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Project Management. Fondamenti Psicosociologici di Leadership e Comunicazione nella gestione dei gruppi di lavoro - Nuove Risposte a Vecchi Quesiti - L'obbligo di una riflessione alla luce dell'ultima edizione dello Standard
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E-book343 pagine4 ore

Project Management. Fondamenti Psicosociologici di Leadership e Comunicazione nella gestione dei gruppi di lavoro - Nuove Risposte a Vecchi Quesiti - L'obbligo di una riflessione alla luce dell'ultima edizione dello Standard

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Questo libro parla di leadership, gruppi, comunicazione e si rivolge a coloro che guidando gruppi, vogliono esserne non i manager, né i coach, men che meno i capi e nemmeno i dirigenti ma i loro leader. L'attuale dibattito nelle organizzazioni, quando si parla di progetti, si è spostato quasi per intero sulle metodologie (Waterfall, Agile, Scrum, etc.) come se i gruppi fossero una realtà a prescindere. É come se cucinando un piatto ci concentrassimo sul metodo di cottura piuttosto che sulla qualità della materia prima. Tuttavia se quest'ultima è scadente, anche scegliendo il modo migliore di cuocerla quali possibilità avremo di ottenere successo con i nostri piatti? Così il libro riporta al centro del dibattito i gruppi. Cosa li rende uno strumento di azione e potere, cosa permette loro di dar vita a un leader con una leadership potente. Si continua a credere che quest'ultimo sia tanto più capace, quanto più si differenzia dal gruppo per la sua unicità, mentre è vero l'esatto contrario. Sulla comunicazione, infine, il libro affronta i meccanismi alla base della sua efficacia e ciò che ne mina la persuasività, un aiuto a chi della leadership ha fatto la propria professione.
LinguaItaliano
Data di uscita29 ott 2021
ISBN9791220361286
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    Anteprima del libro

    Project Management. Fondamenti Psicosociologici di Leadership e Comunicazione nella gestione dei gruppi di lavoro - Nuove Risposte a Vecchi Quesiti - L'obbligo di una riflessione alla luce dell'ultima edizione dello Standard - Romina Mandolini

    PERCHÉ LEGGERE QUESTO LIBRO

    Questo libro parla di leadership, di gruppi e di comunicazione. Si rivolge a quei professionisti che guidano gruppi e che di questi vogliono essere non i manager, né i coach, men che meno i capi e nemmeno i dirigenti ma i loro leader. La leadership tuttavia, come scopriremo a breve, è qualcosa che si va costruendo nel rapporto con il gruppo e non qualcosa che esiste di là da questo. Parimenti i gruppi trasformano la realtà sociale nella quale operano, perseguendo i propri scopi quando sono capaci di farsi unità mutando, nello strumento di potere di un leader. A loro volta leadership e gruppi sono strutturati su un sistema di relazioni, connessioni e scambi fatti di comunicazione. Motivo per il quale questi tre fenomeni vanno studiati alla luce delle interconnessioni e interrelazioni che l’uno vanta verso l’altro.

    Il perché del nostro interesse su questi tre ambiti nasce da due precise osservazioni di cui la prima è una semplice constatazione.

    La maggior parte dei problemi da cui è afflitta la società odierna sono riconducibili precisamente a tre aree: il vuoto di leadership, lo sfarinamento delle relazioni all’interno dei gruppi sociali e il conflitto tra l’aspirazione a comunicare con gli altri e l’incapacità di riuscirvi. Ciò nonostante, in special modo all’interno delle organizzazioni, c’è una crescita esponenziale di interesse per tutto ciò che ha a che fare con queste stesse tematiche. Una specie di chiodo fisso nel ricercare a tutti i costi, le chiavi del loro successo in libri, corsi formativi, webinar, che anche sotto l’epidemia da Covid19 non hanno smesso di registrare un grande successo di pubblico. In effetti, di là da quello che si sarebbe potuto immaginare, l’esperienza della pandemia ha riportato prepotentemente all’attenzione un sentimento già consolidato in molti professionisti, l’urgenza di individuare nuovi paradigmi e soluzioni alternative in tutte e queste tre aree.

