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L'interiorità sovrana
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E-book69 pagine47 minuti

L'interiorità sovrana

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Fra i pochi intellettuali della sua generazione ad abbracciare le istanze di riconquista della sovranità popolare contro l’ideologia europeista e neoliberale, Giampiero Marano opera in questo poliedrico breviario neo-resistenziale – incentrato sulla visione dell’indipendenza nazionale come simbolo e prefigurazione della Liberazione interiore – una ricognizione a tutto campo sulle grandi e reali questioni del nostro tempo.
Si tratta dei temi di dibattito più volentieri elusi, certamente non a caso, dall’establishment politico e mediatico-culturale: i misfatti della globalizzazione, l’incompatibilità radicale fra i trattati europei e la Costituzione, l’attacco senza precedenti alla scuola pubblica, la necessità di ripensare il destino dell’Italia in una prospettiva non più, o non solo, continentale ma soprattutto mediterranea.

Giampiero Marano (1970) ha pubblicato alcuni libri di critica letteraria: La democrazia e l’arcaico (1999), La parola infetta (2003), Dissidenze (2012), Lo splendore delle apparenze (2016).
È redattore della rivista «Appello al popolo» e curatore del blog «Critica italiana».
LinguaItaliano
Data di uscita2 feb 2021
ISBN9788863586343
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    L'interiorità sovrana - Giampiero Marano

    LE NAZIONI

    HANNO UNA LUNGA VITA

    Le maschere di Seattle

    Il 30 novembre 1999 cinquantamila persone sfilano nelle strade di Seattle e manifestano per la prima volta contro la conferenza dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio che si sta svolgendo nella città americana.

    C’è subito chi crede – magari sulla scia di pifferai come Morin o Ramonet – che tale evento, considerato più o meno legittimamente l’atto di nascita del movimento chiamato no global (o, meno spesso, new global), segnerà il punto di svolta della storia, l’avanguardia di una nuova epoca. Ma si tratta di un’illusione infantile, di quelle che avrebbero fatto sorridere maestri di realismo come gli storici greci e latini e i loro allievi Machiavelli, Leopardi, Nietzsche, per i quali il tempo è un cerchio in cui le cose ritornano incessantemente e il Progresso in senso assoluto non esiste.

    A Seattle, osservava a quell’epoca il «Corriere della Sera», alcuni attivisti erano mascherati. L’uso della maschera può essere il sintomo di un bisogno elementare, primordiale di palingenesi che investe sia la società e la politica sia l’io. Ma in questo caso non ci trovavamo al cospetto di una rivoluzione che puntasse direttamente al cuore dell’individualismo moderno e della sua massima emanazione, cioè il progetto di omologazione universale attuato dall’oligarchia finanziaria e dalle multinazionali.

    Oggi sappiamo che quelle maschere nascondevano il vuoto, l’impossibilità di dare forma e contenuto credibili a una protesta vaga e velleitaria, a un mosaico baroccamente composito che comprendeva tutto e il suo contrario: nel nord del pianeta anticapitalisti, libertari, sindacalisti, verdi, neoluddisti, bakuniani, missionari e gruppi new age; nel sud, fellahin egiziani, comunità insorgenti maya, tribù dravida del Kerala.

    La galassia antagonista e altermondialista è soltanto il negativo fotografico, l’ombra fedele da cui sono scortati sia il globalismo sia, in fondo, il golem suo opposto speculare, creato dall’ossessione etnica che riesuma le spoglie del duca Lazar e veglia sull’Europa delle identità regionali contro gli eterni e mitologici spaventapasseri giudaico-saraceni.

    Oggi sappiamo, infine, che l’argine più autorevole al dilagare cancerogeno della glocalizzazione resta pur sempre quello rappresentato dallo Stato nazionale – incautamente dato per morto e sepolto dagli Habermas come dai Negri e dai de Benoist – nella sua qualità di garante della giustizia sociale e del pluralismo politico-culturale.

    La Grande Parodia

    Convinti anch’essi della morte dello Stato, i signori della globalizzazione hanno assaporato a lungo il gusto del trionfo definitivo: la loro hybris feroce, impudente, li ha convinti di essere gli arbitri della vita e del destino comuni, custodi di un universo tecnicamente perfetto ma, alla prova dei fatti, distopico e ogni giorno più maledetto per miliardi di uomini.

    Nell’arco di un quarto di secolo, a partire dai mesi in cui il gigante sovietico si disintegrava con facilità inverosimile, un pugno di sociopatici, burocrati e apprendisti stregoni non ha soltanto coltivato l’illusione pseudo-escatologica che fosse giunta, insieme alla fine della storia, la pienezza dei tempi, ma ha pure attuato un’opera di plagio e corruzione delle coscienze senza precedenti per intensità e profusione di mezzi – una mistificazione anch’essa presto sconfinata nel terreno della teologia.

    Perché i signori della globalizzazione sono riusciti, almeno per qualche istante, a trasformare la Scimmia in Dio. A inculcare nelle masse la persuasione che il tornaconto esclusivo degli happy few fosse il paradiso. Per tutti, indistintamente. E invece, come sappiamo, è stato, e lo è tuttora, l’inferno.

    L’anno decisivo 2016 ha squarciato il velo, proclamando il fallimento della Grande Parodia. Per chi ha occhi e orecchie, l’uscita dell’Inghilterra dalla morsa letale dell’Unione Europea e la sconfitta dell’élite cosmopolita alle presidenziali americane non possono significare che questo: l’incantesimo è finito, il tentativo di sovversione sventato. E le nazioni non sono morte, come ci è stato invece raccontato troppo a lungo; il risveglio dei popoli non è più un’ipotesi strampalata ma una verità ormai positiva.

    Fra Ottocento e Novecento la Prima globalizzazione, imposta dall’imperialismo britannico insieme al dogma perverso della libera circolazione delle merci, dei capitali, delle persone, creò squilibri catastrofici su scala mondiale:

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