistico, sono diventati da un momento all’altro un antico ricordo, soppiantato dalla dimensione autarchica. Una condizione che ha comportato, oltre alla riscoperta New Age della bellezza di pratiche ancestrali come fare il pane in casa, a un più generale sentimento di mestizia per l’evidente rinunciabilità dell’intera santeria di miti, riti e feticci della società di supermercato. Così, seguendo la scia mistica delle metamorfosi pandemiche, vogliamo azzardare un vaticinio. Il linguaggio storiografico d’occidente si è per secoli espresso in termini di avanti e dopo Cristo – distinzioni entrate solo di recente in crisi, quando l’esistenza di miliardi di non cristiani ha timidamente fatto presente che non ci si poteva più esprimere in quel modo, se si voleva godere della loro attenzione (dacché la proposta di sostituirlo con un più neutro era volgare). A questo punto, non è difficile immaginare che il nuovo spartiacque storico possa essere rappresentato da ben altri prima e dopo, quelli segnati dell’avvento del virus. E che l’entità già mitica delle due fasi, ne suggerisca l’uso con la maiuscola, preferibilmente precedute – per rimarcare l’unica penuria che non c’è, quella dell’enfasi-, dall’aggettivo grande. Il grande Prima e il grande Dopo, dunque, in ossequio al cortocircuito fra primordiale e fantascientifico che l’immagine del Virus porta con sé.

    L’economia di guerra della solitudine, che prende forma in uno scenario desolato che ricorda La strada di McCarthy, è la cornice obbligatoria in cui il Covid 19 ha funzionato da deus ex machina rivelatore della cattiva coscienza del mondo del capitalismo digitale e digitalizzato: un mondo che, come sostiene il direttore del Max Planck Institut di francoforte Wolfgang Streeck, ha trasformato l’economia capitalistica dal keynesismo del dopoguerra in una formula politica opposta, di stampo neo-hayekiano, che punta alla crescita attraverso la redistribuzione dal basso all’alto, non più dall’alto al basso. Sono gli 0,99 centesimi delle nostre app e utilities a sostanziare i fatturati miliardari trimestrali delle Major Companies del digitale (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), oltre alla gigantesca vendita dei nostri dati sensibili gratuitamente concessi per il data mining commerciale. Per questo noi, comici spaventati guerrieri della Rete, ci siamo ritrovati, volenti o nolenti, a essere inconsapevolmente il perno economico di questa apicale transizione dal ciclo produzione-consumo a quello del consumo-produzione di valore. Una transizione radicale, iper-frammentata e per questo sostanzialmente invisibile, il prodotto di una democrazia addomesticata dai mercati che ha ribaltato il patto sociale post-bellico, che vedeva ancora i mercati addomesticati dalla democrazia. È quella che potremmo definire una democrazia dis-egalitaria, una gestione a imbuto di una ricchezza spropositata, esponenzialmente crescente, sempre più chiusa ed elitaria, che sommata allo spettro della dilagante disoccupazione e alla subitanea esclusione di masse di milioni di persone dal ciclo del consumo, ha generato nella ripresa post-pandemica un sentimento rabbioso di profonda iniquità sociale, facendo riaffiorare spinte radicali di opposta tendenza: da un lato la destra populista e postfascista europea, quella dei gilet arancioni e dei forconi negazionisti che manifestano in strada gridando al complotto, dall’altro i collettivi transnazionali antifa (azione antifascista), nati in America nel 2017 come cellule di lotta attiva alle azioni xenofobe di neonazisti e suprematisti bianchi, diffusi e organizzati a macchia d’olio anche nei paesi europei (Italia inclusa), eredi della guerriglia urbana black bloc, che tra luddismo e antagonismo di strada si mobilitano per fare fronte alla dilagante spinta del vecchio che avanza, ma prestano il fianco alle rinnovate infiltrazioni e provocazioni dell’estrema destra e dei servizi segreti: il solito balletto della tensione ridotto a sistema, di servizio a una qualche figura di uomo del destino capace di riportare l’ordine nel caos. Come quello che nell’America della color line ha messo a soqquadro le grandi metropoli dal cuore di Manhattan a Beverly hills: è quantomeno curioso che prendendo come spunto della rivolta l’assassinio razzista del nero George Floyd, manifestanti (in prevalenza bianchi) saccheggino i negozi di Rodeo Drive o della fifth avenue, svuotando le vetrine di Nike e di Macy’s. E ancora più curioso è che tutto il marasma abbia luogo negli USA in piena campagna elettorale, dove Trump, fiaccato dalla débacle della ridicola gestione della crisi pandemica, si propone come uomo forte contro l’innocuo avversario Joe Biden, dato fin dall’inizio in vantaggio nei sondaggi, tentando di sfruttare in maniera supereroica persino il suo ricovero ospedaliero come vittima della seconda ondata del virus. Come dire, nei pretesti, nelle premesse e negli sviluppi: ancora una volta, business as usual.