    Quella odierna è, in effetti, una leadership inaffidabile, svuotata di carisma, assente di credibilità, senza nessuna serietà o pudore, priva di etica e in molti casi perfino di umanità. In politica, tra il management all’interno delle organizzazioni, nei settori dell’educazione-istruzioni, nelle varie categorie professionali, nelle famiglie, insomma in tutti quei ruoli che si trovano a svolgere funzioni di governo nei gangli della società, troppo spesso siamo davanti ad esempi di leadership fallimentari. La sua inadeguatezza si misura non solo nell’incapacità di individuare soluzioni innovative agli irrisolti problemi con cui si confronta questa società e i suoi individui, ma soprattutto nel perpetuarli in virtù dell’inettitudine, incapacità, arroganza, corruttibilità, sconsideratezza, irresponsabilità e immoralità di chi la esercita. Si guardi alla gig economy o alla sharing economy e più in generale all’esempio increscioso offerto da tutte quelle aziende il cui core business si è sviluppato grazie al web e al meccanismo del lavoro a chiamata. Molte hanno visto centuplicare i propri fatturati, alcune si posizionano tra le prime al mondo come capitalizzazione di mercato eppure, quando si celebra il successo di quelle leadership, tutti fanno finta di dimenticare che i motivi non si rintracciano sempre nell’ingegno, nella creatività, nell’innovazione vergognosamente celebrate, ma nelle flotte di lavoratori sfruttati, precarizzati, sottopagati senza diritti né tutele insieme all’evasione strutturale, conclamata e sistematica di tasse, tributi nei Paesi dove operano.

    Riguardo invece la salute dei gruppi sociali, chiunque abbia uno sguardo critico, attento verso la società e le organizzazioni che la caratterizzano, osserva l’anomalia che si registra nell’alto tasso di litigiosità, conflittualità, inimicizia, rivalità che oggigiorno ne caratterizza l’esistenza. Ognuno di noi, in quanto attore sociale, opera al loro interno (siano esse aziende, gruppi di lavoro, partiti politici, team sportivi, etc.) e sperimenta su se stesso ogni giorno questa realtà. Raramente le singole personalità che li compongono, riescono a porre gli obiettivi e il bene comune davanti ai propri personalismi o protagonismi. Chiedete a qualunque professionista quanto del suo tempo lavorativo passa a difendersi dagli attacchi subiti dai propri stessi colleghi e vi sorprenderete nello scoprire l’estensione del fenomeno.

    Dopodiché c’è la comunicazione e questa odierna, si dice, è indiscutibilmente la società della comunicazione. Da un lato la telefonia mobile e dall’altro le innumerevoli comunità digitali quali i Social Media, frammisti a molte altre piattaforme digitali che offrono la possibilità di condividere dati e informazioni, insieme a blog, intranet aziendali, forum tematici e testate giornalistiche on line diventate spazi di confronto tra lettori. Insomma, ambienti all’interno dei quali tutti interagiscono, parlano, straparlano e sparlano su qualunque argomento. Ciononostante, molti indicatori sociali testimoniano la pandemica diffusione di una serie di patologie individuali dovute per lo più alla solitudine e all’isolamento che ne deriva (depressione, disturbi alimentari, dipendenze da droghe, alcol, suicidi, etc.), insieme all’aumento di un sentimento di disinteresse e insensibilità verso la vita collettiva (stanchezza di vivere, rimozione delle responsabilità, crisi di empatia nelle relazioni interpersonali).

    Come mai a fronte di questa poderosa mole significativa di corsi, seminari, approfondimenti, libri cui accennavamo agli inizi, intorno ai quali si polarizza da anni l’interesse di innumerevoli categorie professionali, non corrisponde un’altrettanta azione terapeutica ad argine delle derive cui accennavamo poc’anzi? Nulla di cui si intravedano anche solo timidi segnali all’orizzonte. A nostro avviso, ciò è dovuto a una serie di motivi tra i quali spicca la smisurata fame di soluzioni spicciole valevoli per tutte le situazioni, a scapito della volontà di sfiorare e dunque risolvere la causa da cui tutti questi problemi derivano: l’individualismo autoreferenziale in cui l’essere umano si è autoconfinato. Dove questi si erge a dio di se medesimo non riconoscendo altra autorità se non la medesima e nessun altro bene, interesse, desiderio che non siano i propri. Davanti a questo, le ricette facili per il successo che in questi tre ambiti molti libri propinano, non sono altro che aria fritta.

    Riguardo questa prima nostra osservazione, il fine che questo libro si propone è in effetti, assai ardito. Contribuire, con le proprie riflessioni, a rendere popolare un dibattito che molti prima di noi hanno già portato alla ribalta in vari ambiti e discipline, così da riformare un paradigma culturale che ha preferito la competizione alla collaborazione, il conflitto all’accordo, il bene di una categoria di esseri a scapito di tutti gli altri, la felicità di pochi sulla pelle dei molti. Questa trasformazione passerebbe attraverso un nuovo modo di concepire la leadership e una nuova classe dirigente che se ne faccia interprete, capace di bilanciare e coniugare lo sviluppo personale e il benessere collettivo, l’azione sociale con l’etica, i successi imprenditoriali con la creazione di valore per tutti, il proprio tornaconto con la responsabilità sociale, i diritti con i doveri, la ricchezza personale con l’equità, la competenza con la benevolenza, gli attributi dei ruoli con la credibilità. Una nuova classe dirigente provvista di pensiero sistemico e quindi incapace di perdere di vista i legami che in quanto parte vanta, con la totalità cui appartiene. In effetti, questa attitudine a considerare non la parte ma l’insieme, non l’io ma il noi si imporrà da sé quando saremo costretti a ragionare in termini di successo o insuccesso in queste tre aree. Anche se ciò non significherà mai patrocinare l’altro opposto, quello del comunitarismo estremo, quel noi difatti non sarà mai una categoria esclusivista poiché sarà sempre interrelato al suo contraltare, l’altro.

    Dicevamo tuttavia agli inizi che la scrittura di questo libro è nata da due osservazioni, ebbene la seconda è che mentre eravamo impegnati nelle considerazioni di cui sopra, il Project Management Institute pubblicava l’ultima versione dello Standard concernente questa disciplina¹ che per i non addetti ai lavori, raccoglie le metodologie e le prassi riservate alla gestione dei progetti e dei gruppi di lavoro che ne contrassegnano la vita. Si trattava di un documento, a dir la verità, molto atteso che con le innumerevoli novità introdotte formalizza la maturità e la vitalità di una comunità di professionisti – di cui chi si scrive si pregia di far parte – che è riuscita a inglobare e a rinnovarsi alla luce delle importanti trasformazioni che stanno investendo il mondo delle organizzazioni. Senza tuttavia mai perdere, indebolire o tradire la propria identità.

    Studiando attentamente questa nuova edizione, composta di ben due documenti, ci siamo accorti che la maggioranza dei princìpi² (valori e precise attitudini, abilità, capacità, disposizioni della persona) sui quali il Project Management Institute ha richiamato l’attenzione, ponendoli come elementi identitari quindi a ispirazione del pensare e dell’agire specialistico di ogni professionista, affondano la propria radice in queste stesse tre aree. Sia chiaro, queste sono state da sempre il pane quotidiano di questa comunità, tuttavia le evoluzioni che stanno interessando il mondo del lavoro, gli scenari sempre più mutevoli, volatili, complessi, incerti, hanno reso ancora più urgente la necessità, come anticipavamo agli inizi, di individuare delle prerogative (qualità e caratteristiche imprescindibili di ogni attore e della propria cultura professionale) che messe in pratica, possono realmente agevolare il successo di un progetto.