    Per il comune cittadino globale stordito dagli eventi, che aderisca o prenda le distanze dagli scomposti movimenti spontanei In Real Life, il panico sprigionatosi dall’epidemia di Covid-19 ha funzionato dunque come chiave di lettura della politica, della cultura e dell’economia globale. Una lettura che risuona innocente e perfida al contempo, come le candide parole del bambino di fronte al defilé dell’Imperatore nudo nella fiaba di hans Christian andersen I vestiti nuovi dell’Imperatore: il dito indice puntato verso quell’inganno che da sempre era sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno aveva voglia, tempo o coraggio per contestare fino in fondo. Benché spesso dettata da istanze velleitarie, questa presa d’atto generale costituisce il primo, timido ma deciso scricchiolio del cementificante edificio ultra-quarantennale del Pensiero unico, dell’accettazione assoluta del Capitale come legge autoregolativa esclusiva ed immanente dell’umana convivenza. In questo libro cercheremo di osservare da vicino le ragioni di un simile stato dell’arte, scandagliando le antiche certezze individuali e collettive che questo evento pandemico su scala globale ha finito per smantellare in una manciata di settimane di auto-sospensione e di inversione degli ordini di priorità della vita. Lo faremo a partire dall’analisi delle premesse e dei primi passi del neonato Capitalismo Pandemico, che sta al rischio sanitario come il post-keynesismo del boom economico stava alla guerra fredda e allo spettro della bomba atomica: un capitalismo statalizzato e nazionalista, imperniato sulla paura del prossimo come dispensatore di morte, sulla diffidenza e lo scetticismo elevati a sistema, e su antichi quanto pericolosi concetti immortali del potere come quelli di ordine, sicurezza e limitazione delle libertà personali. Un mondo più liquefatto che liquido, insomma, che ha archiviato la sua versione 1.0, quella delle democrazie liberali, senza conflitti armati, senza genocidi e senza schianti: con un colpo di tosse. Un mondo dal futuro quantomai incerto, soprattutto perché, al di là di rabbia, illusioni e buone intenzioni, come recita la scritta lasciata da un anonimo anarchico su un muro di Barcellona: non possiamo tornare alla normalità, perché la normalità era il problema.

    Parte prima: il virus e il corpo

    Sinfonietta micrologica

    È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo – scriveva non molto tempo fa il compianto Mark Fisher. La frase – mutuata da due titani del post-marxismo contemporaneo come Fredric Jameson e Slavoj Žižek – sarebbe poi diventata la sineddoche del suo piccolo saggio dal titolo Realismo capitalista. Un intervento che – proponendosi lodevolmente di disincagliare il pensiero critico contemporaneo dalle secche di un massimalismo sterile come dal narcisismo delle cause perse con cui si era ormai soliti da anni liquidare qualunque tentativo di fuggire dal bunker nel quale l’umanità è andata alacremente inumandosi dalla Seconda guerra Mondiale in poi, pur sotto una patina di progresso e sviluppo per una sua frazione – rischiava di sancire involontariamente il trionfo dell’avversario per cercare di combattere il quale lo si era scritto. Insomma un intervento, quello di Fisher, che secondo il nostro punto di vista – nonché alla luce della pretesa malcelata di levarsi Hegelianamente al tramonto dell’utopia anticapitalistica, come la ben nota nottola – e nonostante le intenzioni chiaramente opposte dell’autore, non è riuscito a togliere al pensiero critico la sordina di uno sgonfio e tremebondo riformismo, finendo per sancire suo malgrado l’ineluttabilità della società di supermercato, lo stesso di fronte al quale, mentre scriviamo, bisogna fare la fila a debita distanza ed entrare uno alla volta.

    Si sa che del capitalismo non si parla mai. Le pubblicazioni, gli economisti, i giornalisti liberal – un tempo si chiamavano più semplicemente borghesi – lo danno per scontato: è il soggetto sottinteso di ogni asserto ed evento, qualcosa di dato e naturale. Che l’abbia davvero detto Brecht o sia un’attribuzione spuria, importa poco: il capitalismo, di fatto, è un gentiluomo cui non piace sentirsi nominare. Ebbene, ci voleva la paura di massa della morte fisica a trascinarlo non sul banco degli imputati – figuriamoci –, ma almeno in piena luce. Nel frattempo, l’impatto biomedico della Pandemia ha provocato una risposta in tre fasi. La prima è stata quella dell’andrà tutto bene – la frasetta augurale misteriosamente comparsa su alcuni citofoni lombardi all’inizio di marzo. Subito diventata (oltre che un hashtag, un marchio di fabbrica e il titolo di almeno due canzoni pop) il segno vulnerabile di un homo deus che, sbronzo, cade dal trono della singolarità direttamente in bocca a un pericolo ancestrale, ci ha aiutato ben poco a uscire dalle spire di questa paura, semmai l’ha rafforzata come fa ogni scongiuro. Tanto che della paura è prontamente scattata l’operazione di contenimento e soppressione, retrodatata come un assegno, attraverso la fase 2, che definiremmo l’andava tutto bene. Un ripetersi che questo disastro non ha nulla a che vedere con l’innominabile modello che ci siamo dati: che quello che ha generato la Pandemia era comunque il migliore dei mondi possibili, anche se sono così belle l’aria pulita e le città senza traffico. Per poi gettarsi a corpo morto nella terza fase, quella della piena ripartenza: dove tutta la poderosa macchina ideologica dell’occidente si è rimessa in moto per diffondere la falsa notizia.

    Perché con la Pandemia del Covid-19, qualcosa è irrimediabilmente cambiato. È la fine di un’era in cui l’entropia semiotica della Rete era

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