    I problemi tuttavia restavano i medesimi cui accennavamo poc’anzi. Porsi l’obiettivo, ad esempio, di creare all’interno del gruppo un clima collaborativo e partecipativo implica l’avere chiaro cosa permette a dei singoli individui di riunirsi sotto un noi e al tempo stesso sapere come realizzarlo, operando sugli elementi che possono inficiarne la riuscita.

    Motivo per il quale abbiamo ritenuto che le riflessioni proposte in questo libro, potessero essere utili anche anzi soprattutto a questa categoria professionale. Deve tuttavia essere chiaro, da subito che questo libro non entrerà nello specifico della metodologia o delle prassi del Project Management, né sarà una disamina dei princìpi enunciati nell’ultima edizione dello Standard. I suoi scopi sono, in effetti, diversi, anche se implicitamente correlati. Se difatti la nuova edizione dello Standard, come le precedenti, si pone l’obiettivo di rappresentare le qualità e le condizioni che preludono al successo dei progetti e alla creazione di valore. Questo libro si pone l’obiettivo di far luce sui meccanismi che si pongono alla base di quelle condizioni, quando riguardano la leadership, i gruppi e la comunicazione, evidenziandone da subito le principali aree di problematicità.

    Dunque studieremo la natura del materiale che li compone e le dinamiche che preludono alla loro nascita, che quando avviene in una modalità sana, ne decreta il felice e proficuo sviluppo futuro. Evidenziando ogni volta quelle concause che ne decretano il successo e al tempo stesso, la tossicità.

    Tra questa miscellanea di elementi eterogenei si snoderà questo percorso circolare, dove un argomento richiamerà l’altro arricchendolo di nuovi significati. Nel procedere nella nostra disanima seguiremo un approccio multidisciplinare, costruito in parte su conoscenze derivate dalle scienze – Sociologia della Comunicazione, Psicologia Sociale, Psicologia Cognitiva, Antropologia culturale – e in altra parte, dall’esperienza da noi dedotta direttamente sul campo della gestione organizzativa e partecipativa dei gruppi di lavoro.

    Tutto ciò, uniti nel desiderio comune di creare a una società rigogliosa, fiorente e al tempo stesso più giusta, più felice che nell’umanità e non solo in una parte di questa, identifichi la propria famiglia e nel mondo, la propria casa.

    ___________________

    ¹ Project Management Institute Guida al Project Management Body of Knowledge – Guida PMBOK® Settima Edizione e Lo Standard per il Project Management, 2021.

    ² Ci riferiamo ai princìpi indicati ne Lo Standard per il Project Management citato nella nota precedente.

    IN PRINCIPIO ERA IL VERBO

    Siamo consci di aver aperto questo capitolo con un titolo pretenzioso e in parte ce ne scusiamo ma nel viaggio che stiamo per iniziare, è bene mettere in chiaro subito con che cosa è che abbiamo a che fare quando ci si appresta ad affrontare tematiche – Comunicazione, leadership e Gruppi – rilevanti come queste.

    Ad esempio, riguardo alla prima, le parole sono solo parole? Il celebre antropologo Bronisław Kasper Malinowski, in virtù dei suoi studi sugli isolani delle Trobriand e sulle culture orali, era convinto che le parole non fossero solo semplici suoni quanto piuttosto poteri in azione³. Effettivamente il titolo di questo capitolo riprende il primo verso del Prologo del Vangelo di San Giovanni, uno dei quattro Vangeli canonici della Bibbia cristiana. In questo, il potere creativo divino, si esprime proprio attraverso la parola è difatti scritto: «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste». Non è tuttavia l’unica testimonianza, l’India ad esempio ha sviluppato una vera e propria scienza, quella dei Mantra, dove sillabe, parole, frasi sanscrite sono combinate e ripetute durante lo stato meditativo in funzione del legame intrinseco che queste vantano con il potere di alcune divinità specifiche, con l’Assoluto o con i cinquanta suoni primordiali collegati alla parola sacra Om. Anche le lettere dell’alfabeto ebraico – suoni e segni – vantano importanti poteri derivanti dalla correlazione con la sapienza divina. In entrambi questi due esempi il suono o fonema, ha un ruolo preponderante e dunque particolare attenzione riveste la sua corretta pronuncia, nel suo aspetto di vibrazione, lunghezza d’onda o energia.

    Ma gli esempi potrebbero continuare ad oltranza. Tra gli Aborigeni australiani c’è la convinzione che il creato con tutti i suoi esseri, rocce, animali siano stati creati dai propri antenati mitici, cantandone il nome. Così i Baruya della Nuova Guinea credono che pronunciare il nome di qualcosa significhi esercitare su quella cosa un potere. Per i Dogon del Mali il suono di alcune parole ha dirette corrispondenze con la persona, la sua personalità e lo spazio cosmico all’interno del quale questa si colloca. Inoltre, in ogni parte del globo i rituali magici si basano su parole che hanno il potere di evocare o controllare certe forze e molti riti di iniziazione culminano con il comunicare al neofita, una parola segreta che gli conferisce un certo potere.

    1. Di cosa sono fatte le parole

    Come è noto a tutti noi, la lingua di cui ci serviamo nasce da una convenzione sociale, un accordo cui implicitamente aderiscono i parlanti di una comunità quando utilizzano i suoi segni e li combinano secondo norme e regole grammaticali che permettono agli utilizzatori di creare messaggi dotati di senso. Tuttavia molti credono che le parole non siano altro che etichette attaccate alle cose. Che la realtà che descrivono, esista di là del fatto che ci sia stata, o meno, una mente umana a pensarla. Secondo questo ragionamento una roccia è tale perché ha determinate caratteristiche (è dura, pesante, appartiene al mondo minerale, etc.) e all’individuo non è fatto altro che indicare, attraverso la parola, questa realtà.

    Le cose purtroppo per noi sono un poco più complicate di così e più avanti capiremo meglio anche il perché. Per ora accontentiamoci di sapere che non ci sono correlazioni naturali tra le parole e la realtà che descrivono, queste difatti sono il risultato dell’attività interpretativa prima e comunicativa dopo, che compie l’individuo sulla realtà nella quale è immerso. A valle di ogni idea che maturiamo sulla realtà, su un fenomeno su un ente e in funzione del desiderio di comunicare quel pensiero, idea, concetto nascono le parole le quali e a loro volta, all’interno della cultura cui appartengono i parlanti, legittimano l’esistenza della realtà che descrivono. Proviamo a spiegarci meglio con un esempio.

    Quando una mattina d’inverno usciamo di casa e assistiamo a una precipitazione atmosferica di piccoli cristalli esagonali di ghiaccio riuniti in fiocchi, identifichiamo quel fenomeno con la parola neve che utilizziamo, quando parlando con un nostro familiare al telefono, gli diciamo di coprirsi bene o di fare attenzione alla guida, perché fuori sta nevicando. I primi antropologi che tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento studiarono gli Inuit (eschimesi) si accorsero che questa popolazione aveva coniato un numero significativo di parole con cui indicare questi stessi fiocchi di ghiaccio secondo il modo in cui cadevano, dell’intensità, della consistenza, etc., mentre era inesistente un termine più generale simile al nostro neve. Questa osservazione, replicabile su altri fenomeni in altrettante culture, mostra come le parole non siano il perfetto riflesso dell’evento naturale in sé, che non può che essere equivalente in entrambi i luoghi, ma il risultato dell’umana necessità di dettagliare l’ambiente in cui le culture operano così da organizzare al meglio la propria esperienza. Per gli Inuit, questa esigenza di classificarlo in maniera così particolareggiata, coniando innumerevoli parole, si lega al loro processo di adattamento all’ambiente. Alla nostra cultura invece, un solo termine, per quello stesso motivo è risultato più che sufficiente.

    Questo significa che il «processo di costituzione del linguaggio è al contempo processo di analisi e di interpretazione dell’esperienza, che, da un continuo quale è originariamente, viene distinta, frazionata, classificata, diversamente nelle diverse lingue, così come, ad esempio, lo spettro solare che di per sé è un continuo dal viola al rosso viene distinto in colori particolari diversamente nelle varie lingue. Come osserva Miller⁴, molte delle differenze che noi abitualmente percepiamo tra oggetti o tra eventi, ci sfuggirebbero, se la società non ci avesse obbligato ad apprendere che essi hanno nomi diversi.

    Non esiste un’analogia figurativa fra il linguaggio e la realtà, una corrispondenza perfetta fra gli elementi e la struttura di una lingua, da una parte, e gli elementi e la struttura della realtà, dall’altra. Fra i segni e i dati dell’esperienza non intercorre nessun rapporto diretto, nessun legame naturale. Il legame fra il segno linguistico e la realtà si costituisce attraverso l’attività interpretativa e la comunicazione umana. Ciò che un’espressione linguistica simboleggia non è la realtà, ma un’interpretazione della realtà, una particolare organizzazione dei dati dell’esperienza».

    In questa accezione, le parole hanno dunque una rilevanza fondamentale per la nostra rappresentazione del reale. I significati che esse ricoprono ci informano sugli aspetti che di questo abbiamo colto, isolato, pensato, interpretato rispetto a quelli che invece abbiamo trascurato perché non di nostro interesse o a noi ignoti. Per questo le parole trovano la loro esplicitazione solo all’interno di un particolare sistema linguistico e socioculturale di riferimento. Nel caso degli Inuit difatti, la nostra parola neve non solo non trova equivalenze nel loro linguaggio ma per l’organizzazione di quel sistema socioculturale è complicato perfino spiegare il senso che questa riveste nella nostra cultura. Del resto chi ha familiarità con le traduzioni di testi da lingue straniere, conosce benissimo questa difficoltà quando si imbatte in termini i cui sensi non esistono nelle diverse lingue.

    Dunque, sotto questo punto di vista, le parole sono poteri poiché legittimano quello che il mondo è o non è per una data comunità, lo rappresentano, lo descrivono, gli conferiscono i significati di interesse per quella specifica cultura. Parimenti raccontano cosa è che io sono o non sono nella società che questa cultura patrocina, cosa significa riunirsi sotto un noi e che cosa sono gli altri. Quindi quando assegniamo un nome a qualcosa, un po’ come per gli Aborigeni australiani, quel qualcosa si struttura per noi in una forma attraverso la rappresentazione mentale dell’oggetto cui la parola si riferisce e in questo modo viene al mondo, trova una sua legittimità nel nostro mondo sociale o privato.

    Le parole dunque, sono un simbolo della creatività umana e in quanto tali nascono in virtù del nostro bisogno di comunicare, di condividere la nostra esperienza personale e sociale. Sono segni linguistici fatti di suoni, significati e questi ultimi sono la materia preziosa di cui sono composte le ontologie che fondano le società umane, la sostanza intorno alla quale si strutturano le culture, il delicato materiale con il quale fabbrichiamo le nostre identità.

    Quindi, per rispondere alla nostra domanda iniziale, le parole sono molto più di semplici parole. Hanno la forza e il potere di cambiare, costruire, distruggere, rinnovare, perpetuare, controllare la realtà degli individui, delle loro relazioni e delle loro società. Questo è il motivo per cui tutti vogliono imparare utilizzarle, in particolar modo chi gestisce risorse umane o aspira a essere un riferimento per gruppi di persone. Da qui il grande interesse per i libri che trattano di comunicazione, ma spesso senza aver chiaro davvero quello che cercano e senza aver compreso cosa essa realmente sia.

    2. Comunicazione, Leadership e Gruppi. Di cosa sono fatti?

    Dalle parole alla comunicazione il salto è breve.

    Molti hanno scritto di e sulla Comunicazione; solo digitando questo termine su Google libri⁶, il motore di ricerca restituisce circa 1.000.000 di libri che hanno utilizzato questa parola nel loro titolo. Si tratta di un tema comprensibilmente affascinante e molti di questi testi, nel definirne la natura, ha utilizzato il paradigma della comunicazione intesa come trasmissione di informazioni. Il che è senz’altro vero è uno dei motivi per cui comunichiamo, tuttavia in linea con quanto dicevamo poc’anzi a proposito delle parole c’è una modalità diversa di raffigurarsi questa pratica: Comunicazione intesa come condivisione di significati, rappresentazioni, esperienze.

    Abbiamo detto poc’anzi che «comunicare è […] rendere comune ciò che è proprio, ciò che è ancora un fatto privato, vissuto in prima persona, è rivelare ciò che non rientra nel mondo dell’altro io – che prende così coscienza della relatività del proprio punto di vista –, nel manifestare all’altro la propria alterità»⁷.

    Questa condivisione comporta lo sforzo, l’impegno, la volontà, l’interesse dei parlanti di confrontarsi per individuare un vocabolario comune di significati grazie al quale comprendersi, così da riuscire a cogliere il senso di quello che stanno cercando di esprimere. Il che non significa uniformarsi su quei significati, ma semplicemente riconoscere la necessità di intendersi su quello di cui si sta parlando per poi, il passo successivo, manifestare dissenso, accordo, continuare a ignorarsi o avviare un confronto più approfondito.

    La necessità di raccordarci sul senso di quello che stiamo cercando di comunicare, nasce dal fatto che le parole o più in generale i segni di cui ci serviamo per farlo, sono lo strumento più immediato tramite il quale cerchiamo di esternare la nostra vita interiore, il nostro vissuto, la nostra personale e particolare esperienza in tutte le sue sfumature. Apparentemente, ogni volta che utilizziamo le parole di una lingua, ci sembra di fare semplicemente riferimento ai loro significati precostituiti ma in realtà questi non coincidono mai con il senso che noi stiamo cercando di condividere. Questi sensi sono solo il materiale basilare dal quale poter avviare la nostra costruzione. Sono lo strumento per prendere coscienza di quello che vogliamo comunicare, per confezionarne il senso ma la vasta gamma del nostro vissuto emozionale, delle nostre riflessioni, aspirazioni, sogni, fantasie, intuizioni non viene espressa assemblando semplicemente mattoncini dai significati predeterminati.

    Le persone difatti ne allargano, restringono i significati, ne estendono i confini semantici fino ad abbracciare sensi nuovi a volte imprevedibili e tutto questo in funzione del bisogno che abbiamo di condividere sempre di più e sempre meglio quello che proviamo, osserviamo, tocchiamo, assaporiamo, percepiamo, ascoltiamo, conosciamo, comprendiamo, ignoriamo, sogniamo, temiamo, desideriamo anche quando apparentemente inesprimibile. È questa innovazione o creatività espressa tramite una lingua, che quando i parlanti se ne servono li obbliga a una verifica, un confronto continuo sul senso in cui deve essere inteso quello di cui vanno parlando.

    La comunicazione dunque è e si sostanzia nella condivisione e in quanto tale è la base di tutte le nostre interazioni quotidiane. Quando queste interazioni perdurano nel tempo, si trasformano in vere e proprie relazioni sociali: di lavoro, d’affari, parentali, d’amore, d’amicizia, di vicinato, di studio, etc.. Questa fittissima rete di relazioni, di cui ciascuno di noi è un nodo, va a delineare la struttura portante di cui sono fatte le comunità, le aziende, i gruppi, le famiglie o più in generale la società. Il che significa che tutte le organizzazioni umane, di là dalle loro dimensioni, sono fatte di relazioni e quest’ultime si costituiscono sulla comunicazione che ne è la premessa. Dopodiché il risultato dello stare in relazione, comporta l’istaurarsi di una serie di dinamiche comuni a tutti i gruppi – collaborazioni, conflitti, reciprocità, emulazione, competizione, solidarietà, etc. – e a queste fanno da sfondo ruoli, status, norme, scopi, valori e pratiche.

    Dunque la società

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